Se Vasco Rossi si fosse ispirato all’esperienza lavorativa dei nostri nonni, forse anche a quella dei nostri genitori, probabilmente non avrebbe scritto “Vita spericolata”, quanto piuttosto “Vita prudente”. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno conosciuto senz’altro momenti storici difficili, ma la professione, almeno quella, era una certezza. Esisteva il “mito del posto fisso”, quello che, ormai, si studia sui libri di scuola, a cavallo tra la storia e la letteratura. Le tappe della vita erano ben definite, l’approdo al contratto a tempo indeterminato segnava un engagement definitivo. Se avessimo raccontato loro della letteratura scientifica che esiste oggi su questo tema, probabilmente avrebbero sorriso. Eppure, non è affatto scontato che fossero più appagati e realizzati delle nuove generazioni. Oggi le transizioni lavorative sono fisiologiche: anche chi segue un iter tutto sommato lineare, molto difficilmente potrà esimersi dallo sperimentare almeno qualche tirocinio, un contratto di apprendistato, collaborazioni esterne, per poi approdare ad una certa stabilità contrattuale, ma, anche in questo caso, non escludendo diversi cambi di azienda.

Pier Giovanni Bresciani, Docente di Psicologia del Lavoro presso l’Università di Urbino e Presidente della SIPLO – Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, che è uno dei massimi esperti di transizioni in Italia, nei suoi testi fondamentali (cfr. ad es. Biografie in transizione. I progetti lavorativi all’epoca della flessibilità. Franco Angeli, Milano, 2006) osserva giustamente come queste transizioni lavorative avvengano oggi in un contesto sociale molto più “liquido”, per dirla con Bauman. L’incertezza soggettiva, data da una società che ha abdicato al proprio ruolo di accompagnamento alla crescita dell’individuo, difficilmente viene sostenuta dalle contromisure messe in atto nel mondo della formazione e del lavoro. Come fa notare Bresciani, per affrontare la transizione le persone utilizzano e mescolano elementi diversi, che fanno parte della propria dotazione individuale di risorse. Ecco perché ogni cambiamento, anche se positivo, è comunque un momento delicato nella vita. Ogni ‘spostamento’ richiede sempre al soggetto una ridefinizione cognitiva, a volte anche molto complessa: essa evoca sempre ansie, paure, insicurezze, ci pone di fronte alle nostre scelte e al giudizio che abbiamo su noi stessi, ma anche a quello degli altri (o al timore di quello che gli altri vedono in noi). Lasciare il noto per l’ignoto comporta emozioni complesse, la cui elaborazione richiede risorse personali importanti.

L’esperienza come frutto di transizione

Pensiamo alla maternità e alla paternità. Questo è forse il più grande e significativo cambiamento di vita che una persona può vivere. Ebbene, anche la maternità e la paternità sono delle transizioni e per noi, proprio per questo, sono anche delle palestre di efficacia professionale. Qualunque sia il nostro ruolo in azienda, quello che apprendiamo diventando genitori può essere messo a frutto anche sul lavoro. Quasi inevitabilmente il genitore aumenterà la propria capacità di ascolto, di mediazione, di comprensione dei colleghi e collaboratori. Il modello di leadership, di gestione del conflitto, persino quello della gestione del proprio tempo (e, di conseguenza, la produttività) possono cambiare positivamente, se guidati ed accompagnati a riconoscere le abilità che la transizione ha portato con sé.

Pensiamo, più in generale, a quella che definiamo “la nostra esperienza”. È quella che descriviamo sul curriculum, ma anche quella che avanziamo come argomento di conversazione, o per consigliare qualcuno. “Secondo la mia esperienza” è di solito l’incipit che fa sì che il nostro interlocutore difficilmente possa eccepire o ribattere: è un argomento quasi assoluto, insindacabile, perché presenta un aspetto di sé come un fatto, non come opinione. Ma quella condizione di vita che definiamo esperienza la costruiamo proprio transizione dopo transizione. La difficoltà consiste nell’affrontarla, elaborarla, metterla a frutto, anche sul lavoro, perché questo importante bagaglio personale porta con sé l’acquisizione di competenze. Difficilmente, tuttavia, le cosiddette life skills, o anche le soft skills, possono essere riconosciute e trasformate in un punto di forza in autonomia. Non è la scuola che ci insegna a metterle in pratica, nemmeno l’Università. Con Lifeed, la formazione tra digitale e vita reale che valorizza le esperienze di vita e le rende risorse preziose per l’attività lavorativa, abbiamo pensato e strutturato addirittura un master (anzi, più di uno) per apprendere l’enorme potenziale di sviluppo che la transizione porta con sé. Con cinque anni di esperienza alle spalle, sappiamo che le persone che attraversano una transizione possono uscire più deboli o molto più forti: dipende da come la attraversano.

La transizione nella crisi

L’esempio che abbiamo fatto (diventare genitori) è riferito ad una cosa bella. Ma non tutte le transizioni derivano da un evento positivo. Pensiamo all’emergenza sanitaria data dal Covid-19. Essa ha portato cambiamenti, in noi e nel mondo del lavoro, da cui sarà difficile tornare indietro. Eppure, anche questa transizione non è positiva o negativa in sé. Dipende da come la si vive. Lifeed Transitions vuole aiutare le aziende e i loro dipendenti a ricavare i frutti positivi di questa esperienza. Rischi ed opportunità sono due facce della medaglia che il destino ha lanciato in aria, ma noi abbiamo la possibilità di condizionare il lato su cui la moneta cadrà. L’uomo è animale sociale: questo lavoro non può essere solo interiore. Deve coinvolgere il contesto in cui siamo inseriti.

Ecco perché Lifeed Transitions permette non solo di apprendere la gestione di questa transizione e farla diventare motivo di crescita personale, ma anche di porla come terreno di confronto e crescita del team. I partecipanti, “dal basso” possono contribuire alla (ri)costruzione di una nuova cultura aziendale, che parta dal riconoscimento e dalla applicazione delle nuove competenze apprese dal singolo. In questo modo, la medaglia cadrà sulla faccia giusta, quella delle opportunità: lo psicologo e politico David Halpern parla di “crescita postraumatica” in contrapposizione alla sindrome da stress postraumatico. Questo esempio ci aiuta a capire come un evento doloroso, cui tendenzialmente assoceremmo esiti negativi, grazie ad un supporto idoneo e competente può non solo essere superato senza traumi, ma addirittura portare ad un miglioramento. Il momento della crisi è un guado: la struttura giusta può aiutarci a superarlo indenne.

Il Bridges’ Transition Model insegna a riconoscere gli stati d’animo che affrontiamo durante la transizione: la fine di qualcosa porta ad essere sotto shock, spaventati, arrabbiati. Ne consegue un disorientamento, una confusione mentale, uno stato di frustrazione o addirittura di apatia. Se abbiamo gli strumenti adatti, possiamo trasformare queste sensazioni negative in un nuovo inizio. Se, al contrario, non è gestita, la transizione può avere ripercussioni molto negative, anche sul benessere dell’azienda. Se non si abilitano nuovi linguaggi, non si esplicita la rottura dei vecchi stereotipi e non si fa spazio all’incertezza e al bisogno delle persone di esprimersi, la ricaduta potrebbe essere un aumento dello stress dalla durata molto lunga e una perdita di senso per molte persone.

Comprendere ed apprendere per migliorarsi

Non sono gli individui più forti o più intelligenti a sopravvivere alla crisi, ma coloro che sono capaci di adattarsi al cambiamento. Perché questo avvenga, è necessario capire a fondo i mutamenti cui siamo andati incontro, le competenze che abbiamo sviluppato per affrontarli e comprendere come possono essere applicate con successo nel nostro contesto lavorativo. È solo quando abbiamo attraversato il guado che, un po’ increduli, ci chiediamo come abbiamo fatto ad arrivare indenni dall’altra parte. Allora, dobbiamo guardarci indietro per capire il passato, anche gli errori. Il presente, infatti, serve proprio a rimediare ed essi. Il passato non va visto in ottica profetica: quello che è successo non è destinato a ripetersi, se abbiamo imparato come evitarlo. Lo sguardo al futuro deve rendere generativi gli apprendimenti che ci hanno permesso il passaggio. Creatività, intraprendenza, apertura mentale, gestione del cambiamento, visione: sono queste le capacità che i partecipanti ad una nostra survey si sono attribuiti, mentre attraversavano l’emergenza sanitaria. Si tratta di skills importanti, che possono essere applicate con successo al lavoro.

Il master Lifeed Transitions accompagna non solo nella fase del riconoscimento, grazie allo strumento della narrazione di sé, ma aiuta a condividere in “stanze virtuali” le proprie sensazioni: “nessuno si salva da solo” è un primo, grande apprendimento che ci ha lasciato in eredità il Covid-19. Scoprendo le proprie risorse si può attraversare quel ponte sospeso tra l’incertezza e l’autonomia (If You’re Burning Out, Carve a New Path, Harvard Business Review April 2020), agendo per controbilanciare il “carico allostatico” e lo stress dati dalla crisi. Il termine “allostasi” venne coniato nel 1988 da Peter Sterling e Joseph Eyer (dal greco ‘allo’, che significa variabile e ‘stasis’ che significa stabile), per indicare che la stabilità dell’organismo è il risultato del cambiamento. Questo modello si può definire predittivo, perché cerca di anticipare le domande dell’ambiente agendo sempre sugli stessi sistemi dell’organismo. È alla base, quindi, di un concetto oggi molto utilizzato, quello della ‘resilienza’: anche tale capacità si può apprendere ed allenare, per diventare protagonisti, non spettatori della nostra storia. Non è da confondersi con la resistenza: questa è la semplice presa d’atto delle proprie cicatrici, nonostante le quali proseguire il cammino. La resilienza, invece, è la capacità di imparare da esse, ammettendo e comprendendo i propri errori e trasformandoli in punti di forza: ciò permette non solo di migliorarsi, ma anche di affrontare la paura del cambiamento, che è del tutto naturale. Questo non possiamo impararlo se, semplicemente, ce lo racconta qualcun altro. L’incertezza provocata dalla transizione fa emergere le meta competenze che più servono al mondo del lavoro e che sono più difficili da formare in aula: l’attitudine al cambiamento continuo, la tolleranza dell’errore, lo spirito di iniziativa, l’imprenditorialità, l’agilità mentale, la leadership, la responsabilità, l’autodeterminazione. Sono tutte capacità che vanno rafforzate con un aiuto competente. 

Lifeed Transitions fa esattamente questo: grazie al team scientifico che lo ha progettato, altamente esperto di questi temi, sa fare spazio alle riflessioni delle persone, accompagnarle in un percorso attraverso la crisi, mettendo in evidenza come cambiano le loro identità, rassicurandoli e facendoli sentire più forti. A beneficio di tutti, perché, come ci insegna Darwin, ai fini della sopravvivenza non conta solo l’eccellenza del singolo individuo, ma l’intero contesto biologico e sociale in cui è immerso.

di Riccarda Zezza

Sensibili guerriere: sono le mamme che in questi giorni si stanno trovando davanti all’impossibile scelta tra figli e lavoro, pagando in prima persona il prezzo di una società che ancora poggia, per mantenere il proprio precario equilibrio, sulla loro resistenza e il loro spirito di sacrificio. E’ proprio così: oggi più che mai è alle madri che si chiede di fare un passo indietro, ed è alla loro forza accudente e resiliente che si chiede di sostenere quella parte di Italia che forse non vota, ma dà un volto al nostro futuro: i figli.

Sensibili guerriere è il titolo di un saggio sulla forza femminile a cura di Federica Giardini, ed è anche il titolo preso in prestito dalla conferenza digitale organizzata il 7 maggio da Alley Oop – Il Sole 24 Ore e dalla società HR-tech Life Based Value di cui sono amministratrice delegata: mantenendo una promessa fatta durante una conferenza analoga organizzata con sette “CEO papà” in occasione della Festa del papà, eccoci a festeggiare la Festa della mamma del prossimo 10 maggio insieme a sei “CEO mamme”.

Le CEO mamme, questa era la provocazione lanciata dalla conferenza, combattono forse un doppio stigma: troppo CEO a casa e troppo mamme sul lavoro? La storia che ci hanno raccontato è stata molto più luminosa, tanto che non pochi dei 500 partecipanti hanno commentato ringraziando per aver aperto la loro giornata in modo positivo.

Video dell’intero live streaming della conference

Ma partiamo dai dati: sulla base un sondaggio tra 1.500 partecipanti ai webinar di Life Based Value, sappiamo che il 63% delle persone oggi ha bisogno di rassicurazioni sul futuro e che il 44,5% vuole anche essere coinvolto di più nella definizione delle soluzioni. Il modello di potere desiderato è un misto di collaborazione (26%), conoscenza (26%), rispetto (17%) ed empatia (13,5%), e dai manager della fase 2 ci si attende che sappiano soprattutto condividere (70%) e ascoltare (68%), ma anche, forse sorprendentemente, che sappiano prendersi dei rischi (60%).

Quasi l’unanimità dei partecipanti (l’89,8%) ritiene poi che in questi tempi di emergenza sia possibile e necessario usare un potere di tipo “generativo”: un potere che sappia disegnare oggi il futuro, seminando idee e progetti che gli sopravvivranno.

Che cosa c’entra la maternità? Molto, anche se, come ha detto lo psicanalista Erikson nel descrivere la generatività: “La semplice messa al mondo di figli non garantisce che il genitore svilupperà un senso di generatività. I prerequisiti per lo sviluppo in questo stadio sono fede nel futuro, fiducia nella specie e abilità a occuparsi degli altri. Invece che allevare figli, si può lavorare allo stesso modo per creare un mondo migliore per i bambini degli altri”. Ecco quindi cinque pillole di potere generativo emerse nella conferenza del 7 maggio:

Livia Cevolini, amministratrice delegata di Energica Spa, casa costruttrice di moto elettriche ad elevate prestazioni, e mamma di una bimba di due anni: diventare madre le ha dato un nuovo scopo, tanto che adesso punta tutto sull’energia verde “Perché voglio far sì che lei viva in un mondo migliore”. Oltre a ricevere un’energia meravigliosa da questa nuova dimensione personale, ritiene che migliori la sua capacità di comprensione degli altri e di valorizzazione dei talenti.

Isabella Fumagalli, amministratrice delegata di BNP Paribas Cardif, diventando mamma di due ragazze ha “ingranato una marcia in più”, sentendo la responsabilità di disegnare un futuro per le sue figlie; e dalle conversazioni con loro, dalle loro “domande autentiche” ha imparato che cosa vuol dire la faticosa ma essenziale ricerca di un senso di verità. In questa fase di quarantena, poi, Isabella sta scoprendo che anche le persone della sua azienda sono molto più che professionisti: ognuno e ognuna di loro ha molteplici dimensioni, che aprono prospettive nuove anche sul modo di lavorare insieme, sulle possibilità di vicinanza tra persone e azienda (mentre non sta parlando ma è comunque inquadrata, Isabella viene abbracciata e baciata da una figlia di passaggio).

Roberta La Selva, CEO di Ogilvy Italia, diventando mamma di Michele e Arianna ha scoperto come ri-bilanciare tutto con la leggerezza che avere molti “campi da gioco” dà, redistribuendo i pesi e imparando mentre insegna, affinando l’empatia e soprattutto l’agilità mentale richiesta dal continuo adattamento a situazioni nuove, “Come per esempio fare conferenze come questa dal balcone di casa, visto che tutte le altre stanze sono occupate!”.

Elena Riva, co-proprietaria e Presidente di Panino Giusto SpA, ha tre figli insieme al loro papà, con cui è anche socia in affari, e questo “insieme ” ci tiene a sottolinearlo, perché l’azienda è un quarto figlio che da sola non avrebbe mai potuto fare. Con i tre figli – e con i 450 dipendenti della sua azienda – ha scoperto il valore della diversità come effetto moltiplicatore. Come leader e come madre, riconosce nei propri figli così come nei propri dipendenti il senso di indipendenza, che la porta a definirsi una “custode”: una custode molto paziente, che semina, insiste e persevera con fiducia, sapendo che il momento del raccolto arriverà.

Susanna Zucchelli, infine, Direttrice Generale di Heratech, non abbiamo scoperto quanti figli abbia, ma ha ben chiaro che la maternità le ha fatto portare anche nel suo ruolo di leader di un’azienda molto “hard” (ha la responsabilità della Direzione Ingegneria, delle strutture di Telecontrollo e Laboratori e della gestione dei processi e servizi) un atteggiamento materno e “avvolgente”, che sa far emergere una “bio-resilienza” nelle sue persone particolarmente utile in questa fase. Avere dei figli, aggiunge, le ha dato una visione a lungo termine e la capacità di chiedere aiuto quando serve. “E, se non te lo danno, alla fine li obblighi!” ha concluso con quel senso pratico e terrestre che hanno le persone che gestiscono tutti i giorni le sfide concrete della vita.

Auguri dunque alle sensibili guerriere: a tutte le donne che lavorano e si prendono cura di qualcuno. Fortunate se trovano la sinergia tra questi equilibrismi, avvantaggiate se lasciano per strada i sensi di colpa e di inadeguatezza che la nostra società elargisce loro in abbondanza, sono comunque sempre capaci di esprimere un potere che è fatto di forza ma, come ha detto la prima ministra neo zelandese Jacinta Ardern, anche di gentilezza e di capacità di stare insieme.

Post originariamente pubblicato su Alley Oop Blog de Il Sole 24Ore

Nella fase 2 rischia di ammalarsi di stress 1 lavoratore su 4. E’ possibile evitarlo?

Life Based Value lancia il primo programma di formazione digitale al mondo che trasforma l’esperienza della crisi in un’opportunità di sviluppo per le persone e per le aziende.

Milano, 29 aprile 2020. Alla vigilia del Primo Maggio e dell’allentamento del lockdown appena annunciato dal Governo, ci si chiede in che modo le aziende intraprenderanno la “Fase 2”, per tenere conto delle reali esigenze dei lavoratori a vantaggio del loro benessere, produttività e performance. Secondo le previsioni del World Economic Forum, nei prossimi mesi una persona su quattro arriverà ad avere dei livelli tossici di stress, perdendo fino al 35% di produttività sul lavoro. Per Life Based Value, azienda HR-tech esperta nella formazione basata sulle transizioni, è possibile invertire questa tendenza cogliendo il potenziale di sviluppo che questa crisi, come ogni transizione della vita, porta con sé.

Nasce a questo scopo il Master Crisi, il primo programma digitale al mondo che si rivolge a tutti i lavoratori indipendentemente dal ruolo e dal livello professionale e che consente alle aziende di formare e ascoltare le proprie persone attraverso la crisi, valorizzando l’opportunità che questa esperienza dà di mettere in campo nuove competenze e di innovare modi di lavorare e di produrre.

Dai sondaggi svolti da Life Based Value nell’ultimo mese, il 41% delle persone dichiara spontaneamente di aver migliorato alcune competenze grazie all’esperienza del lockdown – come ad esempio la capacità di gestione del cambiamento (l’81%) e l’apertura mentale (il 53%). L’83%, inoltre, si aspetta che la propria azienda faccia spazio al cambiamento e il 69% che i datori di lavoro per favorire il rientro ascoltino pensieri e stati d’animo delle loro persone. Il manager ideale nella Fase 2 dovrà quindi avere grandi doti di ascolto (68%) e di condivisione (70%).

Il nuovo master si sviluppa nell’arco di 3 mesi su una piattaforma digitale, alternando formazione multimediale, esercizi di riflessione individuale e collettiva. Questo programma fornisce ai responsabili HR e ai manager dell’azienda dati aggregati utili a indirizzare le scelte rivolte ai dipendenti e ad aggiornare la cultura aziendale rispetto alla realtà che cambia.

Master Crisi è stato messo a punto avvalendosi della collaborazione di un comitato scientifico, costituito da Pier Giovanni Bresciani, Presidente SIPLO Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, Felice Di Lernia, Antropologo ed esperto dell’utilizzo della narrazione nelle pratiche di cura, e da Riccarda Zezza CEO di Life Based Value, che ha dichiarato: “Nei momenti di crisi, le persone tirano fuori competenze ed energie inaspettate, e le aziende hanno l’opportunità di migliorare i processi e di innovare. Tutto questo si paga con la fatica che ogni crisi comporta, ma è anche una grande opportunità di miglioramento per tutto il sistema. Perderla sarebbe un delitto, quando basta creare lo spazio perché avvenga”.

Abbiamo reincorniciato la crisi e l’abbiamo studiata a fondo, per capire se, come tutte le altre transizioni di cui siamo già esperti, può essere considerata un vero e proprio percorso di crescita. La risposta è sì! Qui ti spieghiamo perché e ti illustriamo come funziona il nostro nuovo programma Lifeed Transitions che supporta HR e manager per accompagnare i propri collaboratori attraverso questa nuova e delicata fase delle nostre vite (che, per la prima volta, ci riguarda tutti e tutti nello stesso momento!).

Premessa: dalla crisi Covid-19 ne possiamo uscire più forti

Se pensiamo a tutte le ‘transizioni’ che affrontiamo nel corso della nostra vita, ci rendiamo conto di quanto siano numerose: il passaggio dall’istruzione al lavoro, un trasloco, la nascita di un figlio, il matrimonio o l’inizio di una convivenza, un periodo di disoccupazione, un nuovo lavoro, uno lo sviluppo di carriera, un lutto… Anche grazie all’allungamento della vita media e attiva, oggi più che mai, le transizioni sono molto frequenti e, in un certo senso, dovremmo esserci abituati!

Anche la crisi che il Covid-19 ha scatenato è una transizione. Seppur diversa dalle altre, perché si tratta di una transizione collettiva (secondo il World Economic Forum 2,6 miliardi di persone in tutto il mondo stanno sperimentando il lockdown), perché era imprevedibile e perché ci lascia di fronte a un profondo senso di incertezza per il futuro. 

Le persone che attraversano una transizione possono uscire più deboli o molto più forti: dipende da come la attraversano. Come ogni altra transizione, anche quella che stiamo vivendo oggi “può essere affrontata con successo se vista come un ‘compito di sviluppo’, per gli individui e per le organizzazioni che li accolgono”, come ci spiega il Prof. Pier Giovanni Bresciani, tra i massimi esperti di transizioni. Questo perché le persone, nelle transizioni, recuperano la propria dotazione di risorse per costruire progressivamente una propria strategia di risposta alla ‘crisi’. Queste risorse sono, ad esempio, le motivazioni, gli interessi, le rappresentazioni di sé, le attitudini, le competenze.

Perché un percorso per affrontare la crisi

Se non gestita adeguatamente, la crisi causata dal Covid-19 potrebbe generare depressione, stress e burnout: un nuovo contagio, questa volta di emozioni negative, che potrebbe caratterizzare la seconda metà del 2020 per almeno un lavoratore su quattro (sempre secondo i dati del World Economic Forum). Ciò per le aziende si traduce in perdita di produttività e, nei casi estremi, assenteismo. Ecco perché se non si abilitano nuovi linguaggi, non si esplicita la rottura dei vecchi stereotipi e non si fa spazio all’incertezza e al bisogno delle persone di esprimersi, la ricaduta negativa potrà protrarsi per un lungo periodo, anche dopo che sarà finita l’emergenza.

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Lifeed Transitions intende:

  1. Dare alle persone un metodo che le accompagni nell’attraversamento della crisi, aiutandole a ricomporre il senso di sé e riscoprire nuove risorse e competenze, ridurre lo stress e ritrovare energie
  2. Offrire alle aziende – manager e HR – un’occasione di ascolto della propria popolazione e di co-creazione di una rinnovata cultura aziendale, per aumentare la vicinanza e la motivazione al lavoro

Introduzione a Lifeed Transitions

Da oggi Lifeed Transitions è disponibile su Lifeed, la piattaforma digitale che eroga già il noto master per i neo-genitori e quello lanciato nell’autunno 2019 per i figli caregiver, ampliando il nostro portfolio di percorsi online, a cui hanno partecipato finora più di 10.000 persone. 

A chi si rivolge?

È un programma adatto a tutta la popolazione aziendale, indipendentemente dal ruolo ricoperto e dal livello professionale. 

Quanto dura?

3 mesi, con un appuntamento settimanale di circa 45 minuti, che le persone scelgono quando svolgere, in autonomia.

Quale metodo di apprendimento adotta?

Come gli altri percorsi, adotta il metodo del Life Based Learning, l’apprendimento basato sulla vita. Online le persone vengono coinvolte con letture, micro-contenuti multimediali, esercizi di autonarrazione che aumentano la consapevolezza di sé e del sapere dove si è. Nella vita reale sono guidate con delle “missioni” pratiche ad allenare alcune competenze e meta-competenze. 

Al termine di ogni modulo individuale, si entra in una stanza collettiva dove è possibile condividere con i propri colleghi riflessioni, idee, suggerimenti per co-costruire dal basso una rinnovata cultura aziendale e trovare insieme nuove modalità per superare la crisi e favorire il ritorno alla “nuova normalità”.

Quali sono le competenze che allena?

Lifeed Crisi allena alcune competenze soft che è difficile apprendere in un’aula di formazione, ma che rientrano tra quelle che fanno la differenza in ambito lavorativo:

Reporting

Le aziende hanno accesso a una dashboard aggiornata in tempo reale, per monitorare la partecipazione dei propri dipendenti, nel pieno rispetto della privacy. Ricevono inoltre, regolarmente, report quantitativi e qualitativi elaborati grazie a un sistema di Intelligenza Artificiale che misurano il sentiment e sintetizzano i bisogni espressi dalle persone.

Se stai pensando a Lifeed Transitions per la tua organizzazione, visita la pagina di presentazione e completa il form di contatto. Ci piacerebbe illustrarti tutte le potenzialità di questo nuovo percorso formativo.

Ottimista, inclusivo e gentile. Che sappia coniugare umiltà, collaborazione e cultura e non abbia timore di ammettere le proprie paure. Una persona entusiasta, in grado di ritrovare il senso dello scopo. Dopo la crisi innescata dalla diffusione della pandemia da Covid-19, anche la figura del manager di azienda deve cambiare. Abbiamo provato a tratteggiarne i caratteri, coinvolgendo amministratori e responsabili d’azienda nella nostra terza Life Ready Conference dal titolo Manager in shock: lo stile antifragile ce la farà? che si è tenuta il 28 aprile. In tempi di distanziamento sociale e incertezza economica, il concetto di potere è oggi associato sempre più alla cura piuttosto che alla forza. La leadership del domani richiederà coraggio e visione del futuro.

Che tipo di potere serve oggi? La maggior parte delle persone che lavorano in azienda avverte il bisogno di rassicurazioni (63,4%) e di un piano di azione che li coinvolga (44,4%), ma anche di sentirsi al sicuro (40%). “La sensazione è che in questo momento si stia recuperando fiducia nell’idea che il potere abbia in sé la conoscenza e non sia più qualcosa da cui difendersi. C’è un modello di potere che ha a che vedere con l’adattamento e uno che richiede senso della possibilità”, ha spiegato Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value. “Oggi è prevalente il senso di adattamento, ma nella fase successiva, che si aprirà a breve, le persone vorrebbero veder prevalere all’interno della propria azienda il senso della possibilità: non un potere che intervenga a ripristinare le cose com’erano, ma che riesca a imparare da quanto successo e ad andare oltre”. Il manager ideale dovrebbe fare della condivisione e dell’ascolto i suoi punti di forza. In un periodo di crisi, in cui sarebbe naturale aspettarsi che le persone desiderino cautela, a sorpresa si ricerca un leader capace di assumere dei rischi pur di andare avanti. Un leader, appunto, “antifragile”.

Video dell’intero live streaming

L’antifragilità è la via per l’innovazione

Il concetto di antifragilità, coniato dal matematico e filosofo libanese Nassim Taleb, nasce per trovare il giusto contraltare all’idea di fragilità. Il suo opposto non è, infatti, né la robustezza né la resilienza, due atteggiamenti che conducono entrambi a reagire a uno choc restando uguali a sé stessi. “Chi è antifragile, invece, a fronte di uno stress violento è in grado di migliorare, acquisendo capacità che non aveva prima”, ha sottolineato Raffaele Guerra, Executive Vice President di Capgemini.

“Per questo è interessante il rapporto tra antifragilità e innovazione: sostiene Taleb che, di fronte a un evento esterno, le persone tendano a iper reagire, cioè a mettere in atto una reazione superiore alle effettive necessità dell’evento, creando una ‘provvista emotiva’. Tendono, cioè, ad accumulare in maniera sovrabbondante motivazione e volontà, che sono una molla eccezionale per fare cose nuove”.

È quel che è accaduto oggi nel pieno dell’emergenza, con circa il 70-75% delle imprese italiane entrate, in pochi giorni, in una nuova modalità di lavoro a distanza. Il passaggio è stato reso possibile dall’abbandono di un approccio top down e verticistica, che non poteva funzionare. “Ha funzionato, invece, un approccio antifragile, bottom up e disordinato: chi lavorava in posizione decentrata ha trovato modi nuovi per attivare il lavoro a distanza, poi generalizzati all’interno dell’azienda. Trial and error: si impara per tentativi e commettendo degli errori, purché siano piccoli. Bisogna poterne far tanti prima di arrivare al risultato”.

L’errore, dunque, come learning point per apprendere la lezione e migliorare la ripartenza. La collaborazione non è avvenuta soltanto tra singole persone interne all’organizzazione, ma ha coinvolto in molti casi anche i clienti e i fornitori. Caratteristica tipica di ogni azienda che voglia dirsi innovativa. “La cultura dell’innovazione spinge a gestire l’azienda in maniera non gerarchica, a curare il valore dell’altro, a tollerare l’errore e anzi incoraggiarlo”, ha continuato Guerra.

Il 34% dei CEO delle aziende italiane si spende in prima persona, prendendo parte diretta alla trasformazione già avviata verso la rivoluzione digitale. “Un atteggiamento culturale differente e il diverso modo di ragionare sono caratteristiche fondamentali della leadership del domani. Non sappiamo quale sarà il futuro status quo, sappiamo solo che sarà diverso da quello attuale”.

Leader digitali che puntano su generosità e inclusione

Una volta superata l’emergenza, i vecchi modelli manageriali potrebbero essere, dunque, superati dalle azioni dei singoli. Quali caratteristiche umane dovranno avere i manager per consentire alle persone di lavorare in un livello di incertezza così alto? E cosa consentirà loro di essere di supporto agli altri senza soccombere a loro volta?

Se oggi la prima reazione alla crisi è disporre licenziamenti e tagli agli stipendi, forse un approccio diverso dovrebbe suggerire di coinvolgere i dipendenti, oltre che nei sacrifici odierni, anche nei futuri successi aziendali. “Bisogna riscoprire la generosità di fare business”. Secondo Maria Elena Cappello, Member of the Board di Tim, Prysmian, MPS, Saipem, Eni Enrico Mattei Foundation, il coronavirus ha accelerato di almeno 15 anni le esigenze di digitalizzazione delle imprese. “Ci vogliono leader coraggiosi, capaci di mettere a terra idee in modo veloce. Una società più imprenditoriale e digitale ha bisogno di essere capace di sbagliare molto, ma di avere processi talmente veloci che permettano di comprendere subito l’errore e di riconvertirsi in fretta. Abbiamo bisogno di digital leader”.

Un approccio di questo tipo permetterebbe di eliminare anche l’elemento fin qui ricorrente della solitudine del manager, dipinto come uomo solo al comando. Al contrario, proprio durante le crisi, il leader dovrebbe essere più trasparente e capace di includere il management nella ricerca delle soluzioni. “Occorre un maggior coinvolgimento dei giovani a vari livelli dell’impresa. Meno gerarchia e più contaminazione di idee, perché la ripartenza sarà basata su un meccanismo largamente diverso da quello che conosciamo”.

I manager dovranno accompagnarsi a persone giovani, capaci e diverse, includendole nella war room con l’obiettivo di concentrarsi su pochi programmi finalizzati a superare l’emergenza. “Il leader dev’essere capace di anticipare l’uscita dalla crisi e ciò è possibile solo stando vicino al proprio team e costruendo una nuova company culture. La leadership di oggi deve fare tutto questo in modo accelerato, focalizzandosi soprattutto su quale sarà l’impresa di domani”.

Abbattere i modelli tradizionali e investire sulle persone

La gestione dell’emergenza Covid-19 ci ha già dato alcune importanti lezioni di antifragilità, intese come la presa d’atto del fallimento di altrettanti modelli tradizionali di gestione dell’organizzazione. Innanzitutto, è venuto meno il paradigma secondo cui è possibile controllare l’impresa attraverso la pianificazione di comportamenti per il futuro.

“Anche il migliore dei modelli predittivi patisce il limite dell’accadimento di eventi imprevedibili in grado di mettere in discussione lo status quo. Ci siamo resi conto sul campo che siamo stati in grado di resistere meglio alla crisi perché abbiamo potuto contare su manager, supervisori e dipendenti dotati di capacità di mettere in discussione le previsioni grazie alla forza di generare nuove idee”. Fortunato Costantino è People Care & Union Relationship Manager di Q8 ed è convinto che il coronavirus abbia messo in luce l’importanza di costruire relazioni umane e professionali di qualità. Durante l’emergenza, la società ha adottato un approccio fondato sulla comunicazione diretta e trasparente ai propri dipendenti, inaugurando anche un canale di informazione ribattezzato You’ll never work alone.

Secondo Costantino, lo stile del one man company, che distribuisce direttive e ne demanda l’esecuzione, rischia di deprimere la creatività del team. “Invece, ciò che serve è un manager che sappia condividere obiettivi e strategie, valorizzando l’apporto dei collaboratori e spronandoli ad esercitare la loro leadership attraverso un sano confronto dialettico. Non significa favorire l’anarchia o indebolire la struttura organizzativa, ma valorizzare il talento”.

Nel post lockdown, oltre alle competenze tecniche, al manager sarà richiesto di possedere altre abilità: capacità di ascolto, apertura al cambiamento, valorizzazione dell’errore. “Non può essere un esperto arroccato nelle sue competenze tecniche, ma deve avere una visione olistica dell’organizzazione e dev’essere capace di condividere la leadership”. Non più intesa come privilegio di pochi, ma come responsabilità di tutti.

Restituire fiducia alle persone e condividere informazioni

Il primo passo, dunque, è restituire fiducia alle persone, lungo tutta la catena produttiva. Lo sa bene Christophe Poitrineau, Supply Chain Director di Carrefour: nei giorni della diffusione del virus e delle prime misure di contenimento, la Supply chain si è trovata a sostenere le pressioni opposte dei consumatori e dei produttori. “Questa crisi non è uno sprint, ma una maratona”, ha ammesso.

“Abbiamo ancora davanti a noi alcuni mesi in cui dovremo sostenere questo ritmo. Perciò, la prima cosa da fare è ridare fiducia alle persone, garantendo procedure di controllo e sicurezza”. Il secondo passo attiene alla dinamica collettiva: nell’esperienza di Poitrineau, condividere informazioni con tutto il team, con riunioni giornaliere, si sta rivelando fondamentale per assicurare continuità ai processi.

“La cosa più rilevante per un manager è il supporto: andare sul campo, trovare soluzioni e non lasciare le persone in difficoltà, eliminare la distanza strutturale tra chi lavora in ufficio e chi fa un lavoro operativo”. Da qui l’importanza di avere dati condivisi, senza i quali sarebbe difficile avere una visione di insieme e prendere le giuste decisioni. La situazione cambia ogni giorno e un buon leader dev’essere pronto a reagire e ad anticipare gli eventi. “Il rischio è di essere assorbiti dal quotidiano, dimenticandosi dei piani futuri. Al contrario, occorre un ritorno di esperienza per lavorare su progetti nuovi e avere un piano per il futuro condiviso da tutto il gruppo”.

Condivisione come parola d’ordine per la ripartenza. Cristiana Scelza, CEO di Prysmian Russia, si è trovata spesso a pronunciarla, raccontando la sua esperienza nel mercato Oil&Gas prima in Brasile, nel Paese sconvolto dallo scandalo corruzione che ha travolto l’azienda petrolifera nazionale Petrobras, e poi a Mosca, in una realtà dall’altissima presenza femminile, ma dominata ancora da un atteggiamento maschio e aggressivo. “Il manager non è solo: se si crede davvero nella diversità e nell’inclusione, si diventa capaci di affidarsi al team, che può aiutarti e supportarti. Al contempo, il leader ha l’obbligo di filtrare i propri demoni: non si possono trasmettere ansia e paura, senza dare un messaggio costruttivo”.

“La resilienza non basta più”, ha detto Scelza. Non si può pensare di ritornare al mondo come era prima: in una crisi come questa, le antenne devono essere tese ogni giorno e rivolte al futuro. “Le crisi ci sono costantemente in giro per il mondo, accelerano un po’ tutto e ti fanno saltare i preliminari. Però, abbiamo tutti gli strumenti che ci servono per superarle. Non con facilità, ma sicuramente con grandi possibilità”.

Imparare a raccontarsi e continuare ad apprendere

Alla fine, dipende tutto da come si reagisce di fronte agli accadimenti. O da come si vuole reagire, perché l’antifragilità è una dote che si può anche apprendere. “Non si tratta di avere adattabilità, perché non si sa neppure a che cosa bisognerà adattarsi. Più che altro parlerei di plasticità: occorre diventare plastici per includere dentro di sé il caso”, ha spiegato Valeria Cantoni, Founder di ArtsFor.

“I contain moltitudes” recita la nuova canzone di Bob Dylan, riprendendo un verso di Walt Whitman: diventare persone consapevoli di contenere una moltitudine di ricchezza e di risorse aiuta a metterle a frutto e anche a concedersi degli spazi vuoti per guardare cosa sta nel mezzo.

“Molte aziende continuano a raccontarsi la stessa storia e vivono di rendita sull’epopea del fondatore, ma il mondo è cambiato e la storia va aggiornata: a raccontarla devono essere le persone che vivono l’azienda tutti i giorni. Bisogna uscire da quella che l’economista Luigino Bruni definisce ‘carestia di capitale narrativo’”, ha continuato Cantoni.

I manager che possono fare la differenza, allora, sono quelli che si concentrano sulla qualità della relazione e del linguaggio all’interno delle organizzazioni. Serve un manager inclusivo e autorevole, che sappia dire “non lo so” e chiedere aiuto, che sperimenti, che favorisca la cultura dell’apprendimento continuo e dell’errore, che sia consapevole dei propri bias interiori e delle proprie risorse, un manager narratore che sappia entrare nella propria vita raccontandola.

“È venuto il momento di assumere l’imperativo di essere tutti una comunità di destino, non solo per una scelta responsabile, ma per una necessità di sopravvivenza all’interno delle organizzazioni. Oggi mettersi a imparare cose nuove permette di allenare la capacità di sperimentare, di tenerne traccia e di condividere quanto appreso con i propri collaboratori”.

Articolo originariamente pubblicato su Parole di Management 

Stiamo attraversando una vera e propria transizione. E’ come se tutti stessimo vivendo una forma di “congedo di maternità” forzato. Siamo a casa, continuando a lavorare, tanti dei nostri ruoli si sovrappongono e si accumulano. Come ogni transizione, anche questa causata dall’emergenza sanitaria del Coronavirus, richiede una ridefinizione cognitiva, sia a livello individuale sia a livello sociale, e uno sforzo di ridefinizione.

Per riflettere su questi temi e capire come le aziende si stanno preparando, abbiamo incontrato 4 Direttori delle Risorse Umane di 4 diverse industry che, in totale, gestiscono più di 10.000 persone. Abbiamo chiesto loro come stanno immaginando il ritorno alla “normalità” e come si stanno preparando al dopo Covid-19. Ecco cosa ci hanno raccontato nella nostra nuova Life Ready Conference che si è tenuta lo scorso 2 aprile.

Aggiornamento dell’8 aprile
Leggi l’articolo Un capo del personale su due: l’impatto sarà strutturale che Il Sole 24 Ore Lavoro ha dedicato ai contenuti emersi durante questa Life Ready Conference.


Video dell’intero live streaming

Fabio Comba, HR Director KPMG

La crisi come strumento di valutazione della performance

“All’emergere della complessità nelle organizzazioni, la gestione delle risorse umane diventa fondamentale. Inevitabilmente, anche nella situazione di discontinuità che stiamo vivendo, il faro si è acceso sui Direttori HR. Chi di noi ancora non era inserito nei processi decisionali ha iniziato a confrontarsi nei livelli più alti dei leadership team. La crisi è dunque diventata un’occasione per noi HR di giocare un vero e proprio ruolo da Leader. 

In termini più ampi, la questione della leadership che proprio dalla crisi è stata messa in discussione, ci sta consentendo di individuare i fattori del leader vero, al di là degli strumenti di valutazione delle performance che tutti noi utilizziamo. La crisi ha messo in luce che il vero leader è colui che riesce a dare una direzione precisa, senza ambiguità, e sa fornire una positività strategica ai propri messaggi. Con queste due caratteristiche è possibile creare un ambiente performante. 

Da questa crisi ci portiamo, inoltre, a casa la necessità di garantire flessibilità a tutti i livelli. L’accelerazione tecnologica è stata guidata dal Covid-19 e ci farà tornare in un mondo in cui delega e obiettivi saranno fondamentali: questo telelavoro e, speriamo con continuità successiva, diventi vero e proprio smart working ha bisogno di questi due elementi, senza i quali non sarà possibile lavorare con efficacia”. 

Sonia Malaspina, HR Director South Europe Danone Specialized Nutrition

Nella crisi è necessario lavorare sul pilastro psico-affettivo delle persone

“Con la mia azienda e con Life Based Value abbiamo fatto un grande viaggio negli ultimi anni per valorizzare la genitorialità, per mettere la maternità e la paternità nel conto economico delle aziende. 20 anni fa quando ho iniziato la mia carriera professionale la maternità era un tabù; oggi sappiamo che il congedo è una grandissima risorsa e patrimonio anche per le organizzazioni. Il top management ne è consapevole grazie ai dati che siamo in grado oggi di fornire sulla crescita delle competenze e il miglioramento della produttività dopo il congedo di maternità. Grazie a questa crisi siamo riusciti a traslare quello che succede durante il congedo di maternità a tutta l’azienda; è proprio come se fossimo tutti in un grande ‘congedo collettivo’, che al pari della maternità, può diventare una grande opportunità. 

Le organizzazioni sono sostenute da 4 pilastri: quello economico, quello organizzativo, quello culturale e quello psico-affettivo. In tutte le situazioni di crisi, non solo in quella attuale, bisogna dare priorità e attenzione al pilastro psico-affettivo dell’organizzazione. Le organizzazioni sono fatte di persone che hanno sentimenti, paure, ansie, reazioni. I leader, dall’Amministratore Delegato a tutta la sua prima linea, sono chiamati a gestire anche la dimensione psico-affettiva, nonostante anche loro siano altrettanto preoccupati del futuro. Noi in Danone abbiamo preso in tutto il mondo un impegno: Danone ha dichiarato che nessuno perderà il proprio posto di lavoro a causa del Coronavirus.

In questo modo abbiamo lasciato spazio alle persone di esprimere la propria creatività, con loro stiamo riscrivendo il nostro Business Model e introducendo nuove modalità lavorative. Ogni persona a qualsiasi livello può avere un’idea creativa, ma la esprime solo se il management crea uno spazio di fiducia e di conforto. Mettiamoci nei panni delle persone, avere cura di loro nella loro interezza, non vederli sono come dei professionisti, solo così possiamo ottenere un grandissimo ritorno.

Credo che questa crisi ci lascerà più ricchi di idee, tutto ciò che abbiamo pensato per far fronte a questa situazione e reinventarci, resterà anche dopo, diventerà patrimonio dell’azienda”.

Marco De Rosa, HR Director Italy & Switzerland Alstom

Parole d’ordine per il futuro: nuove competenze e condivisione

“Da quanto è scoppiata l’emergenza, abbiamo intrapreso una serie di azioni urgenti e necessarie, dalla salvaguardia delle persone attraverso l’azione dei protocolli sanitari, all’estensione dello smart working a tutta la popolazione impiegatizia, alla salvaguardia sociale e l’adozione di strumenti di integrazione salariale. A ciò si aggiunge la salvaguardia psicologica su cui stiamo lavorando adesso: stiamo per attivare uno sportello di ascolto e alcuni seminari sull’equilibrio personale. Il lavoro è parte integrante della nostra vita e anche la nostra routine oggi viene meno: si è costretti a vivere in casa, spesso in uno spazio fisico ridotto con la propria famiglia, tutto ciò richiede un diverso equilibrio. 

I prossimi passi sono quelli più complicati e anche difficili da definire. Perchè non sappiamo la durata delle misure di contenimento attuali, ma anche perchè che siamo consapevoli che “percorrere il metro che ci separa sarà difficile” (citando il responsabile della Protezione Civile Angelo Borrelli). La domanda che ci dobbiamo porre è come possiamo mantenere il distanziamento sociale, che probabilmente continuerà come misura di profilassi a lungo dopo l’emergenza, senza diminuire, anzi, aumentando l’inclusione? Questo è uno dei nostri obiettivi. Pensiamo, ad esempio, al valore della pausa caffè: quando si potrà rifare? E come la sostituiremo? 

I punti su cui ci dobbiamo impegnare in azienda sono essenzialmente quattro. 

  1. La necessità di ripensare gli spazi. Dovremo ripensare l’assetto di uffici, open space, fabbriche, mensa, meeting room.
  2. La necessità di ripensare la formazione. Noi ne facciamo molta, soprattutto tecnica, che avviene in aula. Andrà rivista, pur sapendo che non potremmo pensare solo ai webinar, ma dovremo individuare altre modalità. 
  3. Organizzare lo smart working. Nel nostro settore lo smart working è ancora una modalità operativa marginale, ma probabilmente diventerà strutturale. Per i tecnici dovrà richiedere lo sviluppo di dotazioni aggiuntive, non solo a carico della nostra azienda, ma anche dell’intero Paese. Penso ad esempio alle infrastrutture tecnologiche e di rete: nel momento in cui lavoriamo tutti da casa sperimentiamo il limite di una connessione spesso debole e instabile. 
  4. Resta, infine, centrale il tema della comunicazione. Questa crisi ha messo in evidenza il tema forte di come comunicare con tutta la popolazione aziendale. I nostri ‘blue collar’ al momento sono a casa, le attività di cantiere sono ferme, dobbiamo definire un nuovo protocollo di comunicazione con loro che spesso non dispongono di un computer portatile e, in alcuni casi, nemmeno di una email.

Volendo fare una sintesi, le mie parole d’ordine per il futuro saranno: nuove competenze e condivisione. Dobbiamo reinventarci e chi è stato generoso nella creazione e nell’ascolto del proprio network oggi ne trae un vantaggio competitivo importante”.

Guido Piacenza, HR Director Santander Consumer Bank

Le competenze che prima abbiamo imparato sulla carta e oggi stiamo sperimentando con la crisi, domani saranno il nostro modo di lavorare

“Fino a ieri, quando avevamo la possibilità di sperimentare tante modalità di fare formazione, abbiamo  ‘giocato’ sulla formazione di competenze soft, come creatività, apertura, innovazione, intraprendenza, imprenditorialità. Tutte queste competenze, con le quali ci siamo allenati finora sulla carta, oggi sappiamo che domani diventeranno il nostro nuovo modo di lavorare. 

Ma non è la formazione non è l’unico aspetto che dobbiamo ripensare. Un altro è la comunicazione interna. Attraverso la nostra intranet, oggi comunichiamo quotidianamente con i nostri dipendenti: stiamo traducendo i decreti, i moduli, le informazioni che arrivano dal governo le stiamo semplificando e spiegando a tutti i nostri dipendenti. Ma non solo… abbiamo anche un’app, che di solito usiamo per gli eventi aziendali e che oggi abbiamo riconvertito per sentirci tutti più vicini: ogni settimana lanciamo un tema per comunicare e confrontarci tutti in maniera continua. Anche per far emergere idee su come gestire il rientro dopo la crisi.

Su questo tema, stiamo cercando di fare rete con altre imprese, soprattutto quelle del nostro settore, per capire cosa stanno facendo, così da raccogliere anche altre idee per elaborare le azioni che possiamo intraprendere. 

Alcune delle nostre scelte passate sono state vincenti in questo periodo, altre andranno ripensate. Due anni fa, ad esempio, abbiamo inaugurato la nostra nuova sede. Nella stessa occasione, abbiamo dotato tutti i dipendenti di un PC portatile, avviando una sperimentazione di smart working senza limiti di tempo, affidandoci al buon senso dei nostri collaboratori. 

Un altro spunto per noi importante è che oggi possiamo insegnare qualcosa agli altri Paesi. Da essere considerati la piccola Business Unit, che performa bene ma che sta a guardare i grandi del Gruppo, oggi siamo visti come al Business Unit che può insegnare a quelle più grandi. Sia perché abbiamo vissuto con 4 settimane di anticipo questo tzunami, sia perchè la nostra anima ‘latina’ ha tirato fuori iniziative e idee oggi reputate come best practice dagli altri”.

Cristina Gabetti ha intervistato la nostra CEO Riccarda Zezza per una speciale puntata di Occhio al futuro, dedicata agli SDG, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che puntano alla salvaguardia del pianeta e al benessere dei suoi abitanti. Secondo Cristina Gabetti, le nostre soluzioni rispondono a ben 8 obiettivi. Guarda qui la puntata di Occhio al futuro andata in onda su Striscia la Notizia il 21 marzo 2020.

https://www.video.mediaset.it/player/playerIFrame.shtml?id=1099569&autoplay=false

Cristina Gabetti: Tutti noi ci prendiamo cura di giovani e/o anziani, e sappiamo quante competenze servono per farlo bene. Oggi incontriamo una donna che, partendo dalla sua esperienza di vita, ha creato un metodo per trasferire le competenze soft in ambito professionale. Riccarda com’è nata la tua idea e come funziona?

Riccarda Zezza: È nata dal fatto che quando sono diventata mamma ed ero manager in una grande azienda ho scoperto che essere madre era una problema nel mondo del lavoro. Mentre, invece, la stessa azienda mi mandava a fare formazione in una serie di competenze soft che proprio l’esperienza della maternità stava allenando benissimo. Pensa ad esempio alla gestione del tempo, la gestione delle crisi, l’empatia. Ho visto un grande paradosso, un grande spreco: perché le aziende spendono tantissimi soldi in formazione per una serie di competenze che la vita allena in modo naturale. Questo è successo 7-8 anni fa, da li è partita la ricerca che ho fatto con Andrea Vitullo che è un executive coach, ed effettivamente abbiamo scoperto che quando si diventa genitori si migliorano una serie di competenze che servono al mondo del lavoro. Sette anni dopo, oggi, questo metodo di apprendimento lo vendiamo alle aziende attraverso una piattaforma digitale, quindi le nostre aziende clienti aprono il percorso digitale neogenitori, neomamme o neopapà, ma anche da qualche tempo a caregiver dei propri genitori… perché ogni esperienza di cura migliora queste competenze e le persone possono scoprire come prendersi cura di un bambino o un anziano migliorino proprio le competenze che servono nel mondo del lavoro.

Cristina Gabetti: Questa iniziativa adempie a ben 8 SDG. Adesso qual’è il tuo sogno?

Riccarda Zezza: Oggi siamo in 23 paesi e gli utenti della piattaforma ci dicono che già hanno queste energie, queste competenze; hanno solo bisogno dello spazio per portarle nel mondo e nella società. Il mio sogno è quello di arrivare il più velocemente possibile a dimostrare all’economia e alla società che prendersi cura è un valore, è un bisogno che la specie umana ha tutte quelle energie e quelle risorse che oggi stiamo cercando nei posti sbagliati.

Cristina Gabetti: Grazie Riccarda. Saper osservare e riflettere, valutare obiettivi e prendere decisioni, migliorarsi, adattarsi, e giocare, rende tutto più facile. Occhio al futuro!

Cristina Gabetti ha intervistato la nostra CEO Riccarda Zezza per una speciale puntata di Occhio al futuro, dedicata agli SDG, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che puntano alla salvaguardia del pianeta e al benessere dei suoi abitanti. Secondo Cristina Gabetti, le nostre soluzioni rispondono a ben 8 obiettivi. Guarda qui la puntata di Occhio al futuro andata in onda su Striscia la Notizia il 21 marzo 2020.

 

 

 

Cristina Gabetti: Tutti noi ci prendiamo cura di giovani e/o anziani, e sappiamo quante competenze servono per farlo bene. Oggi incontriamo una donna che, partendo dalla sua esperienza di vita, ha creato un metodo per trasferire le competenze soft in ambito professionale. Riccarda com’è nata la tua idea e come funziona?

Riccarda Zezza: È nata dal fatto che quando sono diventata mamma ed ero manager in una grande azienda ho scoperto che essere madre era una problema nel mondo del lavoro. Mentre, invece, la stessa azienda mi mandava a fare formazione in una serie di competenze soft che proprio l’esperienza della maternità stava allenando benissimo. Pensa ad esempio alla gestione del tempo, la gestione delle crisi, l’empatia. Ho visto un grande paradosso, un grande spreco: perché le aziende spendono tantissimi soldi in formazione per una serie di competenze che la vita allena in modo naturale. Questo è successo 7-8 anni fa, da li è partita la ricerca che ho fatto con Andrea Vitullo che è un executive coach, ed effettivamente abbiamo scoperto che quando si diventa genitori si migliorano una serie di competenze che servono al mondo del lavoro. Sette anni dopo, oggi, questo metodo di apprendimento lo vendiamo alle aziende attraverso una piattaforma digitale, quindi le nostre aziende clienti aprono il percorso digitale neogenitori, neomamme o neopapà, ma anche da qualche tempo a caregiver dei propri genitori… perché ogni esperienza di cura migliora queste competenze e le persone possono scoprire come prendersi cura di un bambino o un anziano migliorino proprio le competenze che servono nel mondo del lavoro.

Cristina Gabetti: Questa iniziativa adempie a ben 8 SDG. Adesso qual’è il tuo sogno?

Riccarda Zezza: Oggi siamo in 23 paesi e gli utenti della piattaforma ci dicono che già hanno queste energie, queste competenze; hanno solo bisogno dello spazio per portarle nel mondo e nella società. Il mio sogno è quello di arrivare il più velocemente possibile a dimostrare all’economia e alla società che prendersi cura è un valore, è un bisogno che la specie umana ha tutte quelle energie e quelle risorse che oggi stiamo cercando nei posti sbagliati.

Cristina Gabetti: Grazie Riccarda. Saper osservare e riflettere, valutare obiettivi e prendere decisioni, migliorarsi, adattarsi, e giocare, rende tutto più facile. Occhio al futuro!

Abbiamo messo insieme 7 key opinion leader, uomini, padri e capi di grandi aziende. Li abbiamo fatti parlare per più di 1 ora in live streaming, direttamente dai salotti delle loro abitazioni, e ci hanno spiegato, con grande trasparenza e umanità, come l’esperienza della paternità abbia influito sul loro modo di agire la leadership. E abbiamo scoperto che proprio i loro figli, 19 in tutto, sono stati la migliore palestra di competenze professionali. Ecco cosa ci hanno detto.


Video dell’intero live streaming

Giuseppe Cerbone, CEO Il Sole 24 Ore

Generiamo un’osmosi di valori tra famiglia e lavoro

“Il mio modo di lavorare è cambiato da quando sono padre. Con i figli riscopriamo alcuni valori, come la responsabilità sociale, la sostenibilità verso le nuove generazioni. La situazione che tutti noi stiamo vivendo oggi, a causa del coronavirus, ci fa capire che questi stessi valori vanno riportati nelle aziende, affinché si crei nel medio lungo termine un’osmosi con i valori materiali, quelli tipici di un bilancio aziendale, rendendoli degli elementi strategici per le stesse aziende.

Nelle aziende il clima è fondamentale, devi fare in modo che i collaboratori stiano bene, partecipino, va cercata l’armonia e lo devi fare con pazienza, convincimento. Proprio come con i figli. Siamo tutti padri e madri ma quando entriamo in azienda sembriamo dimenticarcelo. Eppure se cominciassimo ad agire gli stessi comportamenti virtuosi, anche gli altri colleghi cominceranno a farlo”.

Riccardo Barberis, CEO Manpower

I ruoli si conquistano e cambiano ogni giorno, ciò che conta è la fiducia

“La paternità mi ha insegnato almeno 3 cose importanti.

La prima: ho 3 figli e proprio da loro ho scoperto che sul lavoro, così come in famiglia, non ci sono ricette standard, servono approcci diversi in base a carattere, età. Lo stesso vale con i dipendenti, capita spesso che in azienda utilizziamo approcci standardizzati.

La seconda (suggerita da mia moglie!): la paternità fa bene al CEO perchè tiene a bada il suo ego, mantiene i piedi per terra, lo costringe a bagni di realtà quotidiana. Ho imparato, ad esempio, che con i miei figli ho solo 5 secondi per catturare la loro attenzione,  prima che gli sguardi ritornino a fissare lo schermo di un telefono. In famiglia i ruoli si conquistano e cambiano ogni giorno con la crescita di tutti.

Infine: la situazione che stiamo vivendo dovuta all’emergenza coronavirus mi ha fatto capire che bisogna avere fiducia gli uni degli altri, i figli cercano rassicurazioni per evitare lo smarrimento, così come i collaboratori”.

Carlo Carollo, Vicepresidente Samsung

Dare la direzione, incanalare le energie, celebrare successi e fallimenti

“Faccio una prima distinzione: i figli sono per sempre, mentre i lavori cambiano. Superata la soglia dei 1.000 pannolini cambiati, ho capito che il lavoro non doveva più essere la scusa per spendermi poco nel mio nuovo ruolo famigliare, allora ho deciso di ridimensionare il mio tempo, ricalibrare sforzi ed energie. Ho smesso, ad esempio, di lavorare nei weekend, imparando a prioritizzare di più. E questa consapevolezza è stata per me un grande elemento di crescita.

Un’altra riflessione nella correlazione tra dimensione parentale e professionale è la ricerca di linee guida per la leadership che nel mio team sono: dare la direzione per creare un’unità d’intenti, saper incanalare l’energia per essere efficaci, celebrare successi e fallimenti. Sono tre elementi che ritrovo anche nella genitorialità.

Insomma, i parallelismi sono tanti. Con una differenza, però: il leader è solo, il modello di leadership aziendale classico lavora al singolare. In famiglia si è in due: questa dualità è estremamente proficua e importante, e andrebbe portata anche in azienda”.

Marco Piuri, CEO Trenord

Non si può avere tutto sotto controllo, ma stimolare la libertà altrui porta a risultati superiori

“Sono un papà di lunga data, ho avuto il primo figlio a 26 anni. Il fatto di essere diventato padre molto prima di aver ricoperto i primi ruoli di responsabilità sul lavoro ha avuto un forte impatto nel mio modo di vivere l’azienda. Con la prima figlia ci sono stati problemi di ospedalizzazione e dopo di lei avevamo fatto fatica ad averne altri: queste vicende mi hanno insegnato che non si può avere tutto sotto controllo, neanche sul lavoro, ci sarà sempre l’imprevisto. Mi hanno insegnato che nella vita devi fare tutto il possibile come se tutto dipendesse da te, ma sapendo che l’esito non lo determini tu.

Un altro aspetto della paternità riguarda il tema della libertà, lo chiamo “freedom management”, stimolare la libertà altrui porta a risultati molto superiori. È evidente con i figli, ma anche in azienda: come CEO penso che saremo ricordati per ciò che di più grande lasceremo in azienda, non per i margini più o meno alti”.

Armando Ponzini, CEO Cargeas

Ottimismo, fiducia nel futuro e una nuova cultura dell’errore

“Essere padre è una scelta, e non sempre facile. Diventare padre mi ha esposto a delle esperienze che hanno notevolmente cambiato il mio modo di essere. Io sono un manager con un background tecnico e poco umanistico, ed entrare in contatto con il carico di emotività di un bambino è stato un impatto immenso. Mi ha portato, ad esempio, ottimismo, fiducia nel futuro – che serve tantissimo soprattutto in azienda dove c’è molta incertezza.

Quando arrivano i figli ti sbattono in faccia la loro emotività, la loro ingenuità e questo ti cambia tutto: il feedback diretto alla Jobs, non funziona nè con loro nè con i collaboratori, nei quali vedo gli stessi occhi. Se sbaglio oggi chiedo più scusa di un tempo.

Anche alzare continuamente l’asticella non funziona: quando insegni a tuo figlio a tuffarti, viene automatico continuare a correggerlo per perfezionismo, ma lui probabilmente perderà a un certo punto entusiasmo. In azienda funziona allo stesso modo, servono obiettivi raggiungibili e motivanti, ma anche una diversa cultura dell’errore”.

Emiliano Rantucci, CEO Avanade

La migliore palestra di intelligenza emotiva

“C’è un’altissima contaminazione tra essere leader e genitore, imparo tutti i giorni da questi due ruoli: ho imparato a sfruttare meglio il tempo, spesso poco per la famiglia, oppure mantenere maggiore distacco rispetto ai problemi e sviluppare empatia, mettendosi nei panni dell’altro. Non esiste palestra migliore per l’intelligenza emotiva della paternità!

In questi anni poi ho sviluppato anche la capacità di pensiero laterale: evitare quindi di guardare solo al rapporto causa-effetto ma spostare il punto di osservazione dal problema alla soluzione, come quando un figlio ha una difficoltà con una data materia scolastica.

Infine, c’è il tema dell’apprendimento continuo, che vale per vita privata e professionale”.

Matteo Sarzana, General Manager Deliveroo

Da un bambino di 5 anni impari la negoziazione

“Il mio ruolo da padre è arrivato dopo quello da General Manager, ma mi ha insegnato veramente molte cose. Innanzitutto ho scoperto che il più bravo negoziatore al mondo è un bambino di 5 anni: continuerà a chiedere una cosa fino allo sfinimento finché non l’avrà ottenuta. Da ciò ho appreso che spesso bisogna passare dal comandare al negoziare.

Ho dovuto imparare a dire tantissimi sì anziché tantissimi no, anche quando sono stanco e non vorrei giocare per la milionesima volta a quel gioco, ma ci si rende conto che la singola occasione di quel momento non tornerà.

Ho imparato a passare dal dare la regola al dare l’esempio, che è la cosa che ci rende più credibili sia a casa che sul lavoro. In ultimo, ma non per importanza, il tema della delega: se continuiamo a fare le cose al posto dei nostri figli anziché insegnargliele, proprio come i nostri dipendenti, non impareranno mai”.

Milano, 18 marzo 2020. In occasione di una festa del papà senza precedenti, la possibilità di creare una diversa relazione tra la vita professionale e quella familiare diventa un’opportunità ancora più urgente e reale. È di questo che discuteranno 8 key opinion leader, padri e CEO di grandi aziende, in un evento in live streaming organizzato per non spegnere i riflettori sulla festa del papà di domani, 19 marzo, e sensibilizzare su come il lavoro possa attingere alle esperienze della vita, tra cui la genitorialità, per realizzare una società più sostenibile (per partecipare).

“Si parla sempre di più oggi di un nuovo modello di leadership: responsabile, empatica e in grado di far crescere gli altri. Laddove è molto difficile apprendere queste capacità ‘a tavolino’, diventano invece immediatamente visibili e disponibili se le si cerca nelle relazioni familiari: essere padre è chiaramente una palestra per il modello di leadership che serve oggi alle nostre aziende” dichiara Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value.

I papà italiani sanno che la cura dei figli è un asset prezioso anche sul lavoro: l’80% di loro afferma che proprio la paternità ha sviluppato la loro empatia, competenza comunemente riconosciuta ai leader più efficaci; per l’82% ha contribuito ad allenarli nella gestione dei conflitti e per il 95% ha influito nella capacità di saper sviluppare le potenzialità altrui.

Questi sono i dati che emergono dal lavoro di Life Based Value con oltre 3.000 papà con figli tra 0 e 3 anni, che stanno partecipando al master digitale per neo-genitori volto a trasformare l’esperienza genitoriale in una palestra di soft-skill. Dati che fotografano un’opportunità anche formativa a disposizione dei papà italiani che vogliono esercitare il proprio diritto alla paternità… non soltanto in momenti di crisi come questo.

L’eccezionalità che stiamo vivendo diventa, oggi, ancora più l’occasione per sperimentare nuove pratiche di leadership. In uno scenario in cui la risorsa più scarsa non è più il tempo passato in famiglia, ma la condivisione dei gigabyte disponibili tra una video-conferenza di lavoro da una parte e una lezione in “smart school” dall’altra, i padri stanno imparando in modo intensivo e full time come il ruolo paterno offra loro l’opportunità di sviluppare un set di competenze quanto mai preziose anche per la carriera.

L’evento in live streaming è, inoltre, l’occasione per lanciare la ricerca “Lo Stato della Paternità in Italia”, che Life Based Value, azienda HR-Tech per lo sviluppo del capitale umano, sta svolgendo per la prima volta in Italia in partnership con Valore D, prima associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva per la crescita delle aziende e del Paese, e Promundo, organizzazione internazionale leader globale sul tema dell’identità maschile. La ricerca è già in corso e continuerà fino al mese di giugno; tutti gli attori, enti e associazioni che si occupano di paternità, maternità, famiglia ed evoluzione della società, sono invitati a diventare partner e promuovere il sondaggio, collegandosi al link maam.life/padri2020 sul sito dell’azienda. Una volta conclusa, i dati italiani contribuiranno a completare l’analisi globale State of the World’s Father con un focus specifico sul nostro Paese, offrendo un contributo a una trasformazione della paternità più partecipata e con carichi di responsabilità più equi.

Oltre 600 persone in Italia vi hanno già preso parte. I primi dati fotografano la volontà degli uomini di esercitare il proprio diritto alla paternità non soltanto in momenti di crisi come questo. I papà italiani vogliono dedicarsi alla cura dei figli. Il 75% degli uomini è fortemente d’accordo sul fatto che loro debbano esserne molto coinvolti nella cura fisica dei propri figli (dargli da mangiare, lavarli, metterli a letto, sistemare la casa, impegnarsi per cure mediche). La percentuale aumenta quando si parla di assolvere i compiti legati alla cura emotiva: l’86% degli uomini ascolta molto volentieri pensieri ed emozioni dei propri figli supportandoli con tutto l’affetto necessario.

Una maggiore presenza dei papà in famiglia, inoltre, avrebbe effetti positivi sulla salute fisica e mentale delle donne e gli uomini che hanno partecipato all’indagine ne sono consapevoli: il 61% di questi ritiene che poter usufruire di un congedo parentale della durata maggiore di 3 mesi influirebbe positivamente sul benessere fisico delle donne; il 70% riconosce che ne trarrebbe giovamento la loro salute mentale.

Il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità, nonché l’inclusione di tutti i dipendenti sono parte dei valori fondanti dell’azienda farmaceutica MSD Italia che ha scelto di adottare i master per i neo-genitori e per i figli caregiver che trasformano le esperienze di vita (in particolare, quelle di cura familiare) in soft skill preziose anche sul lavoro. “Un terzo circa della nostra popolazione ha più di 50 anni e sappiamo che molti di loro dedicano parte del loro tempo alla cura dei propri familiari anziani o disabili”, spiega Michele Ceresani, HR Executive Director di MSD Italia.

Con il master di LBV per i figli caregiver, in primis, e con il tradizionale master per i neo-genitori “intendiamo migliorare alcuni comportamenti focalizzandoci in particolar modo su inclusività, capacità di sperimentare, lavorare in una modalità a rete al di là dei silos organizzativi. A questo scopo crediamo che questi percorsi formativi possano aiutarci a rafforzare tutta una serie di competenze, quali ad esempio empatia ed ascolto, allenarci nella gestione del rischio e dell’errore, aumentare la nostra capacità di collaborare e creare di alleanze. Inoltre, siamo certi possa essere fondamentale per migliorare ancora le nostre abilità nel gestire dinamiche di cambiamento, lavorando sulla nostra capacità di dare e ricevere feedback e sulla nostra flessibilità”. Si tratta spesso di “un patrimonio di competenze già presenti e solo da mettere a fuoco”, continua Ceresani.

Anche per MSD Italia la possibilità di attingere in via quanto più possibile diretta ad esperienze concrete maturate nella quotidianità – opportunamente rielaborate attraverso le modalità proposte dalla metodologia del Life Based Learning – è un potente fattore di accelerazione e potenziamento di queste competenze.