A giugno 2021 Beko – azienda leader in Europa di elettrodomestici di libera installazione – ha avviato un graduale ritorno in ufficio dopo oltre un anno di lavoro da remoto a causa della pandemia.
L’azienda ha avvertito la necessità di uno strumento a supporto delle persone, che dopo molto tempo avrebbero ricominciato a vivere una ‘routine’ lavorativa in presenza ormai quasi dimenticata.
Da luglio 2021 Beko ha introdotto in azienda il percorso Gestire una transizione di Lifeed, da cui sono emerse oltre 500 riflessioni generate dai partecipanti.
Sentendosi davvero ascoltate e chiamate in prima persona a contribuire al futuro dell’azienda, le persone sono diventate autrici attive del cambiamento.
“Di solito nelle survey non viene mai chiesto alle persone di parlare di se stesse, della propria vita privata. Grazie a Lifeed siamo entrati in contatto con una serie di emozioni e situazioni dei collaboratori che prima non conoscevamo”, spiega Andrea Marando, HR Manager di Beko Italy.
Barilla – multinazionale italiana che opera nel settore alimentare – crede fermamente che diventare ed essere genitori, come tutte le transizioni di vita e in particolare quelle di caring, rappresenti un’esperienza potenziante e possa rafforzare molte human skills utili in futuro sul lavoro e viceversa.
Dopo aver condotto una serie di focus group interni, Barilla nel 2018 ha lanciato Winparenting Program con l’obiettivo di supportare i genitori e i loro manager nella transizione della genitorialità, attraverso iniziative di valorizzazione delle persone e di supporto concreto.
L’azienda ha scelto di inserire i percorsi di apprendimento di Lifeed nel 2018, dapprima per i neo-genitori e dal 2021 anche per i genitori con figli fino a 18 anni.
“Lifeed ha contribuito a innescare un fortissimo processo di consapevolezza su come fasi di vita delicate, come la genitorialità, diventino occasione di crescita e sviluppo per le nostre persone e per l’azienda”, spiega Elena Scolaro, HR Business Partner di Barilla.
Barilla ha raccontato la sua esperienza con Lifeed in occasione dell’evento 4Weeks4Inclusion attraverso la testimonianza di Valeria Icardi, Customer Team Director & D&I ERG Balance Italy Leader di Barilla. Ecco il video:
Nel 2019 se ne contavano appena 570mila. Nel periodo più duro del lockdown sono arrivati a superare la soglia di 6 milioni, per poi ridursi nell’arco degli ultimi mesi a poco più di 4 milioni. Secondo le stime dell’Osservatorio sullo Smart working del Politecnico di Milano, nel periodo post pandemia in Italia ci saranno 4 milioni 380mila smart worker, l’8% in più di quanti se ne contano oggi. E la diffusione del modello di lavoro agile farà ancora la differenza in termini di sostenibilità economica, ambientale e sociale.
La stima è basata sui piani elaborati dalle aziende per i prossimi mesi. Le organizzazioni si stanno dividendo tra quante, pur volendo bilanciare presenza in ufficio e lavoro a distanza, stanno cercando di consolidare i modelli sperimentati durante la pandemia e quante sembrano invece voler procedere in senso opposto, cercando un ritorno alle precedenti modalità di lavoro.
Rispetto al picco del 2020, dunque, nei prossimi mesi ci saranno 2,5 milioni di smart worker in meno. “Stiamo diminuendo il benessere e frustrando le aspettative di milioni di lavoratori che hanno compreso che un modo diverso di lavorare è possibile e spesso straordinariamente appagante ed efficace. Stiamo rinunciando a creare un mondo del lavoro, una società e territori più attrattivi e inclusivi”, ha sottolineato Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart working. “Si sono create opposte tifoserie pro e contro lo Smart working, assimilandolo di fatto al lavoro ‘forzato’ da casa e non invece alla ricerca di equilibri più adatti al contesto”.
Dopo il grande esperimento di lavoro a distanza vissuto nei mesi del lockdown, le organizzazioni hanno dovuto adattarsi. Nelle grandi imprese è aumentato il numero di progetti strutturati: l’81% ne ha almeno uno e vede di buon occhio l’adozione di policy ad hoc per definirne i confini. Nove imprese su 10 puntano, così, a proseguire l’esperienza. Nelle Pmi è prevalso, invece, un approccio informale, favorito dalla minor complessità organizzativa. Il 44% delle Piccole e medie imprese si dichiara, però, disinteressata al fenomeno: una Pmi su tre abbandonerà lo Smart working, frenata dalla difficoltà di conciliare attività e remotizzazione e dall’assenza di processi digitalizzati.
Eppure, il lavoro non è un luogo, ma un risultato. Come dice Pierroberto Folgiero, CEO Maire Tecnoimenont, occorre separare il concetto di obiettivo dalla necessità di mostrare il badge. “La vera frontiera dello Smart working non sta tanto nel convincere il collega a cambiare il luogo in cui svolge la sua attività, ma nel cambiare il paradigma manageriale e il mondo in cui i capi sono abituati organizzare il lavoro dei collaboratori”.
Anche il mondo del welfare e del caring del dipendente va ripensato. Secondo Stefano Trombetta, Talent & Organization Lead di Accenture Strategy & Consulting, occorre tenere a mente che non esiste più soltanto un dipendente fisico, ma c’è anche un dipendente digitale. “Il nostro ‘io fisico’ ha alle spalle anni di performance, il ‘gemello digitale’ invece è ancora neonato e va accompagnato nel suo percorso di crescita e miglioramento”. Nella nuova dimensione del lavoro servono leader consapevoli e positivi, che si mostrino coerenti con i valori aziendali nella loro leadership quotidiana. Dentro ogni azienda convivono diversi profili di persone: tenerne conto significa saper leggere e rispondere a bisogni diversi.
In questo senso, l’esperienza vissuta nella pandemia è stata utile per rivalutare i modelli organizzativi di luogo e di orario in modo più coerente con le esigenze dell’organizzazione e delle sue persone. Più della metà delle grandi imprese ha riscontrato una crescita dell’efficienza e dell’efficacia nel lavoro e nove aziende su 10 hanno visto progressi significativi nel work-life balance dei collaboratori.
A risentire dell’introduzione del lavoro da remoto, invece, sono stati soprattutto la comunicazione tra colleghi e i livelli di engagement. Abituati a vivere gli scambi in modo spontaneo e meno strutturato, i lavoratori hanno dovuto fare uno sforzo in più per condividere informazioni e conoscenza anche fuori dall’ufficio. Il contesto pandemico, poi, ha influito negativamente sul coinvolgimento, a prescindere dalla modalità di lavoro adottata.
Confrontando le percezioni di smart worker e lavoratori che hanno continuato a lavorare in sede, l’Osservatorio del Politecnico ha riscontrato un impatto negativo molto simile, con rispettivamente soltanto il 7% e il 6% di persone che si è sentito pienamente ingaggiato. Gli smart worker hanno sofferto di più di overworking (dedicando un’elevata quantità di tempo alle attività lavorative e trascurando i momenti di riposo) e del cosiddetto tecno-stress. Un lavoratore su quattro ha subito un impatto negativo a livello comportamentale o psicologico a causa del frequente ricorso alle tecnologie.
Nonostante le difficoltà, i benefici di lavorare almeno in parte da remoto restano evidenti. Il contesto ibrido ha facilitato l’apprendimento di nuove competenze digitali, sia in chi ha operato da casa sia in chi si è dovuto interfacciare dalla sede di lavoro con i colleghi a distanza. Il 42% degli smart worker ritiene di aver migliorato le proprie digital soft skill e lo stesso vale per il 25% degli altri lavoratori. Tra i benefici del lavoro ibrido, l’Osservatorio evidenzia proprio l’inclusione di persone con diversa propensione e abilità nell’utilizzo delle tecnologie digitali.
Secondo i dati raccolti, lo Smart working si rivela di supporto alla genitorialità e a quanti si prendono cura di persone anziane o non autosufficienti in più di otto casi su 10. Inoltre facilita l’inclusione di persone che vivono lontano dalla sede lavorativa, di neoassunti e persone con disabilità e contribuisce alla valorizzazione dei talenti. Senza dimenticare gli effetti sull’ambiente: applicare lo Smart working per una media di 2,5 giorni alla settimana si traduce in un risparmio annuo di 123 ore di commuting (il tragitto da casa all’ufficio), pari a 1,8 milioni di tonnellate di CO2.
Alla luce dell’esperienza degli ultimi mesi, un lavoratore su tre non vorrebbe tornare a lavorare in ufficio. La maggioranza comprende i benefici della presenza e preferirebbe passare al lavoro ibrido. “Questa eterogeneità è una sfida importante per le imprese”, sottolinea Corso. “Con lo spettro della Great resignation e il 40% dei lavoratori che vorrebbe cambiare lavoro nei prossimi sei mesi, non porsi il problema si rivela una strategia miope. E definire policy uguali per tutti potrebbe non essere una risposta sufficiente”.
Emozioni, bisogni ed esperienze di vita sono un valore per le persone e per le loro aziende. Guardare le persone nella loro interezza, infatti, è un’occasione di sviluppo di competenze e di innovazione. Fra le transizioni più importanti c’è la genitorialità, palestra quotidiana di apprendimento continuo di competenze soft.
Prenderci cura di noi stessi e degli altri, accettando imperfezioni e valorizzando la complessità di ognuno, aiuta a portare nel mondo quel cambio di paradigma culturale necessario.
Questi temi sono stati approfonditi nell’evento “Oltre gli stereotipi: il valore delle transizioni di vita per le persone e per le aziende” organizzato nell’ambito di 4Weeks4Inclusion, il più grande evento interaziendale dedicato all’inclusione promosso da TIM che ha visto impegnate oltre 200 imprese in una maratona di quattro settimane consecutive all’insegna dell’inclusione.
All’evento organizzato da Lifeed in collaborazione con Barilla hanno preso parte Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, Giulia Lamarca, Content Creator, Psicologa e Change Maker, Valeria Icardi, Customer Team Director & D&I ERG Balance Italy Leader di Barilla e Chiara Bacilieri, Head of Data di Lifeed.
Con l’obiettivo di creare una nuova cultura della genitorialità in azienda, Barilla ha lanciato il Winparenting Program che supporta i genitori e i loro manager in questa importante transizione.
Dai dati raccolti dall’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, attraverso l’analisi di oltre 3mila riflessioni espresse dai dipendenti Barilla durante i percorsi Lifeed per il programma Winparenting, emerge una fotografia chiara delle emozioni provate durante l’esperienza di vita della genitorialità.
La lettura dinamica di questi dati permette a Barilla di guardare le persone nella loro interezza e di tenere conto di elementi più soft (come l’evoluzione dei bisogni nel tempo) che non sempre nelle aziende vengono osservati.
Nel ritorno alla normalità post-covid, cresce il bisogno delle persone di condividere esperienze e riflessioni con gli altri. L’attività solitaria legata al remote working e alle conseguenze della pandemia sta lasciando progressivamente spazio alla dimensione comunitaria per recuperare quell’aspetto di condivisione che è mancato nel lungo periodo di emergenza sanitaria.
Di conseguenza, acquisiscono sempre più importanza gli User Generated Content (UGC), contenuti creati direttamente dagli utenti attraverso post social, recensioni, articoli su blog, immagini, foto e video. Questi contenuti si distinguono per essere generati in modo del tutto spontaneo e gratuito, al contrario dei post sponsorizzati e della pubblicità.
Secondo una ricerca del Nielsen Consumer Trust Index, il 92% dei consumatori si fida più degli UGC rispetto alla pubblicità tradizionale. Circa il 60% dei consumatori considera inoltre più autentici e credibili i contenuti non sponsorizzati durante la decisione di acquisto.
Va proprio in questa direzione la nuova funzionalità ‘Social Sharing’ sulla piattaforma di Lifeed, che permette agli utenti di condividere i temi che hanno maggiormente a cuore e i contenuti che scoprono nei percorsi di apprendimento.
All’interno del percorso, l’utente può evidenziare con il mouse un contenuto di suo interesse; il contenuto testuale evidenziato, poi, può essere condiviso attraverso un post automatico su Facebook o Twitter; in alternativa, può essere automaticamente copiato negli appunti per essere condiviso più tardi o attraverso altri strumenti.
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Per lavorare e competere in un mondo digitalizzato, servono persone con la giusta formazione. Finora le imprese hanno investito sulla diffusione delle competenze legate all’utilizzo degli strumenti di collaborazione da remoto, ma adattarsi ai cambiamenti già in atto non basta più. È tempo di compiere un passo in avanti e anticipare la trasformazione. Tocca alle Direzioni HR sviluppare nuovi percorsi formativi che abbraccino l’intera cultura organizzativa e che forniscano gli strumenti per fare la differenza nel mercato di domani.
Nell’arco dei prossimi due anni, per effetto delle tecnologie digitali, il 70% dei lavoratori dovrà aggiornare le competenze chiave per svolgere le proprie mansioni. Secondo un rapporto del World Economic Forum, l’84% delle aziende prevede di accelerare la digitalizzazione dei processi e accrescere l’impiego di strumenti digitali per il lavoro. La priorità è riqualificare la forza lavoro attraverso programmi di upskilling e di reskilling. L’impiego del digitale assume così una doppia veste: obiettivo da raggiungere, per avere collaboratori capaci di interfacciarsi con le tecnologie, e al contempo mezzo attraverso il quale offrire i contenuti formativi.
La formazione dei propri collaboratori rappresenta una delle sfide prioritarie per ogni organizzazione. Il trend monitorato dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano suggerisce un aumento del 7,5% degli investimenti in iniziative digitali rispetto al 2020, uno dei valori più alti negli ultimi anni. Più della metà delle Direzioni HR ha riscontrato, negli ultimi mesi di lavoro da remoto, criticità nelle attività di supporto alle persone. La ‘svolta digitale’ è motivata, dunque, non solo dalla necessità di garantire continuità alle attività, ma anche dalla volontà di migliorare i processi.
Oggi il 35% delle organizzazioni prevede di aumentare gli investimenti fino al 15% rispetto a quelli dello scorso anno. L’aumento si concentra soprattutto su formazione, analisi e sviluppo di nuove competenze. In uno scenario sempre più “ibrido” tra fisico e virtuale, occorre far evolvere i ruoli interni all’azienda: le organizzazioni puntano su percorsi di sviluppo delle digital soft skill, competenze trasversali, relazionali e comportamentali delle persone per utilizzare efficacemente i nuovi strumenti digitali.
La Direzione HR ricopre in questo contesto un ruolo centrale. Partner strategico del management, ha il compito di guidare internamente lo sviluppo o operare all’esterno per l’acquisizione di competenze rilevanti per il futuro. Fondamentale resta, quindi, la capacità di trasmettere ai collaboratori i benefici di un approccio improntato al life-long learning, un apprendimento continuo che accompagni tutta la vita lavorativa della persona. È ai Responsabili HR che si richiede l’impegno diretto alla costruzione di percorsi personalizzati, sia in termini di contenuti sia in termini di format, che siano ingaggianti ed efficaci anche in digitale.
La risposta sembra fin qui positiva. Le persone che operano all’interno delle organizzazioni, consapevoli dei cambiamenti in atto, sono ben predisposte ad acquisire nuove competenze e capacità in un’ottica di continuous learning. Gli ultimi mesi, alle prese con la trasformazione tecnologica e le nuove modalità di lavoro a distanza, hanno sviluppato la cosiddetta learning adaptivity di migliaia di lavoratori. È cresciuta, cioè, l’efficacia dell’apprendimento di competenze e capacità che consentono di adattarsi ai cambiamenti richiesti dalla propria professione.
Già oggi più della metà delle organizzazioni utilizza strumenti digitali per il microlearning. Le pillole formative garantiscono continuità nell’aggiornamento professionale e facilitano l’integrazione dell’apprendimento nella quotidianità. Si rivelano utili anche per l’attraction delle generazioni più giovani, interessate a imparare in fretta contenuti brevi e immediatamente spendibili sul lavoro. È il nuovo trend in materia di formazione: apprendimento personalizzato, gestibile in autonomia, flessibile negli orari.
Una scelta resa più facile dagli strumenti digitali. Grazie al loro impiego, le Direzioni HR possono raccogliere ed elaborare i dati per progettare esperienze personalizzate in base alle caratteristiche di candidati e collaboratori. Gli algoritmi di raccomandazione basati su Intelligenza Artificiale sono già oggi in grado di suggerire alle persone contenuti e format in base ai propri interessi ed esigenze. E possono indicare all’organizzazione quali competenze sviluppare per rimanere competitiva.
Il potenziale offerto dai dati è, tuttavia, ancora poco sfruttato: in base ai report dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, solo l’8% delle organizzazioni effettua elaborazioni di tipo predittivo sui trend futuri. In ambito formazione e sviluppo, le Direzioni HR si limitano a elaborare analisi descrittive della situazione attuale, mentre resta basso il numero di informazioni raccolte sui risultati dei percorsi. E, senza un’analisi accurata dei risultati raggiunti, non è possibile verificare l’efficacia della formazione.
L’analisi dei dati a disposizione, l’utilizzo di strumenti digitali a supporto dei processi HR e il coinvolgimento delle persone sono i tre elementi costitutivi del cosiddetto “Connected People Care”, il nuovo ruolo della Direzione HR che si prende cura delle persone, personalizzando i servizi, rimanendo allineata rispetto alle esigenze del mercato e ‘connessa’ con l’intera organizzazione.
Ogni essere umano, per sua natura, vuole apprendere. L’etimologia stessa della parola rimanda all’idea di movimento, a una tensione al servizio di un desiderio. Quando impariamo qualcosa di nuovo, trasformiamo ciò che riceviamo sotto forma di input esterno in conoscenza. La nostra mente non è un contenitore vuoto, pronto a ricevere nozioni, ma un meccanismo in continuo movimento, che crea legami significativi fra concetti. Apprendiamo soltanto ciò che è significativo per la nostra vita, qui e adesso.
Ecco perché l’apprendimento non può esser concepito soltanto come una preparazione per il futuro, ma va calato nella realtà del nostro presente. Fare dell’ascolto e dell’osservazione delle esperienze di vita un’occasione di apprendimento significa mettersi alla ricerca di un senso in ciò che facciamo ogni giorno. E la formazione ci aiuta in questo, a partire dalla scuola e fino ad arrivare al mondo dell’impresa, offrendoci la grande opportunità di diventare non dipendenti, ma costruttori di senso.
Ne ha parlato Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, in occasione del CEO Meeting, l’evento di presentazione dei progetti per il nuovo semestre del Consorzio Elis, organizzazione che riunisce aziende e CEO per realizzare iniziative di innovazione tecnologica e di interesse pubblico con lo scopo di facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro e promuovere una cultura professionale attenta alla persona e al bene comune. Alle scuole come alle startup, secondo Zezza, servono “coraggio, cuore e testa per creare l’innovazione di cui c’è bisogno. Oggi, non nel futuro”.
In base allo European Skill Index, nel 2020 l’Italia si è posizionata ultima in Europa per capacità di formare competenze per il mercato professionale. Tre indicatori, in particolare, penalizzano il nostro Paese: lo sviluppo delle skill, la transizione dal mondo della formazione a quello del lavoro e lo skill mismatching. La formazione del capitale umano in Italia conserva ancora un’impronta quasi esclusivamente culturale: nasce con l’obiettivo di diffondere conoscenze e competenze, ma non riesce a coniugare l’eccellenza culturale con un’impronta professionalizzante.
Anche nel mondo della formazione, va superata la dicotomia tra cuore e mente ormai rinnegata dalle neuroscienze. Come spiega Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dell’Educazione e dello Sviluppo all’Università di Padova, ogni persona è in realtà un grande radar che apprende non solo con la mente, ma anche con lo sguardo, la voce e il tocco. Dobbiamo passare dall’idea di cura, intesa come momento legato a una patologia o a una difficoltà, a quella di cura nel senso del verbo inglese care, ovvero come ‘stare a cuore’. Va superato il bias che guarda alla mente di chi si predispone all’apprendimento come a un frigorifero da riempire: una volta inserita l’informazione, ci si aspetta che questa rimanga immutata e venga restituita così come è stata trasmessa. Ciò preclude la possibilità di sviluppare il pensiero divergente ed elimina la capacità co-costruttiva delle persone.
Al contrario, sono questi gli aspetti che vanno stimolati. Secondo Marco Alverà, CEO di Snam e presidente della Comunità Consortile Elis per il nuovo semestre, il capitale umano è l’asset più prezioso su cui costruire il futuro. Chi fa impresa si occupa di futuro per definizione e deve quindi investire sul capitale umano, costruendo nuovi modelli educativi. L’80% dei mestieri del futuro saranno diversi da quelli che conosciamo oggi e per svolgerli serviranno competenze nuove, tecniche, soft e trasversali. Per Silvia Candiani, Country General Manager di Microsoft Italia, la capacità chiave oggi è il problem solving: per gestire un problema, occorre non solo aver appreso le giuste nozioni di base, ma saperle anche applicare per risolvere le situazioni.
Anche dentro le imprese bisogna, quindi, tornare a fare le domande giuste. Perché la transizione tanto evocata nel presente ci accompagnerà ancora a lungo: come ricorda Marco Sesana, Country Manager & CEO di Generali Italia e Global Business Lines, per ogni euro speso dalle aziende nel progetto di formazione Mindset revolution, promosso dal Consorzio Elis, si sono prodotti 3,08 euro di valore aggiunto. La formazione, dunque, triplica i risultati, ma insegna anche che coltivare le relazioni significa creare valore per le proprie imprese.
Esiste, d’altronde, una nuova generazione di imprenditori che non guarda soltanto ai risultati finanziari, ma misura anche il valore di ciò che mette in atto e l’impatto ambientale e sociale delle proprie azioni. Secondo Leonardo Becchetti, Economista e docente all’Università Tor Vergata di Roma, oggi la vera rivoluzione sta nei concetti di generatività e impatto. Esistono quattro variabili che fanno la differenza all’interno delle aziende, anche da un punto di vista economico: team working, capacità di coinvolgere gli stakeholder, attenzione al welfare aziendale e abilità nel relazionarsi con il territorio attribuiscono un valore aggiuntivo stimato in 22mila euro per addetto.
Nel corso del CEO Meeting si sono collegati, dalle sette palestre relazionali in cinque diverse città italiane, i 300 pionieri di “Smart Alliance”, il progetto di semestre guidato da Walter Ruffinoni, CEO di NTT DATA Italia, che in queste settimane è entrato nel vivo e sta sperimentando una “terza via” tra ufficio e lavoro da casa, condividendo spazi di lavoro diffusi e accrescendo competenze e relazioni personali.
“Siamo partiti da tre settimane – ha detto Ruffinoni – e i feedback sono decisamente positivi: le persone apprezzano tantissimo la possibilità di tornare a tessere relazioni, di contaminarsi con culture ed esperienze diverse e dialogare con il territorio in cui vivono”.
La relazione, dunque, è un valore in sé, ma ha anche un risvolto in termini di benefici economici. Scambiare conoscenza e costruire legami di qualità è il modo migliore per generare nuovo valore, per sé e per la propria impresa. Oggi il driver di cambiamento è la generatività. Questa conosce quattro verbi: desiderare, far nascere, accompagnare e lasciar andare. Per trasformare davvero le persone in creatori di senso, la strada migliore da intraprendere è far nascere in loro il desiderio di fare e – ancora prima – di apprendere.
Il movimento femminista negli Anni 70 aveva usato una metafora per definire la lotta per il raggiungimento della parità di diritti uomo-donna: superare il “soffitto di cristallo”. Oggi quella metafora è ancora molto attuale, soprattutto quando si leggono dati preoccupanti sulla presenza femminile in tutti i campi della vita sociale.
Basti pensare che poco più di un 1,3 milioni su 6 milioni sono le aziende nel nostro Paese guidate da una donna o che, nonostante le donne votino in Italia da più di 75 anni, non ci sia mai stata una donna capo di Stato o di Governo e la presenza femminile in politica sia inferiore rispetto a quanto accade in altri Paesi europei.
Il gender gap sociale continua ad essere una nota dolente nella nostra democrazia, che ci fa scivolare alla 63esima posizione nel Gender Gap Report del World Economic Forum e che induce a pensare a come le donne siano l’unica maggioranza trattata come una minoranza. Per questo, parlare di empowerment femminile è diventato ormai un mantra nei palcoscenici nazionali ed internazionali. Un mantra necessario quanto, a volte, bistrattato.
Piccoli segnali si sono visti recentemente: nel 2021 l’Italia ha ospitato il G20, realizzando la prima conferenza sulla parità di genere della storia, dove il Presidente del Consiglio Mario Draghi, nel suo discorso, ha sottolineato di aver adottato una “tabella di marcia volta a raggiungere e superare l’obiettivo fissato a Brisbane, che prevede di ridurre del 25% entro il 2025 i divari di genere nel tasso di partecipazione alla forza lavoro nei Paesi del G20”.
Dunque gender gap ed empowerment femminile sono due facce della stessa medaglia, sulle quali bisogna lavorare parallelamente per ottenere una reale e concreta presenza delle donne a tutti i livelli della società. Le ricette da seguire possono essere tante, da un diverso approccio a modelli di leadership a un salario e un welfare più equo, fino alla parità di diritti-doveri da attuare partendo dai nuclei familiari fino ai luoghi di lavoro. Quel che è certo è che il mondo ha bisogno di uno sguardo diverso, di soluzioni nuove.
Ma fino a quando le donne non avranno le stesse opportunità degli uomini, di poter competere alla pari per potenzialità e obiettivi, e soprattutto di far sentire la propria voce senza stravolgere la propria natura, un vero cambiamento sociale, culturale ed economico non avverrà mai.
Non si tratta, però, di consentire alle donne di correre sulla stessa pista degli uomini, piuttosto serve cambiare la pista perché sia più adeguata ad accogliere il diverso potenziale di entrambi.
Una delle vie da perseguire è un approccio basato su modelli di management che mettono al centro l’armonizzazione tra diversità ed inclusione e favoriscono il legame tra la creazione di una “Learning Culture” aziendale e la promozione della D&I.
Secondo un sondaggio lanciato dall’Harvard Business Review, le aziende che hanno puntato su uno stile culturale e formativo improntato a questi aspetti si sono rivelate non solo orientate ad un maggiore apprendimento, enfatizzando una flessibilità e una mentalità aperta al cambiamento, ma soprattutto capaci di adattarsi e pronte ad innovare.
Quindi, se il mondo lavoro puntasse su sguardi diversi, le aziende avrebbero solo da guadagnarci, perché una cultura aziendale aperta ad accogliere i molteplici ruoli e le diverse dimensioni identitarie delle persone (attraverso la cura, la collaborazione e la fiducia reciproca) riuscirà a favorire benessere, engagement e produttività.
Una cultura incentrata sull’apprendimento rappresenta la via maestra per includere voci diverse che apportano nuovi modi di affrontare le sfide e di risolvere i problemi. Secondo la ricerca, l’aumento del livello di diversità e inclusione riportato dagli intervistati nelle loro aziende va di pari passo con l’enfasi organizzativa sull’apprendimento.
L’apprendimento può svilupparsi su più piani, da quello individuale a quello di gruppo all’interno delle aziende. Resta centrale il ruolo dei manager, che sono chiamati a essere “changemaker” rispetto allo status quo e a comprendere come gestire o costruire questi nuovi sistemi improntati sull’apprendimento, dove ancora una volta le donne potranno apportare una prospettiva nuova e preziosa, affinché il loro potenziale sia considerato al pari di quello degli uomini. Forse solo così potremmo essere davvero orgogliosi di ospitare il G20 del 2021 a Roma.
Come è possibile lanciare un’impresa di successo? Non c’è una risposta unica a questa domanda e le variabili, si sa, sono moltissime. Ma ci sono alcuni consigli che si possono tenere a mente per iniziare un’avventura imprenditoriale che, metaforicamente, è come mettere al mondo un figlio.
“Desiderare, concepire, prendersi cura, lasciar andare”. Con queste parole chiave Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, ha ispirato i partecipanti dell’evento di Welcome di Switch2Product PoliHub, il programma di innovazione del Politecnico di Milano per supportare i giovani startupper. Ecco il testo integrale dello speech:
Desiderare
Tra sentire una mancanza
E sognare
“De-sidera” vuol dire senza stelle
Vuol dire accorgersi che nel cielo manca qualcosa
E che potremmo mettercelo proprio noi
Desiderare richiede Coraggio:
il desiderio guarda sempre lontano,
E’ nutrito dal senso della possibilità
Ma anche dalla conoscenza, dalla costanza, dalla passione
Concepire
Vuol dire mettersi in gioco
Creare occasioni
Spargere semi in modo generoso e non casuale
Non ogni seme andrà a frutto
E fioriranno forse i più inaspettati
Molti semi andranno perduti
Occorre errare molto, per poter concepire
Essere generosi di sé in modo quasi irragionevole
Non avere paura
Quanti errori fatti: ma sono stati davvero errori? E i prossimi, grandi che mi attendono: quali saranno?
Prendersi cura
Quel che nasce è fragilissimo
Richiede cura
Richiede attenzione, costanza, alleanze
Una cura che cambia e cresce con l’azienda, con le persone
Che non è mai uguale
Ma che alla base resta “cor-urat” – dal sanscrito “scalda il cuore” perché è vicino, prossimo, terrestre, quotidiano
Cuore
E rispondere ogni mattina alla domanda: sono dove voglio essere? Sto facendo quel che mi viene bene? So perché lo faccio?
Lasciar andare
È il movimento più difficile, ma tutto il resto deve prevederlo sin da subito, dal primo giorno
Crescere persone o progetti perché siano più forti di noi
Perché ci sopravvivano
Per fondare il mondo che sarà, e perché sia un mondo migliore
Lasciar andare: rendersi dispensabili
E scoprire la forza che un ego più piccolo, meno vulnerabile
Sa dare
La diffusione del lavoro ibrido legato alle conseguenze della pandemia ha allargato le distanze all’interno delle organizzazioni. Per questo, oggi è diventato ancora più importante mantenere saldi i contatti tra le persone. Stimolare l’inclusione e il senso di appartenenza, attraverso un atteggiamento di cura, può aiutare organizzazioni e team di lavoro ad affrontare meglio i cambiamenti. Lo dimostra l’esperienza degli ultimi mesi: venuta meno la barriera che separava la dimensione professionale da quella familiare, le aziende hanno imparato a considerare le persone nella loro interezza, scoprendone nuovi bisogni e differenti fragilità.
Secondo un report della School of Management del Politecnico di Milano (Lifeed è partner della Ricerca 2021/2022 dell’Osservatorio HR Innovation Practice), nonostante otto lavoratori su 10 abbiano ben chiari gli obiettivi da raggiungere e il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione, nel complesso le persone sono meno ingaggiate e coinvolte nelle attività lavorative. Il 79% dichiara di aver raggiunto un buon equilibrio tra vita privata e lavorativa e il 76% considera l’ambiente di lavoro più inclusivo. Eppure, la distanza tra l’organizzazione e le persone si avverte ancora.
Comunicazione interna e gestione del clima aziendale sono i processi considerati più critici. Se nell’ultimo anno è rimasta invariata la proficiency, ovvero l’efficienza e l’accuratezza nell’esecuzione delle attività, è invece calata tra i lavoratori la proactivity, l’indicatore che misura la capacità di introdurre miglioramenti in maniera proattiva a vantaggio dell’organizzazione. Le persone meno ingaggiate e meno coinvolte hanno avuto difficoltà a sviluppare idee utili a migliorare le attività lavorative.
La componente dell’engagement che si è ridotta in misura maggiore è quella del “vigore”, ovvero la condizione psicologica legata all’energia e al desiderio di lavorare. L’impegno che le aziende hanno messo in atto per motivare i propri collaboratori non è bastato a farle sentire oggetto di reale attenzione. È necessario allora intervenire per rendere le nuove modalità di lavoro davvero sostenibili, mettere in campo iniziative che stimolino il coinvolgimento e la motivazione e strutturare forme di leadership più attente e “gentili”.
Come conferma il report del Politecnico, è tempo di delineare un nuovo ruolo della Direzione HR, di “cura” e “guida” delle persone. Recuperare l’impegno dei collaboratori e stimolare in loro una maggiore motivazione significherebbe ‘convertire’ di nuovo alla causa del business e della produttività menti fresche e desiderose di collaborare. Investire nel benessere delle persone, senza perdere di vista le esigenze di business, è possibile: empatia e ascolto fanno bene alle persone e contribuiscono anche ad accrescere la produttività dell’azienda.
Ma come si sviluppa uno stile di leadership improntato alla cura? Essere leader “gentili” non significa dimenticare i propri compiti di guida e organizzazione. Al contrario, la gentilezza nel leader coincide con la capacità di riconoscere i bisogni delle persone e si manifesta nella scelta di permettere a tutti di esprimere in sicurezza emozioni e stati d’animo. Anche a se stessi: la vulnerabilità oggi può essere considerata un sintomo di forza del leader, non solo perché accorcia le distanze con i propri collaboratori, ma anche perché offre un esempio da seguire a quanti temono di mostrarsi deboli condividendo le proprie emozioni. Un leader empatico, ben predisposto all’ascolto e attento alle relazioni umane è un leader inclusivo, che riconosce il valore delle sue persone e lo trasforma in punti di forza al servizio del business.
Come dice Richard Davidson, fondatore del Centro per la Ricerca su Menti Sane dell’Università del Winsconsin, anche la compassione, come le competenze fisiche e accademiche, può essere allenata mediante la formazione e la pratica. La compassione esercitata dall’azienda contribuisce ad alimentare fiducia e collaborazione tra i lavoratori. Per Davidson, “le persone possono effettivamente costruire il loro ‘muscolo’ della compassione e rispondere alle sofferenze degli altri con attenzione e desiderio di aiutare”. Proprio nelle situazioni di forte stress emotivo, è importante prendersi cura del benessere psico-fisico delle persone.
I primi a dover allenare questo nuovo “muscolo” sono i Direttori HR, chiamati a sostenere le persone nel recupero dell’entusiasmo e della motivazione. Va ripristinata anche quella dimensione di socializzazione, venuta a mancare negli ultimi mesi, per ridare nuovo senso all’idea di appartenenza, lasciandosi alle spalle il senso di precarietà dovuto all’emergenza. Proviamo a imparare dall’esperienza vissuta: la sfida è interiorizzare e far tesoro dei cambiamenti portati dal modello di lavoro da remoto nella cultura aziendale e nei comportamenti delle persone, passando da una logica legata al presenzialismo a una basata sull’attenzione ai risultati. E, soprattutto, alle persone che li hanno ottenuti.