Per le donne del terzo millennio, la domanda è: “Che cosa hanno di diverso le donne? Qual è il contributo unico che possono portare oggi al mondo?”.

Le donne hanno un’eredità speciale e oggi hanno la possibilità e la responsabilità di portarla al potere.

Il Dna delle donne è cablato con la nascita e la cura: un tratto che ha consentito la sopravvivenza della nostra specie tanto quanto la nostra capacità di cacciare, se non di più.

Poiché nessuna specie in Natura ha bisogno di cura alla nascita più a lungo di quella umana, l’essere sociali è una condizione della sopravvivenza.

È sempre stato così. È un modello di caring leadership estremamente potente, che le donne possono incarnare e diffondere, portando una nuova prospettiva nel mondo.

In cosa consiste, dunque, la caring leadership femminile? Lo spiega Riccarda Zezza in questo video tratto dalla sua lectio al TEDx di Ortygia, pubblicato sul sito ted.com e tradotto in cinque lingue.

Di seguito il testo integrale dello speech:

Che cos’è il potere?
Se immagini il potere: che cosa vedi?
Ho fatto la stessa domanda all’oracolo della ricerca immagini di Google
Ed ecco che cosa ne è uscito: Il potere è bianco e nero
Ha a che fare con la forza,
Il potere è un burattinaio
Riguarda la prepotenza
Il potere è… un uomo bianco.
Una spada è un simbolo di potere, con una spada puoi imporre la tua volontà
Più affilata è, meglio è
punta al cielo: più alta è, meglio è.
Un missile è un simbolo di potere
una minaccia tecnologica alla vita: la logica del dominio
resa potente dal progresso
Il potere svetta nel cielo: il più lontano possibile dal suolo.
Ha la forma di una spada, di un missile, di una torre,
è solitario, appuntito e pericoloso
più alto è, meglio è, più grande è, meglio è.
…si, il potere può fiorire
ma lo fa come un albero: se genera la vita,
è solo un’esternalità della sua tendenza naturale ad elevarsi.
Attraverso i secoli, il potere si è sviluppato
distaccandosi dalle cose terrene della vita,
lasciandole indietro intenzionalmente
perché non ne trattenessero la crescita.
…ma perché è così?
Quando abbiamo deciso che il potere avrebbe riguardato la supremazia, la forza e la vittoria sugli altri?
…abbiamo mai avuto un’alternativa?
La fase più antica e più lunga della nostra storia, l’era preistorica:
ecco quando il modello attuale di potere
ha piantato le sue radici
in un istinto primario che ci ha tenuti in vita:
la nostra capacità di cacciare e lottare,
giocando un gioco a somma zero con le altre specie viventi.
Si, la caccia era un gioco a somma zero:
non era possibile finire pari.
Gli uomini potevano solo vincere o perdere,
e la conseguenza era la sopravvivenza o la morte.
Si tratta di un modello potente, che ha “cablato” il cervello degli uomini
al punto che “attacco o fuga” è diventata la sua risposta automatica allo stress
e oggi questo schema governa la maggior parte delle attività umane:
nell’arena politica come in quella economica,
applichiamo senza saperlo una prospettiva a somma zero,
gareggiamo, combattiamo, vinciamo o perdiamo, sempre.
Ma certo!
Come potremmo disobbedire un istinto così profondo e radicato?
Ed è un istinto degli uomini…
La ragione per cui la parola “anthropos” significa sia “essere umano” che “uomo”
non è la mancanza di fantasia dei linguisti:
rivela piuttosto una profonda verità.
Per molti secoli, per millenni
la storia degli uomini è concisa con quella dell’umanità
erano maschi i creatori e i narratori,
i loro istinti e le loro attitudini hanno dato forma al mondo così come lo vediamo oggi:
la specie umana porta l’eredità di millenni di… virilità.
oggi le donne rappresentano solo il 5% del potere economico nel mondo, nonostante siano il 50% della popolazione mondiale
Su un totale di 146 paesi, ci sono solo 15 leader politici donne,
otto dei quali sono il primo caso di donna al potere in quel Paese.
Il “business case” della diversità in realtà è ormai solido,
e le donne sono state invitate ad unirsi al gioco (come vedete).
Le porte del potere sono aperte,
ci sono programmi che ci insegnano come comportarci per essere adeguate,
ci sono quote che liberano posti per noi,
e agli uomini viene chiesto di fare uno sforzo aggiuntivo per non seguire il proprio istinto
nel selezionare pari che gli somiglino e si comportino come loro.
Le donne hanno ricevuto un invito che suona un po’ come:
«Siete le benvenute al nostro gioco: ecco le regole.
Per favore, però, non aspettatevi di poterle cambiare perché si adattino anche al VOSTRO talento alle vostre inclinazioni. »
Così, le donne hanno iniziato a entrare in partita:
hanno potuto indossare uniformi, per adattarsi meglio
e non dare fastidio a chi c’era prima di loro.
Le donne hanno potuto imparare a correre, competere, combattere per la vittoria…
hanno imparato anche a giocare a calcio… e a farselo piacere!
…hanno potuto anche cambiare qualche colore, purché questo non mettesse in discussione la “divisa del potere”– e purché non pretendessero di indossare la cravatta!
Alcune donne sono entrate, in un modo o nell’altro:
hanno dimostrato di saper giocare quel gioco, sedere a quel tavolo, seguire quelle regole…
ma perché così poche?
Perché, nonostante gli evidenti sforzi di trascinare le donne al potere,
le donne non ci stanno arrivando?
Sembra che abbiano bisogno di una ragione dannatamente buona
per decidere di abbandonare le loro comode posizioni di minoranza
e NON la stanno vedendo.
Beh, mi ricordo che quando sono diventata dirigente
il capo HR mi ha comunicato con orgoglio che adesso avrei potuto avere… l’auto più bella!
E io ero un po’ perplessa, perché non condividevo la sua eccitazione:
non ero arrivata fin lì per avere un’auto più grande!
Non si tratta di un dettaglio:
è il narratore a definire chi vince e qual è il premio;
se il premio non ti piace, probabilmente è perché non hai contribuito a scrivere quella storia
e, cosa anche più grave, questo ti rende meno interessata a scriverla anche in futuro.
Perché mai le donne dovrebbero entrare nella ressa per scrivere la definizione di potere?
Il posto di minoranza che hanno occupato negli ultimi 5.000 anni
ha reso loro possibile guardare e protestare,
con le mani libere per aggiustare tutte le piccole cose intorno a loro che non funzionano, giorno dopo giorno.
Libere di non firmare contratti che non le convincono,
e di non seguire strade scomode.
Ci vogliono un enorme sforzo e una grande motivazione
per aspirare a un potere con cui non ti identifichi
…specialmente se la ricompensa è un’automobile!
Sembra che lo sforzo che sta facendo la nostra società
sia quello di lasciare le cose come stanno, chiedendo alle donne di adattarsi ai valori attuali, come la finanza, la tecnologia, la competizione….
Beh, io spero che questo tentativo fallisca, perché ciò che abbiamo oggi
è un’opportunità unica per la nostra specie di evolvere:
se le donne cambiano i valori attuali, invece di esserne cambiate.
Io credo che la nostra chiamata in quanto donne non sia ad UNIRCI al gioco… ma a CAMBIARLO,
non ad adattarci al potere, né a sostituirlo, ma ad arricchirlo.
Fino a 3.000 anni prima di Cristo,
le civiltà pre-europee erano fondate sulla celebrazione della vita
adoravano la dea della fertilità e,
come ha detto la sociologa Riane Eisler,
credevano nel LINKING più che nel RANKING
non c’era una classifica tra uomini e donne:
si completavano a vicenda, e il loro potere congiunto si raddoppiava.
In queste civiltà, come ha detto Merlin Stone: Dio era una donna.
La domanda per noi, donne del terzo millennio, è:
che cosa hanno di diverso le donne?
Qual è il contributo unico che possiamo portare oggi al mondo?
Io credo che le donne abbiano un’eredità speciale, e che oggi abbiamo la possibilità e la responsabilità di portarla al potere.
Il DNA delle donne è cablato con la nascita e la cura:
un tratto che ha consentito la sopravvivenza della nostra specie
tanto quanto la nostra capacità di cacciare, se non di più.
Poiché nessuna specie in Natura ha bisogno di cura alla nascita più a lungo della nostra
e in nessun’altra specie quanto in quella umana, l’essere sociali è una condizione della sopravvivenza
E’ sempre stato così.
E’ un modello estremamente potente,
che le donne possono incarnare e diffondere,
portando una nuova prospettiva nel mondo.
Una ricerca fatta nel 2000 dalla professoressa Shelley Taylor ha rivelato che la reazione delle donne in caso di pericolo non è di “attacco o fuga”.
La Taylor scrive: Da un punto di vista evolutivo, le donne si sono evolute come caregiver;
Nel modello “attacca o scappa”, se le donne combattono e perdono, abbandonano i figli.
Allo stesso modo, è molto difficoltoso scappare se porti con te un bambino e non hai intenzione di abbandonarlo.
Quindi, come reagiscono le donne in caso di minaccia: qual è il loro modello adattivo?
Primo: la ricerca ha scoperto che le donne sotto stress solitamente trascorrono più tempo a prendersi cura dei loro figli. Questo istinto DI CURA è qualcosa di così radicato nelle donne che non hanno bisogno di essere madri biologiche per averlo.
Secondo: in momenti di stress, le donne formano legami sociali stretti per cercare alleati: questo è il cosiddetto istinto DI ALLEANZA.
Significa che in situazioni di stress le donne creano alleanze, evitano scontri, si basano sulle interdipendenze. Questo è un altro istinto primario delle donne.
…quanto pesantemente il modello maschile attacca o scappa ha influenzato il nostro attuale modello di potere?
…che meraviglia sarebbe poterlo arricchire con l’attitudine più femminile del “cura e crea alleanze”?
Questo è il modo in cui le donne possono contagiare il potere, con la cura e le alleanze:
un modello che viene da un modello evolutivo così vicino e facile per noi.
Come gettare le basi di questo potere, dove ne impariamo le pratiche e come possiamo condividerle con il mondo?
Ecco la buona notizia: abbiamo già tutto: tutto a portata di mano, tutto a “casa”.
Ho un lavoro molto impegnativo, e torno a casa tutti i giorni.
A casa, i miei figli mi riportano al significato terrestre di tutto:
Mi forniscono l’ispirazione e la realtà
completano i miei pensieri più profondi con i dettagli concreti della vita
nutrono il mio cuore con l’amore che mi serve per ricaricarmi.
Stare con loro mi connette con l’alto e con il basso,
con il piccolo e con il grande, con l’ora e con il per sempre.
Tutto ciò è impossibile da lasciare indietro per una madre.
Tutto ciò, a disposizione sia degli uomini che delle donne, può riconnettere il potere alla realtà della vita
ridandogli le radici che gli sono mancate per troppo tempo.
Jonh Stuart Mill sostiene che “non ci sono leggi economiche assolute: le scelte che facciamo sono politiche, e alla fine sono scelte umane”.
Quindi… le cose non devono essere come sono sempre state!
Se riconnettiamo il potere alla vita, se lo portiamo più vicino alla realtà, accadranno cose magiche…
– sui giornali, leggeremo di più a proposito dell’educazione dei nostri figli e di meno degli ultimi risultati finanziari
– spetteremo di considerare normale che un calciatore guadagni in un giorno ciò che un insegnante guadagna in un anno
– compariranno dei fan club dove le persone gioiscono per la fine della povertà
con la stessa passione ed energia che vediamo oggi per una finale di Champions League
– non vedo l’ora che sia il giorno in cui smetteremo di considerare la guerra come un’espressione di potere
– e inizieremo a festeggiare un potere che riguarda la vita, di nuovo.
Riportando la vita nel potere:
questo è il modo in cui le donne possono cambiare il mondo.
“Questo” potere risuona nelle donne dalle radici più profonde di chi siamo,
chiamandoci attraverso la nostra responsabilità verso la vita,
che non può più essere limitata solo alle nostre case.
Dobbiamo giocare questo gioco e, dato che non ci adatteremo,
lo renderemo migliore per tutti.
Ancora simile agli uomini e più simile alle donne
Non siamo chiamate a farlo perché è “giusto”,
né perché le donne “dovrebbero essere rappresentate”…
qui non si tratta di aiutare le donne…
…ma di aiutare il mondo attraverso le donne.

Spesso nelle aziende si sente parlare di “persone al centro”: un’espressione che generalmente mette d’accordo tutti, ma affidarsi a slogan come questo rischia di far smettere di porsi domande più profonde sulle persone. Infatti, i dipendenti non sono solo professionisti, ma portano al lavoro anche la loro vita privata e le transizioni che stanno vivendo.

In questo senso, il passaggio richiesto alle aziende è quello dall’Employee experience alla Life experience, nell’ambito di una caring leadership che tiene conto delle diverse dimensioni identitarie delle persone. Queste dimensioni contemplano, per esempio, i ruoli di cura (essere genitori, oppure figli di persone anziane o disabili) e altre esperienze di vita (cambiare casa, lavoro) che fanno emergere competenze trasferibili anche sul lavoro.

Combinazione tra Big data e Small data

Conoscere i dipendenti come persone, non solo come professionisti, significa chiamare in campo l’attività di People Analytics che deve estendersi a tutte le dimensioni della persona per sviluppare piani di crescita personalizzati e più efficaci.

“Le informazioni che siamo soliti misurare come il livello di benessere, engagement, produttività, ci dicono ‘cosa’ vediamo delle persone al lavoro, ma sono solo ‘la punta dell’iceberg’ – con una metafora, li possiamo assimilare ai Big Data di cui si parla nel Marketing. Il ‘perché’, le ragioni profonde di ciò che siamo abituati a osservare (e valutare) devono essere ricercate in quelle caratteristiche soggettive ed emozionali che, nella stessa metafora, possiamo paragonare agli Small data di cui parla Martin Lindstrom“, spiega Chiara Bacilieri, Head of Data di Lifeed.

L’autonarrazione fa emergere emozioni e competenze

“Dalla combinazione di Big e Small data nascono i Live data, che permettono di progettare piani di azione personalizzati per far emergere appieno il potenziale di ogni individuo”, spiega Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed.

Invece di porre agli utenti domande a risposta chiusa, il Life Based Learning proposto da Lifeed stimola le autonarrazioni delle persone, dalle quali emergono emozioni, atteggiamenti e competenze allenate e trasferibili dalla vita al lavoro.

In questo modo, le persone diventano attive nella creazione di contenuti tramite riflessioni su piattaforma digitale e le aziende hanno la possibilità di conoscerle meglio e valorizzarle in tutti i loro ruoli di vita, privata e professionale.

Su questo tema abbiamo tenuto un webinar dal titolo People Analytics: la formazione diventa ascolto, disponibile on demand.

L’ascolto è emerso con forza come azione fondamentale per gestire le transizioni dall’evento Come ridisegnare la cultura organizzativa e il purpose aziendale post integrazione organizzato da HRC, a cui ha partecipato anche Riccarda Zezza, CEO di Lifeed.

Le persone hanno bisogno di ascolto reale

Nel corso dei cambiamenti c’è una lunga ‘terra di mezzo’ tra quel che si era e quel che si sarà, che nella scienza delle transizioni si chiama ‘zona neutra’: è qui che si può fare la differenza tra la creazione di una cultura organizzativa e di un nuovo purpose aziendale di successo e un lungo periodo di incertezza e confusione. Nelle transizioni ciò dipende dal modo in cui le persone di sentono viste nella loro identità.

“Ascolto, comunicazione e coinvolgimento sono i tre fattori chiave per tradurre la vision in purpose”, afferma Lea Tarchioni, Head of Pople & Organization Country Italy di Enel. “I nostri valori sono nati proprio dall’ascolto delle persone, che ci hanno chiesto di aprirci e di essere partecipi del cambiamento, quindi abbiamo sviluppato una filosofia ‘open power’. C’è bisogno di aprirsi al confronto, allo scambio di idee e di maggiore coinvolgimento a tutti i livelli nelle scelte”.

Nelle transizioni, infatti, le persone hanno bisogno di essere ascoltate e di fare un proprio punto mappa. Sono proprio la vicinanza e l’ascolto a far crescere l’engagement e il benessere.

Ma come è possibile ascoltare davvero? I focus group vanno in profondità ma non possono coinvolgere tutti, le domande chiuse delle survey possono limitare la ricchezza di quanto fanno emergere: sono strumenti appartenenti a una visione delle Risorse Umane pre-pandemia. E non si tratta di rispondere ai bisogni delle persone con la creazione di stanze ad hoc dove vederle, ascoltarle e farle stare bene.

Oggi la Direzione HR delle aziende ha a disposizione sufficiente conoscenza e tecnologia per effettuare un ‘ascolto mentre’: invece di pensare a nuovi luoghi per dedicarsi a questa attività, si può ascoltare le persone mentre si occupano di altro.

Secondo Marina Famiglietti, Head of HR di Borsa Italiana, “lo sforzo dell’HR deve andare verso un ascolto reale, anche se magari ciò consente di raggiungere meno persone rispetto alle survey, che spesso vengono viste dai dipendenti delle aziende come un finto ascolto”.

Ma non occorre scegliere tra molti e pochi: ascolto reale e benessere possono essere integrati in altre attività che già coinvolgono le persone, per esempio progetti di formazione, engagement, diversity o cultura, attraverso i percorsi di autoriflessione digitali Lifeed, che avvengono insieme al resto.

La cultura aziendale si forma con le persone

D’altra parte, oggi siamo tutti interconnessi. Attraverso appositi moduli digitali a domande aperte che stimolano riflessioni e autonarrazioni, è possibile ascoltare davvero le persone, senza ‘obbligarle’ a rispondere a sondaggi che creano cornici e bias. Così si possono generare contenuti che vanno ad arricchire la cultura aziendale e, allo stesso tempo, fanno sentire meglio le persone.

Si tratta quindi di innestare nell’organizzazione la possibilità di vedere le persone, ascoltarle e dare loro modo di contribuire mentre lavorano e mentre la nuova cultura aziendale si forma, perché si forma con loro, attraverso il loro modo di lavorare.

In questo senso, secondo Fausto Fusco, Direttore Risorse Umane del Gruppo Bip, “l’azienda deve capire chi vuole essere e coinvolgere la ‘pancia’ della popolazione aziendale. In Bip, per esempio, abbiamo creato nuovi percorsi di induction per i neoassunti per farli sentire davvero seguiti e ascoltati, a lungo”.

Certamente l’ascolto non deve essere fine a se stesso. “Deve avere uno scopo preciso per portare risultati tangibili”, sostiene Fabrizio Rauso, Director People, Organization and Digital eXperience di Sogei. “E il purpose deve essere ‘azionabile’, cioè deve trovare concretezza ogni giorno nell’attività delle persone”.

Purpose azionabile e motivazione possono nascere da un contesto dove le esperienze delle persone, ascoltate a valorizzate, arricchiscono la narrazione collettiva dell’azienda e le rendono co-autrici della cultura e della definizione del purpose, in quella che Ester Cadau, International HR Audit M&A, PAI-PMI Director di Groupe Atlantic definisce una vera e propria “visione filosofica delle risorse umane”.

Nei prossimi mesi parteciperemo anche ad altri HRD Square: non perdere gli appuntamenti in agenda!

Giovedì 25 marzo 2021 – LA SFIDA DELLO SVILUPPO PARTE DALLA FORMAZIONE DEI CAPI
Lunedì 19 aprile 2021 – STRATEGIC WORK FORCE PLANNING: COME ANTICIPARE LE NUOVE COMPETENZE E COME SVILUPPARLE? (UP-SKILLING /RE –SKILLING)
Giovedì 6 maggio 2021 – ABBIAMO VERAMENTE CAMBIATO IL MODO DI FARE HR?
Lunedì 24 maggio 2021 – LA NUOVA FLESSIBILITÀ E LE RICADUTE SULLA LEADERSHIP. COME GUIDARE IL TEAM IN UNA FASE DI INCERTEZZA E QUALI PRIORITÀ PER AGIRE IL CAMBIAMENTO?
Martedì 22 giugno 2021 – INCLUSIONE: VERSO UNA CULTURA DELL’APPARTENENZA

Affrontare i cambiamenti quando le circostanze esterne continuano a essere incerte è un compito ancora più difficile. Che tu sia genitore, caregiver, o ti trovi nel mezzo di una transizione personale o professionale, le competenze soft sono fondamentali poichè rappresentano la tua risorsa più preziosa per reagire (con successo) all’incertezza.

Con la versione mobile di Lifeed alleni tue competenze soft quando e dove vuoi.

Questo perché la formazione Lifeed è… 

Un’esperienza di apprendimento a piccoli passi.

Lifeed si adatta alle fasi e ai ritmi della tua vita. Con la versione mobile, puoi sfruttare i momenti liberi della tua giornata per lasciarti ispirare da un podcast o da una lettura, riflettere con le domande aperte, o condividere le tue intuizioni nella community. Questo grazie ai moduli progettati in modalità micro-learning e ricchi di contenuti multimediali, per andare lontano, ma a piccoli passi.

Immediata: scegli cosa ti serve, ora.

Scegli le competenze che ti interessano di più in questo momento della tua vita e allenale con Lifeed. Osserva la tua famiglia, le persone di cui ti prendi cura, oppure te stesso, con più calma rispetto ai soliti impegni e imprevisti della quotidianità. Applica immediatamente nella tua vita quello che apprendi con Lifeed. Hai una missione real-life da compiere? Non perdere tempo: annota subito cosa hai imparato, le emozioni che ti ha generato.

Flessibile e sempre pronta.

Accedi da più device: PC, smartphone o tablet, quando ti è più comodo. Riprendi la tua formazione da dove l’avevi lasciata, senza perdere i tuoi progressi. Puoi anche riguardare i webinar che ti sono piaciuti di più o quelli che avevi perso, rileggere e aggiornare i tuoi racconti e le tue riflessioni, ricominciare da capo o prendere le scorciatoie per ottenere il tuo attestato più velocemente.

Per accedere a Lifeed da mobile, segui questi semplici passi.

Se è la prima volta che accedi a Lifeed da mobile, è facile, basta cliccare sul link che compare direttamente nella tua home di app.lifeed.io, dopo aver fatto login. Se, invece, hai già navigato Lifeed da mobile ma non l’hai salvata sul tuo smartphone, segui la procedura che ti spieghiamo qui sotto.

Se usi Android

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Dopo averla salvata, potrai spostare Lifeed come qualsiasi altra app, inserirla in una cartella o in un’altra pagina.

Buona formazione con Lifeed!

Nel “now normal” un alto employee engagement contribuisce ad aumentare i livelli di benessere, migliora la salute e diminuisce il rischio di burnout
Dipendenti più ingaggiati generano +21% di redditività, +20% di produttività, +10% di fidelizzazione del cliente (fonte: Gallup)
Scopri come si può migliorare l’employee engagement in 3 step


È nel now normal che va coltivato l’engagement dei dipendenti

L’arrivo del mese di settembre con il back to work ha portato a una diffusa urgenza di now normal: sappiamo ormai che non ci si può più aspettare il new normal di cui si è parlato tanto gli scorsi mesi, quanto piuttosto una normalità liquida, in continua evoluzione verso i next normal. Una normalità che, seppur transitoria, offre, tuttavia, qualche reminiscenza della quotidianità pre-Covid.

È in questi scenari che l’attenzione e la vicinanza alle persone è quanto mai fondamentale per aiutarle a riposizionarsi nei nuovi scenari, e diventa elemento determinante per la sopravvivenza dell’azienda. Adottare pratiche di employee engagement ha il vantaggio di incrementare i livelli di produttività, abbassare i livelli di stress e generare benessere organizzativo diffuso.

Secondo William Kahn, lo studioso che per primo ha elaborato una definizione di employee engagement (Psychological conditions of personal engagement and disengagement at work, 1990), sono tre le condizioni psicologiche necessarie affinché un dipendente possa dirsi pienamente coinvolto:

  1. La significatività, ovvero la misura in cui le persone sentono di ricevere un ritorno dal proprio investimento nella performance lavorativa;
  2. La sicurezza, che sussiste quando i dipendenti si sentono liberi di esprimere loro stessi, senza timore di subire conseguenze negative in termini di opportunità di carriera, status e immagine;
  3. La disponibilità, intesa come la consapevolezza di avere energie sufficienti a livello fisico, emotivo e cognitivo per realizzare l’attività.

In un recente studio di Gallup, società leader nella relazione tra team engagement e performance sul lavoro, viene confermato che i team dove si riscontrano livelli più alti di engagement ottengono risultati migliori: 21% in più di redditività, 20% in più di produttività, 10% in più di fidelizzazione del cliente. E i benefici non si riflettono soltanto sui conti aziendali: i dipendenti più “engaged” sono anche più sani e meno esposti al rischio di burnout.

Sempre secondo Gallup la crescita dell’employee engagement è da attribuire in via prioritaria ai cambiamenti del modo in cui le organizzazioni si occupano dello sviluppo dei dipendenti. Le realtà capaci di focalizzarsi su una cultura della crescita interna registrano un salto nei livelli di engagement dal 20% al 70%.

Ma c’è di più: la relazione sembra farsi più intensa tanto più difficili sono le condizioni esterne in cui opera l’organizzazione. Durante le crisi una buona predisposizione al lavoro impatta sui risultati aziendali in misura maggiore di quanto non accada in tempi normali. Durante gli ultimi anni di recessione economica si è, infatti, evidenziato un rapporto più stretto tra coinvolgimento dei dipendenti e aumento di indicatori quali redditività, produttività, percezione dei consumatori.

Ciò non significa che, in momenti di crisi, l’engagement cresca spontaneamente. Il distanziamento sociale e le nuove modalità di lavoro imposte dalla pandemia mettono a dura prova i tentativi delle aziende di mantenere coinvolto il personale. Proprio perché l’employee engagement aumenta solo grazie all’adozione di prassi organizzative positive, occorre sviluppare precise strategie per mitigare la distanza e rafforzare la partecipazione in azienda.

Come migliorare l’employee engagement in 3 mosse

Quali sono le buone prassi da adottare per far sentire le proprie persone accolte ed accettate in azienda, e incidere così sul miglioramento dell’engagement? Ecco 3 mosse adatte al periodo di incertezza che ancora vivendo.

Lascia che ognuno porti se stesso sul posto di lavoro

Il primo suggerimento è di guardare alle persone nella loro interezza. Uno studio di Deloitte ha rivelato che il 61% dei dipendenti nasconde alcuni aspetti della propria identità per paura di essere discriminato in ufficio o per timore di apparire poco concentrato sul lavoro. In molti casi il Covid ha reso impossibile questo tentativo di celare parti di sé.

In tempi di home working forzato, le persone hanno condiviso con i propri capi e colleghi aspetti inediti della propria vita: davanti agli schermi dei loro computer si sono mostrati non solo come professionisti, ma anche come genitori, compagni, caregiver. Consentire alle persone di portare tutto di sé anche sul lavoro significa creare una “cultura della cura”, in cui ognuno si sente motivato e libero di esprimersi. E ciò aiuta a ridurre le tensioni e aumentare la comprensione reciproca. Oltre a portare più liberamente tutti i propri talenti anche sul lavoro.

Valorizza l’apprendimento personale e continuo

Non sono solo i contesti formali a essere fonte di apprendimento. Si impara in ogni momento della vita e la crisi è una grande opportunità di sviluppo per le persone e per le organizzazioni. È possibile riconoscere le crisi come catalizzatore del cambiamento e decidere che tipo di trasformazione vogliamo realizzare.

Ne abbiamo parlato anche qui

La letteratura post traumatica individua cinque aree di crescita potenziale:

  1. Migliori relazioni con le altre persone;
  2. Una maggiore capacità di apprezzare la vita;
  3. Nuove possibilità, opportunità o priorità;
  4. Un senso di forza interiore;
  5. Un cambiamento spirituale ed esistenziale.

Sapere di aver superato un momento difficile e averne tratto una lezione importante rende più consapevoli delle proprie capacità e meglio equipaggiati per il futuro. In un’ottica di continuous learning, rielaborare il passato permette di essere autori e attori di una nuova storia di cambiamento: in un mondo in continuo divenire, reagire agli shock vuol dire imparare a ricominciare ogni volta da capo.

Ascolta le persone e insieme trovate soluzioni

La situazione che stiamo vivendo a causa del Covid-19 può essere, infine, una grande occasione per le organizzazioni per trovare risposte personalizzate ai bisogni delle loro persone. Aprire canali di ascolto evita l’isolamento e permette di comprendere le diverse sfide che i dipendenti stanno affrontando, individuando il modo migliore per sostenerli.

Adottare un approccio personalizzato significa promuovere una cultura del cambiamento condivisa all’interno dell’organizzazione. Ecco perché l’employee engagement ha bisogno di un dialogo continuo e corrisposto tra dipendente e azienda, che tenga in considerazione gli specifici bisogni di ognuno, permetta a ciascuno di creare il proprio percorso e lo inviti a condividere con gli altri quanto è stato imparato fino a quel momento per creare insieme un nuovo sense of purpose.

Una augmented learning experience che migliora (anche) l’employee engagement

Nelle transizioni come quella causata dal Covid-19 si cresce dunque solo se viene fatto tutti insieme: aziende e dipendenti, visti nella loro duplice veste professionale e privata. Lifeed, già attivo in oltre 80 aziende come Manpower, MSD, Reale Mutua, UniCredit, trasforma le transizioni in palestre di soft skill per l’efficacia professionale e si rivela un valido strumento per migliorare l’engagement delle persone, incidere sul loro benessere e migliorare la produttività sul lavoro.

Il 53% degli utenti Lifeed sente di poter rivelare e usare più cose di sé sul lavoro e il 57% è orgoglioso della propria azienda. Gli effetti sono chiari: il 90% sta meglio e ha più energia e la stessa percentuale di persone si dichiara di più coinvolta e motivata nelle attività lavorative quotidiane.

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La meraviglia dentro: il valore dell’ascolto nella transizione

“Negli ultimi tempi ha parlato il Covid, ora ascoltiamo le persone”. Così Riccarda Zezza è intervenuta nei giorni scorsi al Forum della Comunicazione 2020.

La transizione dovuta alla crisi, nella quale ci troviamo a navigare negli ultimi mesi, rivela che in realtà le persone portano dentro di sé un’infinità di risorse: ciò che serve loro è solo uno spazio in cui poterle esprimere. È questa secondo Riccarda Zezza “la meraviglia dentro”, quella che può fare la differenza tra un’azienda che rimane ferma e una che continua a prosperare. Essenziale diventa quindi il saper guardare quello che c’è dentro alle persone: la capacità di ascoltarle e di stimolarle, di capire che cosa le coinvolge e che cosa invece le blocca, sono elementi chiave per il benessere e la produttività in tutti i ruoli, a tutti i livelli.

Le fasi della crisi

Nel caso della pandemia c’è stata una fase di “impatto” e ora sta per iniziare una lunga fase neutra, di incertezza e ridefinizione, cui seguirà un nuovo inizio: queste fasi possono anche sovrapporsi e l’esito non è mai certo. Come sarà questo “nuovo inizio” dipende da noi ed è per questo motivo che la transizione va indirizzata. Per farlo, basta dare spazio ai “semi di futuro”, già presenti in noi: essi devono essere visti, riconosciuti, nutriti, in modo che possano fiorire. La domanda è: “come?”. “Non servono grandi strategie” secondo Riccarda Zezza, “ basta farsi domande nuove e ascoltare le risposte che le persone hanno già dentro”.

Dai partecipanti del master Lifeed Crisi, ideato proprio per aiutare le persone ad attraversare la transizione, uscendone arricchiti di nuove consapevolezze e competenze, sono emerse risposte interessanti alla domanda “Che obiettivo ti poni in questa crisi?”. Cambiamento, comprensione, transizione, competenze, conoscenze, capacità sono tra i termini più gettonati, a conferma che questi “semi di speranza” sono davvero già in noi. Alla fine, è legittimo anche scegliere di non voler più “tornare indietro”, dopo la crisi: infatti, è necessario riconoscere che le transizioni sono un evento naturale nella vita delle persone, delle organizzazioni e della società. Comprenderle  permette ai singoli, ma anche alle organizzazioni, di non subirne passivamente l’impatto.

Il 61% dei partecipanti ai nostri webinar gratuiti, organizzati per sostenere le persone durante l’emergenza sanitaria, ha dichiarato di essere preoccupato per il futuro: il 50% è incerto, il 34% ha paura, il 43% si sente stanco e il 74% reputa che aumenterà la richiesta di supporto psicologico.

Come cambieremo dopo la crisi?

Secondo noi, però, non c’è nulla di anomalo in tutto ciò: occorre solo capire che ogni transizione è occasione per imparare cose nuove. Il 56% dei partecipanti agli stessi webinar, ad esempio, ha riconosciuto di avere acquisito più flessibilità e il 45% ha individuato nuove possibilità, il 41% pensa di avere appreso nuove competenze, la maggior parte dice di essere diventata più flessibile al cambiamento, più resiliente, più creativa.

Tutto questo ci porta a confermare che, dentro di noi, abbiamo già i germogli pronti per generare un cambiamento positivo: per cogliere questa opportunità, però, cioè per far fiorire questi semi, essi vanno coltivati, nutriti, annaffiati. Lifeed Crisi indirizza ed aiuta questa “coltivazione”. Pochi altri eventi, nella vita, ci aiutano a cambiare (in meglio!), a rinnovarci, quanto la crisi. Perché l’esito sia positivo ed arricchente, però, serve usare il “concime” giusto.

Accompagnare il cambiamento per farlo fiorire

Le organizzazioni non devono ignorare o negare che la crisi c’è stata o è in corso: devono accompagnare le persone nei processi di trasformazione e rinnovamento, per evitare contraccolpi. Devono ascoltarle, aiutarle ad esprimersi, perché si sentano parte attiva di questo processo e non spettatori passivi.

La crisi, infatti, è stata anche una liberazione. Sembra un paragone eretico, eppure, ora, possiamo essere davvero più liberi. Liberi “da” qualcosa, cioè liberi da quella routine che soffocava ed opprimeva i nostri desideri, liberi da tutto ciò che ci opprimeva già “prima”. Abbiamo l’occasione di scegliere, finalmente, di essere diversi, per essere liberi “di” esprimerci in un modo più in linea con ciò che siamo e che vogliamo. È normale provare paura o ansia durante questo passaggio: sono segnali di sviluppo, che ci suggeriscono che
siamo sulla strada giusta per operare cambiamenti sostanziali. Siamo stati in attesa, in silenzio per mesi: abbiamo osservato, ascoltato, ma ora siamo pronti per dare spazio ai nostri nuovi desideri.

Ciò che i dipendenti imparano può diventare anche un’occasione per innovare la cultura aziendale. Una chiave di lettura collettiva degli esiti del master Lifeed Crisi, ad esempio, può favorire un vero rinnovamento dell’impresa, un’opportunità di crescita importante, per tutti. “Crisi” significa, letteralmente, scelta: ecco perché, alla fine, potremo scegliere di non tornare indietro, ma di essere quei nuovi individui, quelle nuove aziende che hanno imparato tanto di nuovo ed ora possono godersi i frutti di ciò che hanno appreso.

Clicca sull’immagine e ascolta il podcast dell’intervento di Riccarda Zezza al Forum della Comunicazione 2020

Ascolta il podcast dell'intervento di Riccarda Zezza al Forum della Comunicazione 2020

Abbiamo cambiato nome. Ma non la modalità con cui portiamo avanti la nostra azienda: con la stessa passione e lo stesso entusiasmo con cui nel 2015 abbiamo lanciato MAAM La maternità è un master, oggi inizia il nostro impegno per dimostrare che tutta la vita è un master!

Crediamo che la realtà sia meglio delle sue attuali definizioni: proponiamo nuove connessioni, nuove cornici per far stare insieme vita e lavoro, generando energia e sostenibilità.

Ecco perché nasce Lifeed, per aiutare le persone a vedersi riconosciute nella loro interezza, anche sul lavoro, e per affiancare le aziende affinché questo accada.

Crediamo che migliorare le proprie competenze soft sia alla portata di tutti: divulghiamo un metodo di apprendimento che fa emergere il potenziale di ciascuno dagli eventi della vita.

Non è solo la maternità, o la paternità, e nemmeno la cura intensa di un proprio caro, ma tutta la vita ci da’ la possibilità di mettere in campo numerose competenze soft. Le ricerche scientifiche e lo sguardo attento ai cambiamenti sociali ci hanno consentito di ampliare la nostra attenzione a tutte le transizioni della vita, che oggi accadono sempre più spesso, e che, se considerate dei “compiti di sviluppo”, permettono alle persone di uscirne più forti, con maggiori competenze ed energie, da riportare efficacemente anche sul lavoro.

MAAM non bastava più per esprimere questo enorme potenziale, ecco perché ci siamo dati un nuovo nome. In questi anni abbiamo creato tanti neologismi e tanti nuovi concetti, che sono diventati di uso comune. Con lo stesso augurio, oggi lanciamo Lifeed, acronimo di Life Feeds Education: la vita entra nella formazione aziendale e la arricchisce di una inedita modalità di apprendimento, impossibile da riprodurre in aula con la formazione tradizionale.

Crediamo che il momento migliore per ascoltare le persone sia mentre vivono: se dedicherai loro la giusta attenzione, emergerà la meraviglia dentro.

Ecco in pochi secondi cos’è Lifeed:

Immagina di essere una… torta

Immagina di essere una torta, una bella torta di compleanno, che tutti gli invitati non vedono l’ora di fare a fette e assaggiare. Ad ogni fetta messa nel piattino corrisponde un assottigliarsi del dolce, fino a sparire del tutto. Prova ad immaginare, ora, di quante fette è composta la tua torta. Probabilmente ti visualizzerai mentre dai una fetta ai tuoi figli, una fetta alla tua compagna o al tuo compagno, una fetta ai tuoi genitori, una ai tuoi amici e ai tuoi colleghi, e poi alla fine, se rimane, una anche a te.

La metafora è semplice: più sono le persone e le attività di cui ti occupi, più piccole sono le fette di torta che puoi dare ad ognuna di queste. Ma se potessi dedicarti a una sola cosa, quanta energia potresti mettere solo di essa? Ti sembra che nella tua torta ci sia abbastanza spazio per tutto? Probabilmente no.

Ma non devi preoccuparti: abbiamo una buona notizia! L’idea di noi come delle torte è stata superata. Le ultime ricerche sociologiche hanno mostrato una storia completamente diversa, ovvero che più ruoli nella stessa persona si accumulano e più si accumulano, più si rinforzano l’un l’altro, trasferendo tra loro energie e competenze.

Una buona notizia: i ruoli si accumulano

Pensiamo all’amore che doniamo alle persone che ci circondano: esso non è esclusivo. Siamo in grado di amare genitori, partner, figli, amici, ognuno in modo diverso, ma senza che l’affetto per l’uno diminuisca quello a disposizione per gli altri. L’amore si moltiplica, non si divide. Vale anche per le (buone) idee: se io ho due mele e ne regalo una ad un amico, ne avremo una a testa. Ma se io e il mio amico abbiamo due buone idee e ci rendiamo partecipi di esse vicendevolmente, avremo entrambi due buone idee. Ebbene, la stessa cosa vale per le competenze e l’energia: vengono moltiplicate, non divise e ci ritroviamo ad averne di più.

Le ultime ricerche sociologiche hanno mostrato che più ruoli nella stessa persona si accumulano e più si accumulano, più si rinforzano l’un l’altro, trasferendo tra loro energie e le competenze.

Cambiamo prospettiva, allora, alla visualizzazione della nostra torta. Adesso, immaginate che ogni ospite, invece di accaparrarsi una porzione, la aggiunga, fino a far diventare enorme il nostro dolce. MultiMe è un prodotto digitale che nasce proprio per scardinare lo stereotipo delle “fette di torta”, che non solo abbiamo su noi stessi ma che, spesso, anche la nostra azienda ha su di noi.

Le basi scientifiche di MultiMe

Nonostante la metafora suggestiva, MultiMe ha basi scientifiche molto solide, frutto di una ricerca multidisciplinare, che prosegue negli anni arricchendosi di nuovi contributi. Anche questa volta, partiamo da un esempio.

Marco è un pompiere, ed è anche marito e padre. Scoppia un incendio mentre è in servizio e deve accorrere. Giunto sul posto, si rende conto che il fuoco sta bruciando la una casa, in cui sono presenti due adulti e due bambini. In questa situazione, Marco si comporterà da pompiere o da padre di famiglia? Chi ha provato MultiMe, sa che la domanda è mal posta. Marco potrà unire il coraggio da pompiere all’amore del padre di famiglia, agendo con razionalità e salvando le persone dalle fiamme, come se fossero i suoi familiari, i suoi bambini. Questo perché i diversi ruoli che ricopriamo non annullano o escludono gli altri, ma si arricchiscono a vicenda.

L’esempio è volutamente estremo, ma pensiamo alle nostre vite più ordinarie. La capacità di ascolto e di mediazione che esercitiamo coi figli, o al contrario alcune competenze manageriali che esercitiamo coi colleghi, sono tutte abilità maturate tra i nostri ruoli, e che ci portiamo sempre con noi. Siamo più della somma delle nostre parti, e MultiMe ci permette di rendercene conto. MultiMe, in ultimo, permette il passaggio dal “role conflict” al “role accumulation”.

Il tool è stato realizzato da un team scientifico composto da Riccarda Zezza, dalle ricercatrici di Lifeed e dalla professoressa Maferima Touré-Tillery, ricercatrice della Kellogg School of Management della Northwestern University. Si avvale di anni di ricerca nel campo della “teoria dei ruoli”.

La teoria dei ruoli e la sua evoluzione grazie a Lifeed

Come sempre, partiamo dalla definizione. Viene in nostro aiuto Roger Barker, tra i fondatori della psicologia di comunità, che spiega le teorie dei ruoli come “un gruppo di concetti, basati su ricerche socioculturali e antropologiche, che riguardano il modo in cui le persone sono influenzate nei loro comportamenti dalla varietà delle posizioni sociali che ricoprono e dalle aspettative che li accompagnano”.

La “teoria dei ruoli” comprende due linee divergenti di pensiero e ricerca, che sono quella del role conflict e quella del role facilitation. I primi studi sul role conflict risalgono agli anni Sessanta, ad opera di William Goode. Egli elaborò la teoria del role strain, sostenendo che ricoprire diversi ruoli sociali è impegnativo, in quanto richiede risorse di tempo ed energia conflittuali tra loro, che causano, quindi, un forte disagio. Poi, gli studi successivi si sono concentrati sull’impatto positivo del ricoprire contemporaneamente più ruoli. In particolare, Sieber e Marks, negli anni Settanta, hanno dato risalto al fatto che rivestire più ruoli produce un maggiore benessere, perché i benefici associati all’accumulo di ruoli, generalmente, superano lo stress correlato al ruolo.

L’interesse per gli effetti delle interazioni tra ruoli diversi è aumentato negli ultimi decenni, poiché la partecipazione femminile al mercato del lavoro è aumentata e le donne hanno raggiunto livelli più alti nella gerarchia aziendale, aumentando le loro responsabilità all’interno delle organizzazioni. Inizialmente, gli studi organizzativi si sono concentrati sull’aspetto conflittuale del rapporto lavoro-famiglia, suggerendo che le donne che cercavano di conciliare famiglia e carriera soffrissero di stress psicologico e fisico. Tuttavia, nei primi anni Duemila comparvero studi (es. Ruderman, 2002) che evidenziavano i benefici a livello di competenze, ma anche psicologici, del “multitasking”.

Sieber e Marks, negli anni Settanta, hanno dato risalto al fatto che rivestire più ruoli produce un maggiore benessere, perché i benefici associati all’accumulo di ruoli, generalmente, superano lo stress correlato al ruolo.

Di fronte ad evidenze qualitative e quantitative, la ricerca di Lifeed ha approfondito questi aspetti di “role accumulation”, volti a raggiungere non tanto la conciliazione o l’equilibrio tra i ruoli, quanto una reale sinergia tra le diverse aree che interessano le nostre vite. Le risorse che abbiamo in noi “traboccano” tra i diversi ruoli, ma solo se riconosciamo la sinergia tra le parti della nostra vita e, tenendole insieme, le rafforziamo reciprocamente.

La transilienza

La teoria della role accumulation afferma che l’intera persona è più della somma delle parti che la compongono: ricoprire alcuni ruoli può generare risorse da utilizzare in altri. Il metodo Lifeed stimola, rende le persone consapevoli e innesca questo spillover positivo (“overflow positivo”), da un ruolo all’altro della vita. Lifeed migliora il potenziale educativo delle transizioni (come la genitorialità, la cura di un proprio caro, una crisi…), trasformando queste fasi di vita in uno strumento di sviluppo professionale.

Nasce così il concetto di transilienza, una combinazione di due parole: transizione e resilienza (Vitullo, Zezza, 2014). La transilienza è una meta-competenza (cioè una competenza delle competenze) che viene esercitata quando le abilità, le energie, le risorse emotive fluiscono da un ruolo all’altro. Per attivare la transilienza, l’individuo deve essere consapevole di essere una torta che cresce sempre e non si assottiglia.

Una torta che si arricchisce di continuo

Il metodo Lifeed usato nei nostri master si arricchisce oggi, dicevamo, di un nuovo strumento. MultiMe è un tool interattivo che aiuta a vedersi e farsi vedere come quella torta di compleanno su cui tutti gli invitati aggiungono una fetta, invece che sottrarla.

Nel semplice esercizio proposto da MultiMe, che si può ripetere all’inizio e alla fine dei nostri master, dopo aver individuato i singoli ruoli che ricopriamo ci viene chiesto di associare ad ognuno tre o più qualità. Al termine, scopriremo che alcuni ruoli hanno in comune molti aggettivi: si sovrappongono su diversi punti. I livelli di coesione e coerenza tra le parti aumentano.

Un più alto indice di “self overlap” implica anche un maggiore coordinamento etico, come ha dimostrato la professoressa Maferima Touré-Tillery nelle sue ricerche. Più i ruoli si sovrappongono, più la persona tende a comportarsi in modo etico, a non percepirsi divisi in compartimenti stagni. Pensiamo alla ricaduta che ciò può avere su un professionista che ha grandi responsabilità decisionali in azienda: più è coerente nella definizione di sé e dei propri ruoli, più sarà propenso ad assumersi responsabilità nell’ottica del bene comune.

Più i ruoli si sovrappongono, più la persona tende a comportarsi in modo etico, come ha dimostrato la professoressa Tillery della Kellogg School of Management della Northwestern University.

MultiMe è in grado di misurare quantitativamente e qualitativamente il “self overlap” e la ricchezza che porta con sé. Rende possibile mappare i risultati ottenuti dai partecipanti, come dato aggregato, valutando dunque in maniera oggettiva l’impatto del master. Scopriamo così che lo sguardo può andare oltre la superficie di fatica, di tempo limitato che percepiamo dei nostri ruoli, riconoscendone invece l’arricchimento.

I numeri ci danno ragione: 8.3 partecipanti su 10 suggerirebbero ad un amico di provare il nostro metodo. Il prossimo autunno avremo a disposizione i dati di impatto preliminari: saremo in grado di valutare, numeri alla mano, l’evoluzione delle nostre… torte di compleanno. E le torte di compleanno, lo sappiamo tutti, devono essere belle grandi!

“Never let a good crisis go to waste”. Dalla citazione di Wiston Churchill possiamo imparare molto per definire oggi nuovi approcci e nuovi modi di disegnare il futuro.

Si è tenuta il 28 maggio scorso la nostra quinta Life Ready Conference, il ciclo di eventi in live streaming che intende raccogliere idee, riflessioni e buone prassi per attraversare la crisi e affrontare il new normal che ci aspetta dopo il Covid-19. Cosa dobbiamo imparare di nuovo per affrontare il mondo del lavoro che ci aspetterà nei prossimi mesi? Quali sono le competenze soft che ci serviranno per operare con efficacia in una situazione di incertezza e continuo cambiamento? Come possiamo imparare a dis-imparare con flessibilità e rapidità?

“Bisogna disimparare per poter vedere il modello esistente come una sola delle tante possibilità, invece che come l’unica verità possibile”, spiega la nostra CEO Riccarda Zezza. “Dalle nostre survey, il 91% dei dipendenti si aspetta dalle proprie aziende un miglioramento dei processi grazie a quello che abbiamo appreso in questo periodo”.

Abbiamo affrontato questi temi con 6 rappresentanti di grandi associazioni imprenditoriali e manageriali, che oggi più che mai hanno il compito di influenzare la cultura d’impresa e accompagnare le organizzazioni nella transizione. 

Video dell’intero live streaming

Nicola Spagnuolo, Direttore del Centro di Formazione Management del Terziario (CFMT)

Rimuovere i retaggi per ‘reinstallare’ le competenze

“Le esigenze di cambiamento non nascono con la crisi”, puntualizza Nicola Spagnuolo, Direttore del Centro di Formazione Management del Terziario (CFMT), associazione in cui confluiscono novemila aziende del settore e circa 24mila manager. “Le aziende che affronteranno in modo più brillante il prossimo futuro sono le realtà che avevano già abbracciato il cambiamento.

La capacità di cambiare va, infatti, allenata nel tempo. Non basta una crisi per decidere di rivoluzionare l’assetto di un’azienda. Il momento attuale richiede non tanto di acquisire nuove competenze, ma di rivederne l’ordine di priorità. “Affinché il nostro approccio possa essere nuovo rispetto al passato, dobbiamo prima rimuovere i retaggi su cui sono fondate e poi ‘reinstallare’ le competenze”.

Elena David, presidente di Aiceo

Velocità di adattamento e sguardo rivolto al futuro

“Bisogna evitare che ciò che oggi viene chiamato new normal diventi invece un nuovo passato”, dice Elena David, presidente di Aiceo, l’Associazione italiana dei CEO. “Occorre disimparare la falsa retorica che pone l’uomo al centro solo per ragioni di fragilità: al contrario, dev’essere una forma di ricerca per ampliare i propri spazi cognitivi e di relazione. E occorre disimparare anche il potere dell’improvvisazione per ridare valore alle competenze”.

“Dobbiamo disimparare un mondo in cui il potere è affidato a uomini che scelgono altri uomini: come donna, vorrei che si imparasse un sistema basato sul merito e sulle pari competenze. Serve il coraggio di fare cose che non siano solo una reazione al momento di emergenza, ma che consentano un cambiamento vero”.

Isabella Falautano, componente del Board of Directors di Valore D e Chief Communication&Stakeholder Engagement Officer di Illimity

Sfruttare l’attesa come tempo della progettualità

“Le imprese devono prendersi cura delle persone, non soltanto ascoltarle ma ingaggiarle”, sottolinea Isabella Falautano, componente del Board of Directors di Valore D e Chief Communication&Stakeholder Engagement Officer di Illimity.

“Nelle fasi Vuca, il CEO dev’essere anche un Chief Emotional Officer e saper stare vicino alle persone in maniera autentica. Tra il momento della crisi e quello in cui scatta il cambiamento, non bisogna dimenticarsi di valorizzare l’attesa. Aspettare aiuta a grattare via il superfluo e riscoprire l’essenza dell’organizzazione. Ciò a cui rimanere ancorati quando tutto sembra incerto. Quando si è in una fase di attesa, è importante utilizzare il tempo per la progettualità”. 

Alessandra Pilia, Responsabile Comunicazione Api

Collaborazione e innovazione: oltre i confini del capannone

Ad aver affrontato la sfida più grande sono state forse proprio le piccole organizzazioni. Chiamate a scardinare l’idea che la strada battuta sia la sola percorribile e che l’imprenditore debba prendere le sue decisioni in solitudine. “Le persone per natura si adattano ed evolvono, e le aziende sono fatte da persone. Le Pmi non sono altro che famiglie allargate”. Alessandra Pilia è Responsabile della Comunicazione di Api, l’Associazione Piccole e Medie Industrie che rappresenta circa duemila piccole imprese lombarde, per un totale di 38mila lavoratori. Secondo un’indagine condotta dalla stessa Api, in tempi di crisi sanitaria ed economica il 68% degli associati è preoccupato per il futuro dei propri collaboratori e delle loro famiglie.

“I piccoli imprenditori si sono trovati a essere community manager delle loro organizzazioni, usando chat e strumenti che non erano abituati a utilizzare per dare informazioni che rassicurassero i dipendenti”. Il focus, ancora una volta, è la persona. “L’azienda non nasce e muore con l’imprenditore, ma vive e va oltre le mura e il capannone. Il primo innovation manager dell’azienda è colui che accetta di non sapere e disimpara la cultura che lo ha portato fino a lì, per ingaggiare collaboratori che abbiano il coraggio di dirgli ‘ora facciamo in un altro modo’”.

Paola Previdi, CEO di SFC, Sistemi Formativi Confindustria 

Normalità come gestione di situazioni eccezionali

La crisi degli ultimi mesi ha rallentato molti aspetti della vita personale e lavorativa, ma ne ha anche accelerati tanti altri. A partire dalla decisione di abbandonare schemi e comportamenti non più attuali. “In una situazione di ambiguità non hai conoscenze interpretative da portare avanti e hai bisogno continuamente di formulare domande”, sostiene Paola Previdi, CEO di SFC, Sistemi Formativi Confindustria.

“Oggi ci viene richiesto di reinquadrare i problemi e per farlo servono team misti, che uniscano competenze verticali e orizzontali. Chi gestisce un’azienda deve saper coordinare e tenere a bordo i collaboratori. Alcune imprese hanno attivato in maniera stabile lo smart working, molte hanno usato questo tempo sospeso per formare i loro dipendenti e per riscoprire la capacità di essere resilienti. La normalità in futuro sarà la gestione di situazioni eccezionali e complesse: ci saranno altri possibili cigni neri e bisognerà essere in grado di trarne vantaggio, stuzzicando il nostro cervello con l’innovazione”.

Paolo Ravà, Presidente dell’Ordine dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili di Genova

Un patto tra generazioni per un’economia nuova

“Si ha la percezione che molti oggi stiano cercando di fare tutto il possibile per tornare al mondo che conoscevano prima, riproponendo schemi del passato che però saranno ancora più indeboliti di prima. Noi professionisti, invece, abbiamo l’obbligo di riflettere sulle chiavi del futuro”, dice Paolo Ravà, Presidente dell’Ordine dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili di Genova. “Dobbiamo abituarci a guardare al tema con occhi nuovi: se i gestori dell’impresa continueranno a dover operare nel sistema organizzativo, legale, finanziario e di governance a cui sono abituati, sarà un fallimento. Il modello di creazione del profitto dev’essere sempre prioritario, ma va inserito in un sistema più allargato”.

“È necessario raccontare ai giovani una professione diversa, anche se a immaginarla non sarà la generazione di mezzo. Dobbiamo arrivare a un patto tra generazioni: essere d’aiuto a chi sa prendere rischi, ma anche imparare a prendere i nostri. E mettersi in gioco per un’economia che si basi sulle competenze e non sulle relazioni”.

Avete presente tutto quello che sapevate sui valori della vostra azienda, sugli obiettivi, sul clima e sulle relazioni interne ed esterne? Se non lo avete già fatto durante la pandemia, allora proviamo a metterlo in discussione proprio adesso. 

Ogni azione che viene messa in atto ora avrà probabilmente un impatto determinante sul presente e sul futuro dell’azienda. Quando l’emergenza sarà finita, le persone ricorderanno tutto ciò che l’impresa ha saputo o non ha saputo gestire sul piano organizzativo, culturale, sociale, sanitario. Pensate all’11 settembre 2001. Dove eravate, con chi, cosa stavate facendo nel momento in cui avete appreso la notizia dell’attentato terroristico? Potremmo scommettere che ce lo ricordiamo tutti perfettamente. La nostra mente funziona così: il trauma fissa in essa anche tutto il contesto. La pandemia che ci siamo inaspettatamente trovati ad affrontare, come ogni crisi, ha portato ad una transizione da cui non è più possibile tornare indietro. Tutto quello che ci dava sicurezza, come le relazioni tra i colleghi, la modalità di gestione del personale, i comportamenti dei manager, sono inevitabilmente cambiati. L’emergenza sanitaria ci ha richiesto un rapidissimo mutamento di abitudini: è dimostrato che le realtà con una cultura aziendale ben definita e radicata hanno attutito meglio il colpo.

Ma la crisi obbliga comunque ad uscire dalla propria zona di comfort. Non a caso, il cambiamento spesso viene associato al lutto, dal momento che richiede le stesse risorse per essere elaborato. Se esso, poi, è collettivo, occorre compiere lo sforzo di trovare una strada comune per affrontarlo. Il primo passo è senz’altro comunicativo: sapere che anche gli altri vivono le nostre stesse difficoltà ci aiuta a sentirci meno soli. Sappiamo bene che, ora, la salute dei collaboratori è la priorità. Prendersi cura di sé e degli altri diventa un elemento chiave nella quotidianità aziendale. Ciò non comprende solo lo stato di salute fisica, ma anche quella emotiva. Ansia, stress, disturbi del sonno, difficoltà cognitive sono purtroppo diventati sintomi di un malessere che colpisce forse più del Covid-19.

Siamo davvero pronti per la “fase 3”?

Nella “fase 1” tante aziende si sono preoccupate in primo luogo del benessere fisico ed economico dei propri dipendenti. Lo sforzo è stato concentrato sul “qui ed ora”: misure di sicurezza, sanificazione degli ambienti, attivazione, ove possibile, del lavoro a distanza, garanzie economiche. È stato tutto talmente improvviso e inaspettato che difficilmente qualcuno avrebbe potuto opporsi alle decisioni. La “fase 2”, però, ha visto aumentare i bisogni e le richieste. Essa ci ha mostrato come l’emergenza si sarebbe protratta a tempo indeterminato. Ci siamo resi conto che alcuni settori continuavano a crescere,  altri erano in forte crisi. Abbiamo capito che le scuole sarebbero rimaste chiuse, che lavorare da casa era possibile, che ridurre gli spostamenti ha giovato al tempo per sé e per la famiglia, ma anche all’ambiente.

Abbiamo cominciato a contare meno vittime e, quindi, a scovare qualche aspetto positivo della nuova condizione. L’essere umano è per natura estremamente adattabile alle circostanze: in fondo, è pur sempre un animale, che rientra in un contesto biologicamente evolutivo. 

Si sono fatte strada nuove consapevolezze, quelle di chi si sente un po’ un “sopravvissuto”: la leadership, per prima, è stata chiamata ad un cambiamento. I papà e le mamme, per i figli, incarnano “il supereroe”. La stessa cosa accade in azienda nei confronti del leader. Ma di fronte ad un’emergenza sanitaria, non tutti abbiamo la vocazione all’eroismo. Anche perché, a volte, sfocia in avventatezza. La via di mezzo è il coraggio, quel sano atteggiamento di consapevolezza dei rischi, ma anche degli strumenti per superarli in sicurezza. Allora, in questo momento, è più che mai vero che il leader deve agire nell’ottica del “buon padre di famiglia”, come dice addirittura il principio che ispira le nostre leggi civili. Quell’atteggiamento di tutela e, insieme, di apertura e rassicurazione che abbiamo avuto coi nostri figli in questo periodo è senz’altro una competenza trasversale che fa bene anche all’azienda.

Un punto di non ritorno

La crisi ha enfatizzato alcuni aspetti della cultura aziendale più legati all’impatto sulla società. Un esempio sono i nuovi spot pubblicitari girati in questo periodo: molti mettono l’accento sulla costruzione di una “nuova umanità”. Saremo davvero persone migliori? Difficile a dirsi ora, anche se è auspicabile. Di certo, ci auguriamo che le aziende non torneranno indietro rispetto ai comportamenti virtuosi attuati. Dallo smart working alla digitalizzazione, dal sostegno alle famiglie sino alla sicurezza dei luoghi di lavoro, dalla comunicazione alla condivisione di strategie, si sono compiuti passi enormi a cui, d’ora in poi, difficilmente le persone vorranno rinunciare.  

Analizzate queste situazioni, ora bisogna affrontare la “fase 3”. Come si fa a non disperdere tutto questo? Nessuna rivoluzione acquisisce un senso se non la si governa e non si mettono a frutto gli insegnamenti. Siamo certi che la pandemia avrà messo in evidenza talenti inaspettati, nuove competenze trasversali, capacità finora non considerate utili sul luogo di lavoro. Ma nella “fase 3” non c’è più spazio per l’improvvisazione: è il tempo dell’organizzazione. Ci sono aziende che hanno vissuto l’euforia di sentirsi un po’ eroiche: pensiamo a quelle che hanno convertito la produzione o che già prima producevano mascherine, respiratori, medicinali, presidi sanitari e di sicurezza. Al contrario, pensiamo a chi ha perso ogni motivazione per andare avanti: operatori del turismo, dei servizi, che si sono trovati a dover ricorrere agli ammortizzatori sociali, che hanno davanti a sé una lunga salita prima di ritornare ad una parvenza di normalità. Situazioni opposte che rischiano di implodere, per motivi del tutto diversi. Per i dipendenti, è il momento di rivedere obiettivi, engagement, retention, prassi organizzative. Come?

I dati emersi dalla survey che abbiamo sottoposto a circa 1.500 lavoratori e lavoratrici parlano chiaro: il 69% delle persone si aspetta che, per favorire il rientro, la propria azienda dia spazio ai pensieri e agli stati d’animo delle persone. Il 62% dichiara di provare preoccupazione all’idea di “tornare alla normalità”, perché il futuro sembra ancora incerto. Il 68% ritiene fondamentale la dote di ascolto nel proprio manager.

Come un master può aiutare a rinnovare la cultura aziendale

Il programma digitale Lifeed Crisi è in grado di sostenere le aziende nella delicata fase di ripresa. Grazie ai moduli formativi esso permette ai partecipanti non solo di elaborare la crisi, ma anche di interrogarsi sulle life skill che ha fatto emergere. Raggiunta la consapevolezza, grazie a un diario individuale che tiene il passo della formazione vera e propria, si possono condividere idee, sensazioni e stati d’animo in una stanza comune di discussione. Una nuova visione, una rinnovata cultura aziendale possono così andare costruendosi proprio a partire da ciò che i collaboratori esprimono. Ammettere, ad esempio, la paura per il futuro e poi condividerla è il passo per superarla. Le emozioni negative, se non affrontate ed elaborate, possono diffondersi in azienda proprio al pari del virus.

Lifeed Crisi consente di affrontare il cambiamento: mette tutta la popolazione aziendale in condizione di acquisire consapevolezza delle nuove competenze chiave allenate durante la crisi e di co-progettare un processo di rinnovamento della cultura aziendale. Ogni collaboratore si trova al centro e si trasforma in motore di cambiamento. Il percorso formativo  è basato sul Life Based Learning: nella transizione le persone tirano fuori competenze ed energie inaspettate e le aziende hanno l’opportunità di migliorare i processi e di innovare. Esso, inoltre, favorisce la riduzione dello stress: le persone si raccontano, condividono e mettono a fuoco paure, incertezze e desideri, trovando nuovi punti di riferimento dentro di sé. Ogni modulo si conclude con l’invito a contribuire alla “narrazione collettiva” insieme ai colleghi, per confrontarsi e arricchirsi reciprocamente, generare contenuti per l’azienda, a partire dai propri bisogni, riflessioni, idee. I partecipanti diventano così anche “autori” del cambiamento, per restituire valore alla propria azienda: se la pandemia ci ha insegnato una cosa, è che “nessuno si salva da solo”.