Il mondo delle telecomunicazioni sta vivendo oggi una nuova e profonda transizione. L’avvento delle reti 5G, caratterizzato da una tecnologia mista fibra-radio, si preannuncia come una delle più radicali innovazioni nel mondo delle telecomunicazioni, che porterà enormi vantaggi nella trasmissione dei dati con bassissima latenza, in grado di supportare lo sviluppo dell’Internet delle Cose.
Se sul fronte tecnologico è chiaro quali saranno le caratteristiche e le opportunità offerte delle reti 5G, è ancora difficile prevedere come reagirà il mercato – sia dal lato dell’offerta sia da quello della domanda. Pertanto, i player delle telecomunicazioni si stanno preparando a far fronte alle prossime evoluzioni del settore, ancora incerte, seguendo le stesse dinamiche con cui hanno affrontato le precedenti transizioni: prove, supposizioni, osservazione dei competitor, ascolto del mercato.
Quando le evoluzioni di mercato sono così forti da generare un impatto sulla cultura aziendale, l’investimento sui dipendenti, attraverso una strategia di Change Management, è cruciale. Il Change Management (traducibile in “gestione del cambiamento”) riguarda l’introduzione di nuovi processi di un’organizzazione e/o la gestione di persone che stanno vivendo un cambiamento. Attuare una strategia di change management significa investire sul futuro dell’azienda e sulla sua capacità di affrontare e superare con successo il cambiamento.
Il compito della funzione HR di preparare adeguatamente l’azienda e i propri collaboratori ad affrontare nuovi scenari è un percorso articolato e complesso. La resistenza al cambiamento nelle persone è un fenomeno naturale, eppure il sapersi adattare ai rapidi cambiamenti, reinventandosi continuamente, risulta essere una competenza distintiva per avere successo nel nuovo scenario, per raggiungere nuovi obiettivi, adottare nuove abitudini.
In questo contesto, Linkem, tra i principali operatori del mercato italiano e leader nel settore della banda ultralarga wireless con una rete di accesso proprietaria su frequenze in grado di supportare il segnale 5G, ha definito un piano d’azione per la formazione dei dipendenti che fa leva sull’adeguamento delle abilità al fine di creare le condizioni migliori per gestire il cambiamento. E MAAM – il primo e unico master al mondo che trasforma l’esperienza della genitorialità e, più in generale le intense esperienze di cura, in competenze chiave per la crescita professionale – è al centro di questo piano.
L’Osservatorio Genitorialità, una Palestra di Management monitora e analizza i dati prodotti dalle aziende associate a Valore D e iscritte al programma MAAM, per individuare in che modo la pratica della maternità e della paternità influenza le capacità manageriali e professionali degli iscritti – ma anche viceversa: in che modo le competenze professionali possono facilitare la pratica genitoriale.
In un’indagine mai condotta prima, il primo report dell’Osservatorio – pubblicato nel giugno 2019 – rivela come la pratica genitoriale impatta alcune tra le capacità più ricercate dal mondo del lavoro: quelle collegate all’innovazione.
La ricerca evidenzia l’opportunità per le aziende di valorizzare il proprio capitale umano attraverso l’introduzione di programmi in grado di guardare alla genitorialità come pratica di formazione delle soft skills: l’esperienza di vita vissuta dai genitori è infatti una palestra continua di sfide ed errori che migliora le capacità innovative, sia durante le attività quotidiane sia nella prospettiva di lungo termine, rivelandosi dunque un potenziale motore di competitività.
Si tratta di un’analisi quantitativa e qualitativa elaborata sulle risposte di 3.396 neogenitori (madri e padri con età media di 38 e 39 anni), partecipanti al percorso formativo MAAM e dipendenti di 16 aziende (Accenture, Alleanza Assicurazioni, Alstom, Barilla, BCG, BIP, Coca-Cola HBC Italia, Crédit Agricole, Danone, Enel, ENI, Generali, Poste Italiane, SACE, UniCredit, Unipol).
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La prima ricerca dell’osservatorio congiunto di Valore D e MAAM rivela come la nascita di un figlio aumenti le competenze innovative a disposizione dei genitori sul lavoro.
Milano, 10 giugno 2019 – MAAM e Valore D – rispettivamente il primo metodo formativo per le aziende che trasforma l’essere genitore in un vero e proprio master in competenze soft e la prima associazione di grandi imprese italiane creata per sostenere l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva nelle organizzazioni – annunciano oggi la nascita dell’Osservatorio Genitorialità, una palestra di management, un gruppo di ricerca congiunto che, per primo al mondo, osserverà in che modo la pratica genitoriale influenza le capacità manageriali delle persone.
Valore D e MAAM presentano contestualmente i risultati del primo studio, che indaga l’intersezione tra la genitorialità e i comportamenti innovativi: Problem solving, Capacità di gestione del cambiamento e Comunicazione risultano essere le principali competenze dell’innovazione più allenate dalle mamme e dai papà intervistati e il 49% di questi dichiara che i figli sono lo stimolo principale da cui originano le loro azioni innovative.
Si tratta di un’analisi quantitativa e qualitativa elaborata sulle risposte di 3.396 neogenitori (madri e padri con età media di 38 e 39 anni), partecipanti al percorso formativo MAAM e dipendenti di 16 aziende che appartengono alla rete di Valore D (Accenture, Alleanza Assicurazioni, Alstom, Barilla, BCG, BIP, Coca-Cola HBC Italia, Crédit Agricole, Danone, Enel, ENI, Generali, Poste Italiane, SACE, UniCredit, Unipol). Il campione oggetto di studio ha figli di età compresa tra 0 e 3 anni, il 22% occupa posizioni manageriali e di questi il 46% sono donne e il 54% sono uomini.
Tenendo come riferimento documenti scientifici che indagano gli ambiti del comportamento innovativo, si riscontra che:
La ricerca a cura dell’Osservatorio Genitorialità, una palestra di management evidenzia l’opportunità per le aziende di valorizzare il proprio capitale umano attraverso l’introduzione di programmi in grado di guardare alla genitorialità come pratica di formazione delle soft skill: l’esperienza di vita vissuta dai genitori è infatti una palestra continua di sfide ed errori che migliora le capacità innovative[2], sia durante le attività quotidiane sia nella prospettiva di lungo termine, rivelandosi dunque un potenziale motore di competitività.
“Il tema della genitorialità condivisa è da sempre nell’agenda di Valore D, e rappresenta uno snodo chiave per il cambiamento culturale del nostro paese, con impatto sull’aumento della presenza delle donne nel mondo del lavoro e nelle posizioni manageriali- ha spiegato Barbara Falcomer, direttrice generale di Valore D. Già nel 2016 l’associazione ha prodotto – a partire dalle buone prassi delle aziende associate – un documento sulla genitorialità in azienda, mappando le azioni più innovative ed efficaci di supporto alla maternità e alla paternità. Nel 2017 abbiamo inserito la genitorialità tra i principi cardine del Manifesto per l’occupazione femminile, presentato alle istituzioni con l’endorsment del G7 Italiano e firmato da più di 140 aziende. La ricerca in collaborazione con MAAM oggi rappresenta un altro importante passaggio in quanto evidenzia una correlazione positiva tra l’esperienza genitoriale e la crescita professionale e manageriale, rompendo lo stereotipo che pesantemente influenza la nostra cultura e dando alle aziende nuove chiavi di lettura”.
“Riconoscendo il potenziale formativo delle esperienze di vita e usando il cosiddetto apprendimento “life based”, le aziende potrebbero anche ridurre notevolmente i costi di formazione che, secondo l’Istat, in Italia hanno raggiunto i 4,5 miliardi (e il 40% ha riguardato proprio la formazione di competenze soft)” ha commentato Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value e co-autrice di MAAM. “Si tratta di iniziare a usare nuovi modi di apprendere per rendere sostenibili nuovi modi di lavorare: si tratta di vedere e usare meglio ciò che c’è già, come la complessità della vita delle persone”.
[1] Riferimento della ricerca è il modello sviluppato da T.M. Amabile (1988) A Model of Creativity and Innovation in Organizations. Research in Organizational Behaviour che analizza 4 ambiti del comportamento innovativo – tratti della personalità, automotivazione, orientamento al rischio, competenze sociali.
[2] L’innovazione è considerata uno dei fattori chiave del progresso e del vantaggio competitivo delle aziende, come dimostra anche l’indagine Istat secondo cui il costo totale annuale della formazione in Italia ha raggiunto i 4,5 miliardi e il 40% ha riguardato proprio la formazione di competenze soft, come quelle relazionali o come evidenzia il Global CEO Study di IBM, che ha intervistato oltre 1.500 CEO di 60 paesi e 33 settori a livello globale, concludendo che la creatività è la competenza della leadership più importante per il successo.
Abbiamo accolto nei nostri uffici la troupe giornalistica di Tempi Moderni trasmissione della RSI Radiotelevisione Svizzera che ha intervistato Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value e co-autrice MAAM.
Da Parma, anche Francesco Del Porto, President Region Italy & Global Chief Customer Officer di Barilla, e Daniela Sorrentino, HR Senior Manager Region Italy di Barilla, hanno portato la loro testimonianza di azienda virtuosa che, attraverso MAAM, valorizza la genitorialità dei propri dipendenti.
Cambiamo le prospettive della genitorialità e rendiamo i genitori una risorsa preziosa per le aziende: la nostra best practice conquista l’Europa!
Guarda il servizio anche sul sito di RSI Radiotelevisione Svizzera
Il tasso di occupazione femminile in Italia ha raggiunto il 49%, record positivo storico per il nostro Paese. Eppure ci troviamo ancora ben lontani dalla media europea, che si aggira intorno al 60%, e ci posiziona penultimi in Europa, primi solo alla Grecia.
Osservando più a fondo i dati, si scopre che il 30% delle donne lascia il proprio lavoro dopo la nascita di un figlio, dato che peggiora ulteriormente con l’arrivo del secondo figlio. La fonte del problema non è certamente da imputare alla carenza di talenti femminili sul lavoro (secondo il rapporto Global Gender Gap del World Economic Forum, siamo, infatti, primi al mondo per numero di donne iscritte all’università e il 60% dei laureati con lode nel nostro Paese è donna), piuttosto alla mancanza di un welfare adeguato capace di sostenere le esigenze delle famiglie, caricando ancora quasi esclusivamente sulle donne i principali problemi e impegni legati alla cura e alla gestione della famiglia. Lo dimostra il fatto che il 40,9% delle donne con figli lavora part-time, percentuale che non supera il 10% se consideriamo gli uomini.
Della condizione delle donne nel mondo del lavoro e dei tanti vantaggi che una maggiore presenza femminile potrebbe portare all’economia e alla società nel suo complesso si è parlato lo scorso 9 maggio durante il convegno “La rivoluzione gentile: perché il mondo del lavoro ha bisogno delle donne” organizzato da ESTE Edizioni e condotto da Chiara Lupi, Direttore Editoriale della casa editrice, a cui è intervenuta anche Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value.
“Cosa c’entrano le donne con il potere?” è il titolo dell’intervento di Riccarda Zezza, che ha messo in luce come in millenni di storia ed evoluzione della specie umana, gli uomini abbiano creato le regole e forgiato il concetto di potere, dalla politica, all’economia. “Solo recentemente è stato riconosciuto il valore economico della Diversity e le donne sono state chiamate a giocare il proprio ruolo anche negli ambiti del potere, ma con un limite: adattarsi alle regole vigenti, ai modelli comportamentali e di leadership costruiti negli anni, che appartengono alla sfera maschile” spiega Zezza.
Ecco perché il mondo del lavoro in primis non è ancora pronto ad accettare la disomogeneità che l’ingresso delle donne nelle aziende ha portato, prima fra tutte la gestione dell’assenza durante il congedo di maternità e la successiva necessità di una migliore gestione di vita e lavoro.
“L’opportunità che abbiamo oggi tra le mani è potente: abbiamo la possibilità di cambiare l’evoluzione della nostra specie, cambiare i valori, invece che farci cambiare da loro, abbiamo la responsabilità di portare le nostre logiche di potere, perché funzionano! Non si tratta di aiutare le donne, ma di aiutare il mondo attraverso le donne”.
È questo il punto di vista che ha introdotto Riccarda Zezza e che ha innescato le riflessioni durante la successiva tavola rotonda a cui hanno preso parte anche Elena Barazzetta, Ricercatrice di Percorsi di Secondo Welfare e autrice del libro Genitori al lavoro. Il lavoro dei Genitori, ed Enrico Gambardella, HR Director di AVIVA, a cui è seguito un vivace confronto con il pubblico presente in sala.
Le donne e, in generale, i caregiver sono manager e leader migliori, poiché hanno le giuste qualità – empatia, flessibilità, capacità di far fronte con calma a situazioni di forte stress, di creare alleanze e aiutarsi reciprocamente. Eppure i caregiver sono tutt’oggi penalizzati nel mondo del lavoro. Proprio nel momento in cui diventano caregiver, le donne escono dal mondo del lavoro poiché quella è la fase in cui l’equilibrio vita-lavoro comincia a vacillare. Una perdita di talenti e di opportunità enorme.
“Il tema della conciliazione riguarda la società tutta, non è solo ristretto alla popolazione femminile, a partire dai contesti famigliari, culturali, politici e aziendali. Benchè il cambio di paradigma debba avvenire in primo luogo all’interno delle mura domestiche, attraverso un migliore bilanciamento dei compiti tra uomini e donne, la società tutta e il mondo dell’economia non devono certo sottostimare questo tema” – spiega Elena Barazzetta. “Il tema della conciliazione e la disoccupazione femminile impattano notevolmente anche sul PIL. Secondo i dati della Banca d’Italia, se avessimo gli stessi livelli di occupazione femminile dell’Europa, il nostro PIL aumenterebbe del 7%”.
A ciò, va considerata la situazione demografica tipica del nostro Paese. L’Italia è un Paese a crescita negativa, il calo demografico è ormai una tendenza inesorabile, con cui avremmo già dovuto fare i conti diversi anni fa. Continua Barazzetta: “Citando il professor Alessandro Rosina, noto demografo che di recente ha pubblicato il suo nuovo libro Il futuro non invecchia, prima o poi il livello di demografia andrà stabilizzandosi, questo porterà la società a cambiare solo sull’indicatore dell’età media, saremo una società sempre più vecchia. Aumenterà, però, la qualità della vita e i sessantenni di domani avranno più abilità e capacità di sostare in una società sempre più dinamica”.
Ciò aprirà (o meglio: sta già aprendo) sfide e scenari nuovi: un aumento della popolazione “anziana” lavoratrice e la necessità sempre più forte di conciliare gli impegni professionali con le esigenze famigliari, soprattutto in risposta ai maggiori carichi di cura dei figli o dei genitori più anziani a cui i lavoratori dovranno dedicarsi durante il tempo famigliare.
“Le aziende sono degli attori importantissimi in tutto questo” – riprende Riccarda Zezza. “Venendo meno il ruolo dell’attore pubblico, è l’economia che sta guidando i principali cambiamenti in atto, offrendo risposte concrete alle nuove esigenze delle persone. Le aziende sono i nuovi attori culturali, politici, sociali. E questo è un aspetto positivo: le aziende si muovono con efficienza ed efficacia, quando le soluzioni individuate rispondono a queste logiche, è possibile metterle a sistema e scalarle”. Sono numerosi i casi di soluzioni di conciliazione win-win per aziende e dipendenti.
La maternità è solo il primo di una serie di fenomeni che sono già entrati nel mondo del lavoro: il 73% dei dipendenti di un’azienda prima o poi nella vita presta cura a qualcuno, è un caregiver. Ogni lavoratore ha o potrà avere l’esigenza di conciliare vita-lavoro, non solo le mamme. Quando ciò non accade, la produttività cala, il livello di vicinanza e ingaggio con il lavoro diminuisce, lo stress sale. “Le aziende devono poter contare sul benessere dei propri dipendenti, perché ne guadagnano in produttività, in innovazione” – continua Zezza. “Se le persone stanno bene, se vedono la coerenza con chi sono, se hanno la possibilità di portare la propria autenticità in azienda, lavorano meglio e producono di più. E non c’è alternativa: siamo arrivati al punto che le aziende devono urgentemente occuparsi anche di questi temi”.
Le aziende devono poter contare sul benessere dei propri dipendenti, perché ne guadagnano in produttività, in innovazione. Se le persone stanno bene, se vedono la coerenza con chi sono, se hanno la possibilità di portare la propria autenticità in azienda, lavorano meglio e producono di più. E non c’è alternativa: siamo arrivati al punto che le aziende devono urgentemente occuparsi anche di questi temi.
Riccarda Zezza
“Cambia la prospettiva: se fino a poco tempo fa non si faceva entrare il privato in azienda, oggi vogliamo essere quanto possibili autentici, perché ciò ci mette nelle condizioni di esprimere in pieno tutti i nostri talenti”, riassume Chiara Lupi.
Enrico Gambardella, HR Director di AVIVA, azienda con progetti di gestione delle persone molto all’avanguardia: “Concordo che la logica economica delle aziende sia un importante agente del cambiamento. Si parla, ad esempio da tanti anni di smartworking, ma questa pratica non ha avuto successo fino a quando non si è calcolato che eliminare gli uffici dava circa 4-500 mila euro di risparmio. Le persone hanno cominciato a lavorare da casa e ne sono state felici. Il punto di partenza delle aziende non è la felicità dei propri dipendenti, ma il ritorno economico. Ecco perchè dobbiamo continuare a spiegare alle aziende che Diversity & Inclusion, la gender equality, producono risultati economici. Solo così possiamo continuare ad alimentare questa prospettiva”.
D’accordo con questo approccio, Barazzetta sottolinea: “L’azienda è sempre più un soggetto di secondo welfare, in soccorso di ciò che il primo welfare non è più in grado di sostenere, un interlocutore che mette in campo iniziative inedite che spesso il primo welfare non è grado di gestire. Di certo non si convincono le aziende a prendersi a cuore questi temi con un approccio filantropico, bisogna far leva su tutti gli elementi che generano produttività”.
“Il punto di partenza delle aziende non è la felicità dei propri dipendenti, ma il ritorno economico. Ecco perchè dobbiamo continuare a spiegare alle aziende che Diversity & Inclusion, la gender equality, producono risultati economici. Solo così possiamo continuare ad alimentare questa prospettiva” spiega Enrico Gambardella.
Le risorse per rendere possibile il cambiamento sono già dentro le aziende
MAAM è un esempio concreto. Aziende, già sensibili a questi temi, hanno scoperto come accogliere “la vita” dei propri dipendenti all’interno dei propri contesti possa agevolare il loro benessere, riducendo stress e conseguenti cali di produttività, migliorando l’ingaggio. Ma le aziende posso certamente creare le circostanze migliori, tuttavia sono le persone che hanno la responsabilità di cambiare le regole, sono le storie delle singole persone che possono cambiare la cultura.
Proprio a conferma di ciò, una voce si alza dal pubblico per portare un’appassionata riflessione su quanto detto finora: “Sono una mamma atipica, non ho figli biologici ma mi prendo cura dei figli di altri che non sono in grado di gestirli, sono una mamma affidataria. L’esperienza dell’affido mi ha fatto capire che avevo sviluppato negli anni un modello di leadership completamente maschile. Ho sempre lavorato nell’ambito dell’Information Technology, un ambiente prettamente maschile. Ho vissuto in azienda situazioni molto spiacevoli di discriminazione di genere con i miei colleghi, pertanto l’unico modo di giocare la mia partita in azienda era adeguarmi alle regole vigenti. Tre anni fa, con il primo bambino che ho avuto in affido, mi sono ritrovata in una situazione critica, il mio modo di rapportarmi a lui era come quello che adottavo in azienda. A quel punto mi sono fermata a riflettere e ho capito che nonostante gli ottimi risultati che ottenevo sul lavoro, non ero felice. Ma lo diventavo quando tornavo a casa, seppur con le difficoltà nel gestire ragazze adolescenti. Ho cambiato così modo di rapportarmi a casa e pian piano l’ho esteso anche in ambito lavorativo. È un modo che mi fa sentire tranquilla, è un modello che mi consente di portare il mio essere donna in azienda”.
È dopo questo racconto che Riccarda Zezza conclude: “Quando vuoi cambiare qualcosa, devi iniziare con le persone che sono già alleate in maniera naturale. Perché se un cambiamento così grande cerchi di farlo attaccando i più difficili, non ce la farai. Dobbiamo creare una crescente massa critica di persone e aziende che sono già pronte, per poi cambiare la storia che si sta narrando”.
Cascare dalla sedia ogni volta che un “evento della vita” irrompe nella dimensione lavorativa. Considerare ogni assenza una crisi, da cui rientrare è sempre difficile. Guardare l’orologio per decidere se il lavoratore è “serio”: se il suo tempo appartiene interamente all’azienda. Sono prassi del secolo scorso: la fotografia di una realtà che non c’è più.
Oggi, secondo una recente ricerca di Harvard, negli Stati Uniti il 73% dei lavoratori sono anche “caregiver”: ovvero prestatori di cura in ambito privato. Madri, ma non solo: padri, figli, fratelli, amici.
Persone che hanno responsabilità di cura per altre persone: a tratti più intense, a tratti meno, ma quotidiane, anche solo nel pensiero. Le relazioni, la vita in tutte le sue forme, sono entrate nel mondo del lavoro. Ma non sono ancora stati mappati, e la foto che stiamo guardando è quella di un mondo che non c’è più. Il problema sempre più evidente è che a quella foto obsoleta adattiamo nelle aziende anche regole e comportamenti, ed è ancora così: l’assenza come crisi, l’orologio come strumento di valutazione, la vita come “anomalia”.
La conseguenza di questi comportamenti obsoleti sono costi altissimi, in parte chiari e in parte occulti. Quelli chiari sono i costi in termini di stress (chi dice 300, chi 500 miliardi di euro all’anno nel mondo), di produttività piatta o in declino nonostante la disponibilità di tecnologie sempre più avanzate, di sostituzione di persone che lasciano il lavoro – temporaneamente o per sempre – perché “non ce la fanno” a tenere il doppio ruolo. Quelli occulti citati dalla ricerca di Harvard sono i costi di perdita di talenti e di produttività per il semplice fatto che si fa finta di ignorare il ciclo di vita delle proprie persone – o lo si ignora davvero?
La volontà di ignorare il ciclo di vita delle persone di questo millennio è l’unica spiegazione possibile al modo in cui non stiamo facendo evolvere il nostro approccio al lavoro, assorbendo di conseguenza i costi di una volontaria ignoranza. I dati della ricerca di Harvard sono chiari (e noti anche da noi):
1) Sempre più famiglie sono “diverse”: le coppie sposate diminuiscono, mentre aumentano i nuclei con un solo familiare o con gruppi famigliari misti, per esempio più generazioni insieme.
2) La partecipazione delle donne al mondo del lavoro è sempre più essenziale alla sopravvivenza dell’intero sistema economico, e “negli Stati Uniti, buona parte della forza lavoro femminile altamente educata afferma di aver dovuto uscire dal mondo del lavoro o ridefinire il proprio apporto lavorativo a causa di responsabilità di cura”
3) Nel 2013, il 47% degli Americani di mezza età erano in una situazione cosiddetta “sandwich”: presi tra la cura dei propri figli e quella dei propri genitori. Intensi bisogni di supporto non solo di cura e finanziario, ma anche emotivo.
Al tempo stesso, l’Industria 4.0 ha acceso sempre più la guerra per la conquista dei talenti: come attrarre i più bravi, come trattenerli? Ma la funzione che in azienda si occupa del benessere delle persone non sempre è la stessa che investe sull’attrazione dei talenti. Da una parte uno sguardo spesso poco aggiornato su quel che i lavoratori sono diventati: le loro vite sempre più complesse e multi-dimensionali, i loro bisogni non solo pratici ma anche umani. Dall’altra la continua ricerca di strumenti per attrarre lavoratori di cui si vede e si riconosce solo la dimensione professionale, come se vivessero in un vuoto.
Si finisce con l’acquistare decine di benefit di cui spesso i lavoratori non sono a conoscenza e che non spostano l’ago delle loro preferenze, mentre si continua a (far finta di) ignorarli nelle loro dimensioni reali di vita: quelle di oggi ma anche e soprattutto quelle che saranno. Le assenze che arriveranno sempre inaspettate, i carichi di cura che verranno trattati come estranei al sistema, da disinnescare e contenere, i ritardi (o gli anticipi) che verranno letti come scarsa motivazione e peseranno sulle decisioni di carriera. Oggi ancora, come nel secolo scorso.
Quanto a lungo può sopravvivere un’azienda che agisce basandosi sulla mappa di una realtà che non esiste più? Secondo i professori Fuller e Raman, che guidano il progetto “Managing the future of work” ad Harvard:
“Per le aziende che sapranno prendersi cura e riconoscere le dimensioni della cura delle proprie persone, il ritorno andrà bel oltre l’ingaggio dei dipendenti. Avrà il potenziale di costituire un’importante fonte di vantaggio competitivo”.
E non si tratta solo di mettere a disposizione una serie di servizi utili: è importante ma non basta. Si tratta di cambiare proprio lo sguardo e la cultura, e rendere la dimensione della vita apertamente presente nel disegno del ciclo lavorativo. Tappe di vita previste e prevedibili disegnate insieme a tappe di carriera. Abbracciate, come lo sono già nella vita di tutti noi da moltissimo tempo ormai.
Riccarda Zezza, articolo scritto per Alley Oop
Sappiamo quanto la diversity sia importante per il business. Sono numerosi gli studi volti a dimostrarne il valore economico per le aziende. Secondo il McKinsey Global Institute, ad esempio:
Un ambiente lavorativo caratterizzato da un alto tasso di diversity produce risultati migliori non solo in termini economico-finanziari, ma anche nel creare innovazione, crescita, sviluppo tecnologico. Una forza lavoro “diversa” per presenza di donne, differenti etnie e nazionalità, persone LGBT, disabili, contribuisce a ridurre il turnover e a trattenere i migliori talenti, incoraggia la partecipazione dei dipendenti, ed è una leva di employer branding. Offre, inoltre, un significativo vantaggio competitivo agli occhi del mercato, poiché amplia il pubblico di riferimento, alimentando l’interesse da parte di diverse tipologie di utenti finali.
Tuttavia, permane ancora un divario tra l’ormai noto riconoscimento del suo valore e l’adozione di pratiche e comportamenti che ne consentono l’effettiva “inclusione” nelle aziende.
“La diversity è un dato di fatto. L’inclusion è una scelta”. Si apre così, con l’intervento di Igor Suran, Presidente di Parks – Liberi e Uguali, l’evento “The Return on Investment on Diversity & Inclusion” tenutosi lo scorso 22 marzo 2019 a Milano e organizzato da AlixPartners, società internazionale di consulenza, in collaborazione con Parks Liberi e Uguali, associazione senza scopo di lucro che aiuta le aziende a comprendere e realizzare al massimo le potenzialità di business legate allo sviluppo di buone pratiche di diversity. Una tavola rotonda che ha affrontano le diverse opportunità generate della diversity, moderata da Piero Masera, Managing Director AlixPartners Italia con le testimonianze di:
“Diversity & Inclusion”, due parole apparentemente simili e sempre accostate tra loro, al punto da essere sintetizzate con l’acronimo “D&I”, in realtà esprimono due scenari così diversi. Nei contesti lavorativi, “diversity” è “la rappresentanza delle minoranze” che, in assenza di un impegno concreto di “inclusion”, non può realizzare quelle connessioni cruciali di cui abbiamo appena parlato, che generano valore.
La diversity è un dato di fatto, l’inclusion è una scelta. Solo attraverso l’inclusione, la diversità diventa un valore.
Igor Suran, Presidente di Parks Liberi e Uguali
Ricerche internazionali rivelano che, a fronte di una quasi totalità di grandi aziende (il 96-98%) che hanno implementato programmi di D&I, solo un quarto dei dipendenti appartenenti alle categorie sottorappresentate sente di averne realmente tratto beneficio.
Ma quali sono le caratteristiche di un programma vincente di Diversity & Inclusion? L’evento, ricco di emozioni grazie alle testimonianze personali dei relatori coinvolti, ce ne ha presentate almeno tre.
Autenticità. “Non riconoscere la diversità nelle aziende significa costringere le persone a vivere per metà delle proprie vite un ruolo che non le esprime appieno”. Spiega così Piero Masera, Managing Director di Alix Partners Italy, la necessità di creare ambienti lavorativi inclusivi delle peculiarità individuali. Reprimere gli elementi cruciali del proprio essere sul lavoro causa un dispendio di energie che genera stress, con conseguenti perdite di produttività e ingaggio. Al contrario, i dipendenti che possono mostrarsi sul lavoro nella loro veste più autentica, sono il 42% meno propensi a lasciare l’azienda per cui lavorano.
Non riconoscere la diversità nelle aziende significa costringere le persone a vivere per metà delle proprie vite un ruolo che non le esprime appieno.
Piero Masera, Managing Director di AlixPartners Italy
Continuità. Programmi di Diversity & Inclusion non hanno come principale target solo le figure “diverse” in azienda, ma tutti i dipendenti ne devono essere coinvolti e accompagnati a conoscere, rispettare, accogliere la diversità come un punto di forza comune, fino a farla diventare un valore imprescindibile per la stessa azienda. Il racconto di Arianna Forzani, manager di IBM, ha offerto un punto di vista profondo non solo sul proprio vissuto personale, ma anche sugli effetti positivi di un lungimirante programma aziendale di D&I. Dal 1995, anno in cui IBM avvia le prime riflessioni sulla necessità di coinvolgere una forza lavoro “diversa”, l’azienda ha visto ai propri vertici crescere del 370% il numero di donne, del 233% delle minoranze etniche, del 733% di persone dichiaratamente LGBT e più del triplo il numero di disabili. Con i risultati economici che tutti conosciamo.
Esplosività. “La diversità non si fa includere. La diversità è esplosiva”. Conclude così il suo intervento Riccarda Zezza che, durante l’incontro ha portato il punto di vista di donna, manager e mamma e che, dalla sua personale esperienza ha dato vita a MAAM, programma per la formazione alle soft skill che sta trasformando nelle aziende la visione della maternità in opportunità di crescita professionale. L’inclusion, per offrire i suoi benefici, deve infatti essere concepita come un sistema aperto e personalizzabile, non solo sulla cultura di cui l’azienda è portatrice, ma anche sugli individui coinvolti. Ognuno è diverso a suo modo, e la somma delle tante diversità genera creatività, innovazione, energia.
La diversità non si fa includere. La diversità è esplosiva.
Riccarda Zezza, CEO Life Based Value
Per riconoscerne appieno il valore e la sua carica di opportunità, perché non passare dal concetto limitante di “inclusione” a quello generativo di “esplosione”?
Linkem accelera sul welfare aziendale. L’operatore di banda larga e ultralarga adotta per i propri dipendenti – 840 assunti con contratto a tempo indeterminato e un’età media di 33 anni – il programma MAAM, master di formazione per neogenitori su piattaforma digitale. Il corso è organizzato in 20 moduli con contenuti multimediali e iscrizione alla community per confrontarsi con altri genitori.
L’obiettivo è l’accompagnamento di neo-madri e neo-padri durante e dopo la nascita del figlio, sviluppando competenze trasversali come intelligenza emotiva, leadership e capacità di ascolto e di guida, da mettere poi in campo anche nella vita professionale. MAAM è una soluzione lanciata da Life Based Value, startup innovativa nata nel 2015 con l’obiettivo di valorizzare le esperienze di vita trasformandole in competenze di business.
Con l’introduzione del percorso MAAM da parte di Linkem, si stima che nel 2019 saranno erogate quasi 700 ore di formazione.
La partnership con MAAM si aggiunge alle misure di welfare aziendale che Linkem ha già adottato per i neogenitori. L’azienda nel 2018 ha infatti deciso di estendere il congedo per i padri lavoratori oltre quanto previsto dalla legge. La policy dell’azienda prevede che entro il compimento del primo anno di vita del bambino, ogni dipendente Linkem abbia la possibilità di chiedere 10 giorni di permesso retribuito al 100% dall’azienda oltre ai 5 giorni di congedo previsti dalla legge.
“La filosofia di Linkem è focalizzata sull’attenzione alle persone, sulla loro crescita e sulla necessità di trovare un buon equilibro tra la vita privata e la vita professionale – dice Grazia Paparella, responsabile Risorse Umane e “Ambasciatrice del valore Linkem” -. È importante ricordare come diventare mamma o papà rafforzi tutte le competenze, quello che si impara diventando genitori rappresenta una risorsa preziosa da riversare anche negli aspetti organizzativi umani e professionali”.
“La scelta di Linkem – dice Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value e co-autrice del metodo MAAM – farà emergere risorse preziose e inaspettate da parte dei genitori che lavorano: l’azienda ne beneficerà in termini di produttività, benessere e spunti innovativi”.
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Da oggi i dipendenti di Linkem posso prendere parte ai master digitali di LBV e veder riconosciute anche sul lavoro le competenze sviluppate grazie all’esperienza della genitorialità.
Roma, 19 marzo 2019 – Trasformare le esperienze della genitorialità in una risorsa per l’azienda e supportare con un approccio innovativo la condizione di neogenitori. Sono questi gli obiettivi del lancio da parte di Linkem, provider Internet di banda larga e ultralarga per le famiglie e le imprese italiane, di MAAM, primo e unico programma formativo studiato per madri e padri lavoratori con bambini da 0 a 3 anni.
Grazie al progetto MAAM, Linkem offre alle neomamme e ai neopapà un vero e proprio Master che si sviluppa su una piattaforma digitale, organizzato in 20 moduli con contenuti multimediali, e l’iscrizione alla community per confrontarsi con altri genitori. L’obiettivo è quello di accompagnare neomamme e neopapà prima, durante e dopo la nascita del figlio, alla scoperta di questa esperienza come un’opportunità per sviluppare competenze soft come l’intelligenza emotiva, la leadership e la capacità di ascolto e di guida, da mettere poi in campo anche nella vita professionale.
Secondo fonti MAAM che raccolgono i feedback degli utenti del programma, i papà dicono che oggi sono più felici (nel 97% dei casi) e, nella nuova complessità delle loro vite, mentre stanno molto più attenti agli orari e alla gestione del tempo (39%), sanno anche ridimensionare meglio i problemi che incontrano sul lavoro (29%): come le loro colleghe mamme, l’attenzione all’equilibrio vita-lavoro sembra quindi aver migliorato la loro capacità di ricercare un equilibrio personale. A seguito dell’introduzione del percorso MAAM da parte di Linkem, si stima che nel 2019 saranno erogate quasi 700 ore di formazione.
La partnership con MAAM va ad aggiungersi alle misure di welfare aziendale che Linkem ha già adottato per i neogenitori. L’azienda nel 2018 ha infatti deciso di estendere il congedo per i padri lavoratori oltre quanto previsto dalla legge. La policy Linkem dedicata ai neopapà prevede che entro il compimento del primo anno di vita del bambino, ogni dipendente Linkem abbia la possibilità di chiedere 10 giorni di permesso retribuito al 100% dall’azienda. I 10 giorni di permesso messi a disposizione dall’azienda, che possono essere goduti anche in maniera non continuativa, si sommano ai 5 giorni di congedo previsti dalla legge, che invece possono essere goduti entro il quinto mese di vita del bambino. Quindi Linkem non solo aumenta il numero di giorni a disposizione del neo-papà, bensì estende il periodo entro cui è possibile fruire dei giorni a disposizione (da 5 mesi a 1 anno di vita del bambino).
“La filosofia di Linkem è focalizzata sull’attenzione alle persone, sulla loro crescita e sulla necessità di trovare un buon equilibro tra la vita privata e la vita professionale. È importante ricordare come diventare mamma o papà rafforzi tutte le competenze, quello che si impara diventando genitori rappresenta una risorsa preziosa da riversare anche negli aspetti organizzativi umani e professionali ed è proprio questo il valore aggiunto della genitorialità su cui si fonda la scelta di Linkem di mettere a disposizione dei propri dipendenti i contenuti realizzati dal progetto MAAM.” ha affermato Grazia Paparella, responsabile Risorse Umane e “Ambasciatrice del valore Linkem”.
Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value e co-autrice del metodo MAAM, di recente riconosciuta da Ashoka tra le 40 imprenditrici sociali agenti del cambiamento a livello globale, ha dichiarato: “La scelta di Linkem farà emergere risorse preziose e inaspettate da parte dei genitori che lavorano: l’azienda ne beneficerà in termini di produttività, benessere e spunti innovativi, mentre le persone vivranno con maggiore leggerezza e meno stress una fase complessa della loro vita. Linkem è per noi un partner prezioso nel diffondere la nuova cultura della sinergia vita-lavoro”
Linkem è un’azienda che da sempre investe sui giovani e crede fortemente nella creazione di percorsi di sviluppo per le proprie persone. Negli ultimi due anni l’azienda ha ampliato la propria forza lavoro in modo continuativo e oggi conta 840 dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato e con un’età media di 33 anni, di cui più di 500 presso le sedi di Bari e Taranto dove, oltre all’attività di assistenza al cliente finale, si svolgono parte delle operation funzionali alla gestione end to end del servizio. Oltre il 50% della forza lavoro è donna. Da sempre Linkem investe sui territori creando posti di lavoro stabili e favorendo così la creazione di nuove famiglie.
Con la pubblicazione del report Celebrating ChangemakHERS. How Women Social Entrepreneurs Lead and Innovate, realizzato da Ashoka con il contributo di Citi Foundation, della scorsa settimana in occasione della Giornata Internazionale della Donna (ne abbiamo già parlato qui), Sonia Park, Global Venture di Ashoka, ha incontrato Riccarda e ne è nata un’intervista, pubblicata oggi su Forbes.
Ecco Riccarda Zezza, la fondatrice di “MAAM, Maternity as a Master”, il programma di formazione digitale che trasforma la genitorialità in un master in competenze chiave, come l’empatia e la gestione del tempo. Nato in Italia e oggi attivo in 23 Paesi, MAAM si rivolge alle aziende e intende dimostrare che l’apprendimento derivante dalle esperienze di vita può stimolare la crescita professionale.
Ho lavorato per 15 anni in grandi aziende prima di avere il mio primo figlio. Questa esperienza mi ha dimostrato che avere figli può diventare un problema sul lavoro. Dopo essere stata demansionata quando sono tornata al lavoro dopo la mia seconda maternità, ho deciso che dovevo fare qualcosa per cambiare questa situazione. Con MAAM, ho voluto cambiare i paradigmi che vedevano la maternità come una malattia o un problema, introducendo il concetto che la maternità è un master.
MAAM si rivolge alle aziende che tipicamente investono nello sviluppo delle competenze dei propri dipendenti. Le aziende acquistano una fee annuale. E offrono il master MAAM ai loro dipendenti, mamme e papà con bambini da zero a tre anni, e donne in gravidanza, che tipicamente rappresentano il 10% della popolazione aziendale. Per i successivi sei mesi, gli utenti accedono settimanalmente ai moduli formativi che insegnano loro a utilizzare le esperienze di vita per rafforzare 12 specifiche competenze, come il problem solving e la creatività. Alla fine del programma, gli utenti hanno acquisito un metodo – che noi chiamiamo “Life Based Learning”, che dimostra loro come si possono mettere in campo le stesse competenze per essere efficaci sia al lavoro sia a casa. Attraverso attività quotidiane, imparano ad applicare queste competenze a situazioni di vita lavorativa, acquisendo consapevolezza del loro potenziale.
È proprio così. I dipendenti scoprono il potenziare formativo nascosto nelle esperienze di vita. Diventano così delle risorse ancora più preziose perché stanno imparando nuove ‘potenti’ competenze che l’intelligenza artificiale non potrà mai replicare e stanno trovando il modo per armonizzare vita e lavoro.
Continua a leggere l’intervista nella versione originale su Forbes
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