Over 50 in azienda: caregiving e carriera

In un Paese che fa pochi figli e che invecchia sempre di più, i cinquantenni sono diventati i ‘nuovi giovani’ che possono portare nelle aziende il loro notevole bagaglio di esperienza. Ma questo cambiamento sociale non è stato ancora codificato a livello organizzativo, e gli over 50 sono spesso ‘tagliati fuori’ dalle nuove sfide e opportunità del mondo del lavoro, senza riuscire a esprimere appieno tutto il loro potenziale.

A fotografare questa situazione è la ricerca Talenti senza Età realizzata da Valore D, in collaborazione con il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica di Milano, che ha coinvolto 36 aziende e oltre 13 mila lavoratori.

Dalla ricerca emerge che quasi la metà delle persone (45,7%) sono molto motivate sul lavoro, ma incontrano momenti di difficoltà, perché affrontano un periodo di vita complesso: la grande maggioranza degli intervistati dichiara di aver attraversato negli ultimi anni cambiamenti profondi, con un coinvolgimento diretto nelle relazioni di cura che ha rivoluzionato il loro assetto di vita (63,6%).

Di fronte a questo scenario, le aziende possono reagire in vari modi. Possono provare a ignorare il fenomeno dei caregiver e cercare di tenerlo fuori dal luogo di lavoro. Oppure attivarsi nel proporre ai dipendenti efficaci servizi di supporto. Meglio ancora, assieme all’erogazione di servizi, possono decidere di valorizzare questi cambiamenti di vita delle persone, ottenendo così un doppio beneficio:

Ma perché sono così importanti le relazioni di cura?

Siamo caregiver naturali? La risposta è sì.

Come segnala uno studio di Michael Brown e Stephanie Brown pubblicato su Social Issues and Policy Review esistono diverse indagini scientifiche che suggeriscono l’ipotesi che le persone siano caregiver naturali. Le teorie evolutive ipotizzano che la nostra particolare sensibilità ai bisogni degli altri, al prendersi cura degli altri, siano fondamentali per la natura umana, perché orientate alla sopravvivenza. D’altronde è difficile immaginare che la specie umana, così fortemente dipendente dall’aiuto dei propri simili, sarebbe sopravvissuta se i costi psicologici e fisici associati all’aiuto e alla cura non fossero stati compensati da conseguenze benefiche.

Alla luce di queste considerazioni, le esperienze di cura possono divenire un driver del benessere organizzativo e, come evidenziato da Kramer (1997), è possibile ricondurre molti effetti positivi del caregiving alle dimensioni del benessere descritte da Ryff, che si identificano con:

Non a caso Daniel Goleman, il papà dell’intelligenza emotiva, ritrova queste stesse attitudini anche in una ricerca pubblicata recentemente su Korn Ferry: nelle interviste a 30 fondatori, amministratori delegati e alti dirigenti di società che si contraddistinguono per “scopi visibili e autentici, dipendenti coinvolti, culture orientate al cliente e forti risultati finanziari”, è emerso che tutte le loro organizzazioni hanno quattro caratteristiche in comune:

  1. Chi è al comando è guidato da valori e scopi nel prendere le decisioni. Nel linguaggio di Ryff, questo si può definire “purpose in life”.
  2. Le persone sono la massima priorità dell’azienda e i dirigenti investono su di loro per favorirne la crescita. Un esempio di “positive relations with others”.
  3. La cultura aziendale riflette le comunità di appartenenza, perché ogni persona porta tutto di sé sul lavoro. Questa attitudine possiamo definirla “self-acceptance”.
  4. In tutte le divisioni dell’organizzazione esistono pratiche abilitanti, che rivelano un impegno complessivo al raggiungimento dello scopo dichiarato e che rientrano nelle “environmental mastery”.

Ma veniamo ora alla domanda che apre questo articolo:

Diventare caregiver: stress o risorsa? Oppure entrambe le cose?

La risposta giusta è: dipende.

Dipende dal contesto. L’azienda deve creare un terreno comune d’incontro nella narrazione di sfide e soluzioni che riguardano il 73% dei propri dipendenti.

Dipende dalle risorse a disposizione. Le persone vanno incoraggiate a scoprire le competenze che hanno già e a capire come migliorarle.

Dipende dalla capacità di condivisione dell’esperienza. Una potenziale crisi diventa occasione per fare rete, rivelare talenti inaspettati, migliorare il clima.

Ad approfondire la questione ci aiuta un articolo apparso quest’anno sulla Harvard Business Review: Why business should support employees who are caregivers?.

Nell’articolo si rileva che:

Occorre costruire una cultura della cura

Il caregiving è stata a lungo una questione invisibile per i dirigenti d’azienda, in particolare tra i dirigenti le cui carriere sono iniziate quando gli uomini dominavano la forza lavoro e le donne dovevano affrontare da sole tutte le esigenze di assistenza. Ancora oggi persiste un circolo vizioso: i dipendenti caregiver soffrono in silenzio e evitano benefici potenzialmente utili, e i datori di lavoro presumono che i caregiver stiano affrontando bene la loro situazione e riducono le risorse a loro dedicate. Mancano gli incentivi per raccogliere dati o modificare le politiche aziendali, quindi le prestazioni lavorative dei caregiver peggiorano e continuano i pregiudizi nei loro confronti.

Per uscire da questa spirale negativa le aziende devono sviluppare una nuova cultura della cura, riconoscendo le esigenze dei dipendenti caregiver e supportando le loro ambizioni professionali.

Le aziende devono essere pronte a vedere e utilizzare il potenziale che la vita porta con sé, in modo da valorizzare e sfruttare le risorse che si generano nei loro dipendenti.

Le attività di cura familiare sostituiscono la formazione in aula per lo sviluppo di soft skill

Quando il futuro è in continua evoluzione e cresce la complessità, le persone devono sapersi adattare ai cambiamenti, reinventandosi continuamente e acquisendo le giuste attitudini per reagire a situazioni di stress e a scenari in rapida trasformazione.

Nelle aziende è alla funzione HR che viene assegnato il compito di accompagnare le persone verso i nuovi scenari, supportando lo sviluppo di adeguate competenze. Un modo efficace per farlo è strutturare percorsi che si inseriscono in maniera pertinente nelle reali esperienze di vita che le persone stanno attraversando in quel momento: questo le motiva maggiormente, perché sentono che la loro azienda sta offrendo un percorso formativo la cui utilità è reale e immediata.

Secondo una recente ricerca di Harvard Business University “The Caring Company”, nelle aziende 7 dipendenti su 10 sono ‘caregiver’, cioè si prendono regolarmente cura di qualcuno – i figli, i propri genitori, amici, compagni, o svolgono attività di volontariato.

Essere caregiver significa sperimentare sul campo, nella vita di ogni giorno, un enorme laboratorio di soft skill: per esempio una maggiore capacità di problem solving, una maggiore assertività, una maggiore capacità di organizzare i tempi o di reperire risorse, agilità mentale e velocità di giudizio, ma anche empatia, creazione di relazioni positive. Suona familiare? Certo! Si tratta delle stesse competenze soft che le aziende si aspettano di trovare nei propri dipendenti di talento e per le quali si spende più di 1 milione di euro l’anno solo in Italia per formarle in aula. Ma siamo sicuri che queste competenze possono essere apprese in un corso?

La ricerca “Family Caregiving Skill: Development of the Concept”, ad esempio, elaborata da un gruppo di ricercatori della University of Pennsylvania School of Nursing, individua addirittura 63 skill che vengono sviluppate grazie alle attività di cura familiare, e che si ricollegano ai 9 processi della cura:

  1. Osservazione
  2. Interpretazione
  3. Prendere decisioni
  4. Passare all’azione
  5. Individuare innovazioni e migliorie
  6. Attività pratiche legate alla cura
  7. Accedere alle risorse
  8. Interagire con il malato
  9. Negoziare con l’ambiente esterno

Ciò significa, ad esempio che cogliere i primi segnali di cambiamento nel corpo o nel comportamento di un proprio caro anziano o malato si traduce nella capacità di osservazione. Pensare alle possibili conseguenze di una terapia, considerando il malato nella sua interezza, è un efficace esercizio di decision making. Individuare modalità per convincere l’anziano a rispondere in un certo modo a uno stimolo o a una richiesta, significa entrare in empatia. E così via. Lo studio, inoltre, evidenzia che le stesse competenze che il lavoratore mette efficacemente in pratica nei contesti professionali o in altri ambiti della vita, rendono le attività di cura più incisive.

Quali sono alcune delle soft skill allenate dalla cura?

Un’offerta tra benessere e formazione per valorizzare i caregiver in azienda

Di fronte alla crescita dei caregiver lavoratori, le aziende stanno già attivando servizi di welfare volti a risolvere alcune necessità pratiche (come l’assistenza al malato o all’anziano, il supporto nel reperimento di informazioni e/o nella redazione delle pratiche burocratiche). L’attenzione, in questi casi, risulta spostata completamente sul “care taker”, ovvero chi su ricevere le cure – il malato, l’anziano, il disabile.

Eppure, considerando che le responsabilità di cura aumenteranno sempre di più (tra le cause: l’aumento dell’età media della popolazione), coinvolgendo le persone nel loro tempo extra-lavoro, e che la cura di un proprio caro rientra nelle transizioni della vita più intense in grado di generare sviluppo personale, le aziende non possono permettersi di ignorare questa dimensione, ma anzi, accogliendola, possono trarne importanti vantaggi.

Valorizzare i talenti, aumentare l’ingaggio, migliorare la retention, si generano anche abbattendo i confini tra i vari ambiti e ruoli della vita e consentendo alle persone di dimostrare e di portare tutto di sé anche sul lavoro. Riconoscere i momenti di cura come momenti di crescita e non di depotenziamento della capacità lavorativa, valorizzando anche le competenze che questa esperienza è in grado di allenare, consente alle persone di viverli con minore stress e, addirittura, di provare un senso di benessere. Più le aziende riescono a vedere in maniera strategica queste dimensioni umane, a metterle insieme e a dare una risposta sinergica ai vari fattori, più aumenta la competitività e migliorano i risultati.

Generali Country Italia è l’assicuratore più conosciuto in Italia e leader del mercato assicurativo con 13 mila dipendenti. Con l’obiettivo globale di diventare “il partner di vita dei propri clienti”, l’azienda è stata in grado di trasformare il proprio posizionamento, da semplice venditore di prodotti a fornitore di soluzioni integrate che aggiungono vero valore alla vita delle persone, alla loro salute, alla loro casa, al loro modo di spostarsi e al loro lavoro.

Anche verso le proprie persone, l’azienda mantiene lo stesso impegno: porre attenzione alla vita dei colleghi significa comprendere le loro esigenze nelle varie fasi della vita e offrire il proprio contributo affinché l’azienda sia riconosciuta come un ambiente accogliente per tutti. Da queste premesse, prende il via il progetto “Genitorialità in azienda” che si rivolge ai genitori con figli piccoli e adolescenti, ma anche a coloro che diventano “genitori dei propri genitori”, ovvero i figli caregiver. Non solo la cura di un figlio, ma anche quella di un genitore fragile possono arricchire di competenze soft il profilo professionale e diventare dei veri e propri asset per la crescita del business.

“Attraverso le soluzioni di Life Based Value per genitori e figli caregiver vogliamo dare ai nostri colleghi la consapevolezza che questo periodo della vita che richiede tante energie può sviluppare in loro delle competenze soft molto utili nel lavoro. È uno strumento semplice che spinge alla consapevolezza ma anche all’autoriflessione ed essendo online ci permette di raggiungere le persone in diverse sedi geografiche, scegliendo ognuno i propri tempi di utilizzo conciliandoli con le esigenze personali e lavorative” spiega Isabella Agosto, Responsabile del Learning di Generali Italia. 

Il MASP, acronimo di Master parenting in work and life, è un progetto volto a conciliare lavoro e vita privata, sostenere una più equa suddivisione delle responsabilità di cura tra donne e uomini che lavorano, incoraggiare una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Di durata biennale e co-finanziato dalla Commissione Europea, MASP è gestito da un Consorzio di partner tra cui il Comune di MilanoAICCON oltre a LVB, mira a sviluppare e sperimentare un’innovativa strategia di conciliazione vita-lavoro focalizzata su una diversa cultura della genitorialità e di affrontare le esigenze da essa generate.

Quando parliamo di equilibrio tra lavoro e vita privata, assumiamo implicitamente che lavoro e vita sono due dimensioni in competizione nella propria esperienza. Ciò è supportato da prove esistenti sul “divario retributivo di maternità” mondiale (il cosiddetto motherhood pay gap), rafforzato da un basso tasso di occupazione femminile in molti Paesi del mondo e da un’alta percentuale di donne che non rientrano al lavoro dopo il congedo di maternità.

La teoria dell’accumulo di ruoli dimostra come la presenza congiunta di più ruoli abbia un impatto positivo sugli individui. Pertanto, non si tratta più di conciliare i diversi ruoli, ma di creare una sinergia tra loro. Allo scopo di promuovere questa prospettiva di “sinergia tra lavoro e vita privata”, il progetto deve sensibilizzare gli attori chiave coinvolti e attuare un mix di misure innovative rivolte a cittadini e imprese.

MASP si rivolge in particolare a:

LBV con il proprio metodo MAAM, insieme a Family Audit, sono le best practice su cui il progetto MASP è costruito.

Lo scorso settembre è stata l’occasione per i partner del Consorzio di incontrarsi e approfondire le migliori modalità italiane e norvegesi sulle tematiche del work-life balance.

In particolare, l’incontro di Oslo ospitato da EUROMASC, ha permesso di condividere le esperienze della Norwegian Labor and Welfare Administration, che ha dimostrato l’importanza della digitalizzazione per una migliore offerta di servizi, orientata ad agevolare l’equilibrio tra lavoro e vita privata, di Finansforbundet, organizzazione sindacale attiva nel settore finanza e NHO Confederation of Norwegian Enterprise. Infine, un focus specifico è stato dedicato a un confronto con la legislazione e le pratiche avanzate attive nei diversi Paesi del nord Europa (Norvegia, Svezia, Danimarca e Finlandia).

Un quadro importante, quello emerso, che ha consentito di delineare alcune iniziative efficaci per la promozione di strategie di gender equality, parità di retribuzione, accordi di lavoro flessibili e modalità per diffondere e sviluppare il talento femminile. Dopo aver analizzato le esigenze delle parti interessate e le migliori prassi disponibili, MASP si sta muovendo verso il passo successivo: individuare e sviluppare soluzioni concrete.

Il presente progetto ha ricevuto un sostegno finanziario dal programma dell’Unione europea per l’occupazione e l’innovazione sociale “EaSI” (2014-2020).

Esclusione di responsabilità

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Nuovi dati ci raccontano una storia che già conosciamo bene: che le donne faticano a entrare e/o a restare nel mondo del lavoro e che quando diventano mamme la situazione peggiora ancora di più. Se ne è parlato (giusto per non dimenticarlo!) questa settimana in Senato durante la relazione presentata dal Presidente dell’ISTAT Gian Carlo Blangiardo sull’andamento dell’economia italiana.

Ecco cosa dice l’ISTAT.

In dieci anni la quota di donne tra gli occupati è passata dal 40,1 al 42,1%. Le donne occupate sono aumentate di circa mezzo milione (+5,4%), valore che sintetizza una dinamica stagnante negli anni della crisi (6 mila; +0,1% tra il 2008 e il 2013) e un deciso aumento tra il 2013 e il 2018 (492 mila; +5,3%). Nonostante ciò, nel nostro Paese solo il 56,2% delle donne partecipa al mercato del lavoro e il tasso di occupazione non supera il 50%. Si tratta dei valori tra i più bassi, insieme a quelli della Grecia, tra i paesi dell’Unione europea dove il tasso di attività è pari al 68,3% e quello di occupazione al 63,4%.

Il ruolo ricoperto in famiglia, in assenza di un adeguato sistema di sostegno, appare come uno dei fattori discriminanti (insieme alla regione di residenza e al titolo di studio). Il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 49 senza figli e quello delle donne nella stessa fascia di età con figli non supera il 74%, valore tra l’altro in discesa negli ultimi 3 anni dopo il picco di quasi il 78% raggiunto nel 2015. Inoltre, tra il 2013 e il 2018 per le donne con figli tra 0 e 2 anni si è stimato un sostanziale arretramento nel tasso di occupazione (-5,1 punti per le donne in un nucleo monogenitore e -1,3 per le madri in coppia).

Per commentare questi dati e portare un esempio positivo di donne che hanno saputo rimettersi in gioco, il TG1 ha dedicato un servizio alla nostra CEO Riccarda Zezza che ha raccontato come è nata l’idea di MAAM Maternity as a Master e cosa continuiamo a fare per i lavoratori “caregiver” (donne, ma anche uomini che si trovano ad affrontare carichi pesanti di cura familiare), affinché anche queste categorie di professionisti possano continuare a crescere e realizzarsi sul lavoro.

Per offrire un contributo concreto al tema dell’occupazione femminile, nei prossimi mesi lanceremo alcuni percorsi digitali destinati a madri disoccupate europee, nell’ambito del progetto MOM Maternity Opportunities and Mainstreaming, insieme ai partner Piano C (Milano), Ayuntamiento de Alzira (Spagna), Euromasc – European Masters of Skilled Crafts (Norvegia), Fondazione Politecnico di Milano; Inova (Regno Unito), International Platform for Citizen Participation (Bulgaria), University of Thessaly – Career & Lifelong Training Centre (Grecia). Obiettivo di questa iniziativa è di raggiungere almeno 1.200 donne entro il 2020.

Il settore energetico sta vivendo un’inarrestabile evoluzione che ha portato alla nascita di nuovi mercati e nuove opportunità di business e occupazionali, ma anche alla necessità di rivedere i modelli di business passati, per garantire un utilizzo sempre più sostenibile delle risorse, nel rispetto dell’ambiente e del territorio. I player dell’energia svolgono, da sempre, una duplice funzione: da un lato offrire l’accesso all’energia per abilitare lo sviluppo tecnologico, dell’economia e della società, dall’altro rendere l’energia accessibile a una fetta sempre più ampia delle popolazioni locali, per creare nuove opportunità nel campo dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, della parità di genere e dell’occupazione. In sintesi, un impegno attivo per creare valore sostenibile nel lungo periodo.

Al centro della Global Sustainability Strategy del Gruppo Enel non possono mancare le persone, riconosciute nelle loro molteplici diversità, a cui l’azienda ha dedicato obiettivi concreti per le pari opportunità di crescita e benessere. Una policy lungimirante ed efficace, iniziata nel 2013, e che dopo soli 3 anni, nel 2016 le è valsa il riconoscimento nel Diversity & Inclusion (D&I) Index di Thomson Reuters, citandola tra le 100 migliori aziende al mondo (su 7.000), valutate secondo quattro pilastri di diversità, inclusione, notizie e controversie verso i dipendenti, sviluppo.

Dal 2017 in Enel è attivo MAAM che integra le iniziative Parental Program e Caregiver Familiare con la piattaforma di formazione digitale e la community online per facilitare lo scambio tra peer ed esperti, per valorizzare le competenze relazionali, organizzative e innovative che si sviluppano dalle esperienze della genitorialità e della cura. La parità di genere si raggiunge anche in famiglia, con il bilanciamento tra uomini e donne degli impegni e delle responsabilità. Ciò non riguarda solo i neo-genitori, ma anche le altre tipologie di caregiver: con una popolazione aziendale over 50 che supera il 40% dei dipendenti, un’ampia fetta della popolazione è coinvolta in attività di cura verso famigliari “fragili” – spesso genitori anziani, malati o non autosufficienti, che può diventare un vero e proprio “secondo lavoro”, oltre a quello in azienda.

Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value, e la blogger e business strategist Manuela Andaloro, nell’ambito della serie di interviste ai leader e impact maker portatori di cambiamento e innovazione nel mondo, dopo Chiara Condi (Le donne? Devono smettere di chiedere conferma del loro valore) e Mariarosaria Taddeo (La scelta giusta? È più facile quando ci metti il cuore) intervistano Fleur Bothwick, Direttrice Diversity e Inclusion EMEIA di EY e co-autrice di Inclusive Leadership.

Fleur, oggi vorremmo rivelare alcuni aspetti che riguardano la tua vita professionale e l’impatto che stai generando. Chi è Fleur oggi?

Sono Direttrice Diversity & Leadership Inclusiva (D&I) per la regione EMEIA di EY, composta da Europa, Medio-Oriente, India e Africa, che conta novantanove paesi e 105.000 persone. Il mio ruolo prevede lo sviluppo, la promozione e l’inclusione di una strategia della diversità integrata in una grande organizzazione con matrice multidisciplinare.

Un focus fondamentale di questo ruolo è il coinvolgimento delle parti interessate, la consulenza degli specialisti, la gestione dei cambiamenti e lo sviluppo del marchio sul mercato. Intervengo regolarmente come relatrice durante le conferenze e collaboro nell’ambito di articoli e ricerche in questo campo; ho pubblicato una serie sulla leadership di pensiero e, più recentemente, su come far assumere una rilevanza globale ai programmi sulla disabilità.

Un paio di anni fa sono stata coautrice del libro Inclusive Leadership dove io e Charlotte abbiamo condiviso quello che abbiamo appreso nel corso degli anni. Nel 2013 sono stata lieta di essere nominata Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico nel New Year’s Honors List della Regina (ndr. OBE, Officer of the Most Excellent Order of the British Empire), come riconoscimento del mio contributo nei confronti della diversità e dell’inclusione sul luogo di lavoro.

Dove ti portano ogni giorno le sinergie tra la vita professionale e gli obiettivi personali?

I miei obiettivi professionali e personali sono simili. Alla fine della giornata desidero che le persone siano ispirate da quello che stanno facendo, abbiano uno scopo e percepiscano di ricoprire una posizione adatta a sviluppare il potenziale, sia a scuola che sul luogo di lavoro. Ecco perché negli ultimi cinque anni ho lavorato con la National Autistic Society per aprire nel mio quartiere una scuola secondaria specializzata per studenti con disturbi dello spettro autistico. La nostra scuola gratuita aprirà i battenti a gennaio 2020.

Perché credi che il management abbia una reputazione così negativa in alcune aziende? Se la causa sono cattivi manager, come credi si possa evitare di diventare tali?

Credo che vi siano diversi motivi per cui le società abbiano una reputazione di cattiva gestione, ma al centro in genere vi è una cultura sostenuta dai valori aziendali. Se un’azienda non apprezza il valore del talento e incentiva esclusivamente i risultati, probabilmente vi sarà meno coinvolgimento e una forza lavoro meno felice. Personalmente non faticherei per prosperare in un ambiente simile, li lascerei e troverei un altro luogo in cui offrire il mio contributo.

Sappiamo che nell’era della digitalizzazione è sempre più importante per i leader sfruttare l’EQ e le soft skill come la collaborazione, l’empatia, la comprensione e le abilità che sono state essenziali nella vita personale e che ora sono alla base di una vita professionale di successo. In che modo stiamo riqualificando i leader e la dirigenza della vecchia scuola?

Il comando e il controllo non sono più necessari nella maggior parte dei luoghi di lavoro, e i veri leader lo sanno. Le persone non si uniscono più a un’azienda ‘per la vita’, la gig economy sta crescendo, alcuni lavori sono stati sostituiti dall’intelligenza artificiale e dalla robotica e il futuro del lavoro è già sopraggiunto in diversi modi. Affinché le aziende prosperino, la leadership deve portare con sé le persone.

In che modo le donne e gli uomini perseguono un diverso tipo di leadership ed evitano alcune delle insidie in cui cascano i cattivi manager?

La leadership inclusiva riguarda per prima cosa la comprensione delle proprie motivazioni, delle proprie preferenze e dello stile, nonché la capacità di identificare ciò che funziona per le altre persone. Ci si sta allontanando sempre più dal ‘trattare gli altri come vorresti essere trattato’, per avvicinarsi al ‘tratta gli altri come vorrebbero essere trattati’. Si tratta di una leadership presente, non che ascolta mentre scrive le e-mail; è una leadership che si accerta del fatto che chiunque si trovi nella stanza/al telefono abbia una voce.

Qual è il più grande errore professionale che le donne continuano a fare? Cosa dobbiamo smettere di fare?

Secondo me ci sono due cose. Una è che ci sentiamo troppo in colpa, in particolare le madri lavoratrici. Il più grande dei miei tre figli ora ha 20 anni e non potrei essere più fiera di lui. Certamente non sono rimasti segnati dal fatto che la loro mamma si sia destreggiata tra lavoro e vita domestica quando erano piccoli; semmai, sono più in sintonia con le sfide lavorative e con il loro ruolo nell’ambito del raggiungimento della parità. L’altra cosa che facciamo troppo spesso (e non dico che gli uomini non lo facciano) è cercare di ottenere il 120% da ogni cosa, quando spesso l’80% sarebbe sufficiente.

La generazione dei Millennial rappresenterà una tipologia di leadership molto diversa?

Non sono certa che saranno ‘molto’ diversi. Sicuramente stiamo assistendo a dei cambiamenti; c’è maggiore interesse a costruire un mondo professionale migliore e il numero di uomini che desidera ricoprire un ruolo più concreto in casa sta aumentando. Detto questo, ci era stato riferito che la Generazione X avrebbe fatto il suo ingresso nella forza lavoro e avrebbe cambiato il panorama. C’è stato qualche lento cambiamento.

Qualche abitudine di successo che vorresti condividere? 

C’è un suggerimento molto pragmatico che è venuto fuori durante una sessione di raccolta delle idee. Abbiamo chiesto alle persone di pensare al modo in cui potrebbero cambiare ciò che fanno attualmente per essere più efficienti, sia a livello individuale che come team. Mi sono resa conto che l’impostazione predefinita per i meeting su Outlook era sempre di un’ora. Allora l’ho modificata su 45 minuti per le telefonate (che nel mio ambito possono essere 6 o 7 chiamate al giorno). Ho iniziato a recuperare in media 1,5 ore al giorno e le chiamate sono rimaste focalizzate e produttive.

È in corso un grande dibattito sul futuro del lavoro, sulla digitalizzazione, sulla gig economy e sull’open talent economy, sul soffitto di cristallo e sulle diverse prospettive dei Millennial relativamente al lavoro. Qual è la tua opinione sullo status quo e cosa credi che accadrà in futuro? 

Penso che gran parte del ‘futuro del lavoro’ sia già qui, e che naturalmente ne arriverà altro. Incappiamo in continuazione nell’intelligenza artificiale (non sempre in maniera positiva) e ci sono robot che svolgono già alcune attività di audit. La gig economy sta prosperando e io sono entusiasta di poter fare acquisti ed effettuare operazioni bancarie online in qualsiasi momento del giorno. Penso che il futuro sia ricco di opportunità, ma dobbiamo verificare di essere pronti.

Qualche altra perla di saggezza e qualche consiglio per gli impact makers, i professionisti e gli imprenditori concentrati sulla carriera, sia uomini che donne?

Nessun lavoro vale un esaurimento. In questo mondo 24/7 è importante stabilire alcuni confini di base e imparare a staccare. Non sono la migliore, ma quando mi prendo un weekend o più libero, torno riposata, concentrata e più incisiva.

Articolo pubblicato anche in lingua inglese sul blog www.ownthewayoulive.com di Manuela Andaloro

Ogni decisione di business viene presa sulla base di dati e informazioni. Ma le aziende sanno guardare allo stesso modo verso il proprio interno? Si accorgono, ad esempio, che alcune esperienze di vita dei dipendenti potrebbero ridurne la produttività, o addirittura causare la loro uscita dal mondo del lavoro?

I carichi di cura familiare, ad esempio, rappresentano una situazione che, se trascurata, può raggiungere livelli talmente intensi da provocare ingenti costi a carico dell’azienda. La maggior parte dei lavoratori di oggi ha, infatti, due vite lavorative: quella di cui parla, come dipendente, e quella nascosta e ignorata dalle aziende di caregiver. I “caregiver familiari” sono coloro che a titolo non professionale e gratuito si prendono cura di una persona cara affetta da malattia cronica, disabile o con un qualsiasi altro bisogno di assistenza a lungo termine. In questa definizione sono inclusi gli anziani.

Secondo un recente report dell’Harvard Business University The Caring Company, che abbiamo sintetizzato nel paper La Strategia della Cura, nelle aziende il 73% dei dipendenti è anche caregiver.

Alcuni dati di The Caring Company ripresi nel Paper La Strategia della Cura

Questo numero è destinato a crescere. Con l’aumento delle famiglie monoparentali, la partecipazione al mondo del lavoro di entrambi i partner, e l’incremento di altre forme di famiglia “non tradizionale”, i lavoratori avranno sempre meno risorse a cui affidarsi. Cresce anche la cosiddetta “sandwich generation” – che include quelle persone che si trovano simultaneamente a dover gestire la cura dei figli e quella dei genitori anziani – spesso con carichi fisici, emotivi e finanziari che aumenteranno ancora più marcatamente.

Il carico di cura familiare coinvolge tutta la popolazione aziendale, per età e per livello di seniority, ed è destinato a rendersi sempre più pesante, a causa dei cambiamenti demografici e sociali.

Le aziende capaci di riconoscere la complessità della vita delle proprie persone, valorizzare i loro vari ruoli, saranno sempre più in grado di accrescere la motivazione, consentendo ai dipendenti di esprimere meglio sé stessi e di avere più energie anche sul lavoro. Adottando una vera e propria “strategia della cura”, le aziende cambiano focus e apprendono come avvenimenti comuni e frequenti nella vita dei dipendenti – come la nascita di un figlio, la convivenza, una malattia o la cura di un famigliare anziano o disabile – non vengano più vissuti come un’anomalia, ma piuttosto come delle occasioni di crescita personale e professionale, con impatti positivi sulla carriera e la produttività.

Negli anni ’60 il Direttore del Personale teneva a bada i sindacati. Nei ’70 contribuiva alla riorganizzazione degli assetti aziendali. Dagli ’80 in poi, quando si è capito che il maggiore capitale è quello umano, è diventato una figura cardine, un interprete delle relazioni tra organizzazione e persone.

Capital, rivista di Class Editori, dedica questo mese uno speciale sui migliori manager delle risorse umane in Italia e le loro strategie.

Una professione che secondo Isabella Covili Faggioli, presidente nazionale di AIDP, l’associazione italiana per la direzione del personale, «ha subito una radicale trasformazione all’interno delle aziende, a partire dal nome, esplicitamente legato alle risorse umane, ovvero alle persone, fino ad arrivare a competenze ampie e complesse».

L’articolo di Capital presenta anche una fotografia del settore HR tratta dal report del network inglese Cranet realizzata in collaborazione con il Bicocca Training & Development Center di Milano e AIDP; report che ogni 4 anni rileva le pratiche e le politiche di gestione delle risorse umane nelle aziende italiane con più di 200 dipendenti.

La funzione HR anche in Italia ha cambiato pelle, sempre più strategica nelle aziende e coinvolta nella definizione dei piani di crescita aziendali, soprattutto durante le fasi di trasformazione e change management. L’HR manager sta diventando un vero e proprio change leader, lavorando sempre più a fianco dell’imprenditore o del CEO per progettare l’intera “employee experience” che, se positiva e soddisfacente, contribuisce a incrementare il risultato e il valore economico dell’impresa. Il report evidenzia, inoltre, un passaggio da rapporti di lavoro governati principalmente da relazioni sindacali a una più moderna gestione sempre focalizzata sull’iniziativa manageriale e sui rapporti individuali.

La prolungata crisi economica ha portato con sé cambiamenti significativi nelle organizzazioni, contribuendo a modificare il ruolo e i focus della funzione HR. «Per motivare e coinvolgere i dipendenti oggi più che mai servono modelli organizzativi agili, in grado di adattarsi velocemente al cambiamento, con riconfigurazione rapida di strategie, struttura, processi e tecnologie» spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano. «Una nostra ricerca conferma che nelle imprese agili l’85% dei dipendenti si dichiara motivato e coinvolto, quasi il triplo di quanto avviene in quelle tradizionali (31%)».

Oltre allo smartworking, che unito alle trasformazioni digitali e all’industria 4.0 richiedono di modificare le abitudini lavorative, spazi e orari di lavoro, anche altre buone pratiche di gestione delle persone stanno assumendo sempre più rilevanza anche nel nostro Paese, come l’attenzione sempre più crescente a politiche di gender diversity, inclusion, strategie di talent acquisition e retention, nonchè l’attenzione a una rinnovata “employee value proposition”.

«Per il mondo della risorse umane è una sfida evolutiva, il cambiamento è imprescindibile», spiega Covili Faggioli.

E’ ormai chiaro che le aziende, per avere successo, devono porre attenzione alle persone e al loro benessere (con adeguati piani di welfare). Anche se oggi tutto questo non basta: il vero benessere di un dipendente è sentirsi parte di un progetto, sapere che il suo lavoro conta. Un responsabile HR deve perciò saper mettere le persone nelle migliori condizioni per esprimersi e realizzarsi.

In questa direzione, un esempio significativo lo offre Danone, multinazionale alimentare presente in 120 Paesi al mondo, che dall’Italia ha offerto un modello e una best practice in tema di parental policy, oggi applicata dall’azienda a livello globale: «Grazie alle nostre metriche (100% delle mamme che rientrano dalla maternità, 45% di donne manager, 40% di mamme promosse dopo la maternità) abbiamo dimostrato che spendersi per i dipendenti fa bene all’azienda» spiega Sonia Malaspina, direttore HR Sud-Est Europa e tra i 100 migliori HR director italiani citati nell’articolo di Capital.

Fra i programmi di formazione dell’azienda, dal 2017 è entrato anche il master MAAM: «Soft skill tipiche delle mamme e dei papà, come la capacità di lavorare per priorità, l’ascolto e l’intelligenza emotiva, possono essere sfruttate a vantaggio della persona e dell’azienda. La maternità e la paternità sono dieci volte più formative di qualsiasi corso», conclude Sonia.

Milano 12 luglio 2019 – Life Based Value, la tech company co-fondata da Riccarda Zezza  che sviluppa e promuove soluzioni formative basate sul metodo Life Based Learning, ha completato con successo un aumento di capitale di 1.500.000 euro. Da ottobre 2015, Life Based Value ha portato sul mercato delle aziende MAAM, il primo metodo formativo che trasforma la genitorialità in un master per la crescita professionale, utilizzato oggi da oltre 50 realtà – tra cui Linkem, Poste Italiane, Unicredit, Barilla, Danone, Unipol, Coca-Cola HBC, Generali. Il master conta già più di 6.000 partecipanti, e l’offerta formativa si è arricchita di strumenti digitali dedicati a manager e ai caregiver, volti a trasformare le esperienze di vita in risorse preziose per il business.

L’aumento di capitale appena concluso permetterà a Life Based Value di potenziare la piattaforma tecnologica, lanciare nuovi prodotti, aumentare l’organico e raggiungere nuovi mercati esteri.

In un Paese che vede solo il 13% di startupper donne, questa operazione segna il successo e l’intraprendenza di un pool di donne al timone. Seguita dall’avvocato Milena Prisco dello studio legale e tributario CBA con Alessandro Ronchini, l’operazione è avvenuta in tre tranche, che hanno portato all’ingresso di Business Angel, di privati tramite Crowdfunding, e infine di fondi istituzionali.

La prima fase ha segnato l’ingresso, tra gli altri, di Fausta Pavesio, nominata business angel dell’anno nel 2015 e fra le 50 donne più influenti d’Europa in ambito startup e venture capital.

La seconda tranche ha visto il coinvolgimento di 101 soci in un’operazione di crowdfunding tra le migliori del 2018 in Italia.

La terza fase, appena conclusa, riguarda l’ingresso di diversi attori istituzionali, quali il fondo di private equity ungherese Impact Ventures e due realtà guidate da donne: Opes-LCEF Foundation con Presidente Esecutivo Elena Casolari e MPA Education, società di investimento britannica nell’ed tech, che fa capo alla founder e director Melody Lang; che acquisiscono il 20,56% della società.

La conclusione dell’aumento di capitale rappresenta il coronamento di un’alleanza a maggioranza femminile che crede nell’incontro tra impact investing (investimenti diretti anche ad un impatto sociale) ed ed-tech: così nasce un progetto di formazione a base tecnologica e innovativa con un forte impatto sociale.

Elena Casolari, Presidente Esecutivo Opes-LCEF Foundation, ha commentato: “Crediamo nel valore della diversità e nel ruolo del l’impact investing nel fare emergere soluzioni dirompenti; in Riccarda e nel suo team abbiamo trovato un modello, una soluzione e un tessuto valoriale di spessore e di grande impatto. Orgogliosi di essere al loro fianco”.

Riccarda Zezza, Ceo di Life Based Value, ha commentato: “Questo aumento di capitale è stata un’esperienza intensa e faticosa: tutto il team di Life Based Value vi ha partecipato e siamo cresciuti molto. L’innovazione delle nostre soluzioni è stata particolarmente apprezzata all’estero: abbiamo avuto manifestazioni di interesse, per esempio, in Germania, Giappone e Sud Est Asiatico. Anche per questo, la prossima fase della società sarà, oltre al consolidamento del mercato italiano, l’espansione all’estero: sappiamo che il Life Based Learning mette insieme benessere e sviluppo personale, e vogliamo che il maggior numero di aziende e lavoratori possibile vi abbia accesso”.