Prendersi cura di qualcuno, in particolare di genitori anziani non autosufficienti, spesso viene visto dalle persone come un possibile ostacolo alla propria attività lavorativa. E alcune aziende considerano l’attività di caregiving come una ‘distrazione’ che rende meno produttivi i dipendenti che hanno responsabilità familiari.
Ma, al contrario, essere un caregiver permette di sviluppare competenze e attitudini (dall’empatia al problem solving e la leadership) legate al ‘prendersi cura’ di qualcuno e trasferibili anche sul lavoro con impatti positivi sulla produttività delle persone.
Secondo il Rapporto Istat 2019 sulla Conciliazione tra lavoro e famiglia, sono 12,4 milioni le persone che hanno responsabilità di cura di figli minori di 15 anni o parenti disabili, malati o anziani. Si tratta del 34% della popolazione tra i 18 e i 64 anni, con un incremento del 10% nell’ultimo decennio.
“Tutti noi abbiamo vite complesse, ma proprio facendo leva sulle esperienze che viviamo, possiamo far crescere le nostre capacità e acquisire quelle competenze trasversali che oggi sono fra le più richieste nelle imprese”, spiega Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, in un’intervista al quotidiano Avvenire (leggi l’articolo integrale).
Le aziende sono chiamate a considerare il caregiving come un’opportunità, non un problema, e i lavoratori stessi hanno l’occasione di mettere a frutto sul lavoro le esperienze acquisite nella cura, che “sviluppa le capacità di resilienza, ascolto, empatia, leadership e maggiore consapevolezza nei propri mezzi”.
A confermare il doppio vantaggio che deriva da questo approccio (per le aziende e per i dipendenti) è UniCredit, che tra le sue iniziative di welfare ha scelto il master digitale Care di Lifeed. Monica Carta, Responsabile Welfare di UniCredit, racconta ad Avvenire che il percorso “ha dato buoni risultati in termini di nuove energie e competenze da spendere da parte dei lavoratori-caregiver”.
Anche in Enel, il master Lifeed (a cui hanno partecipato 530 dipendenti) è stato utile per aiutare i dipendenti a “conciliare le identità e gestire la complessità dei compiti di cura che i caregiver dimostrano”, racconta Raffaella Poggi D’Angelo, Responsabile People Care e Diversity Manager di Enel.
L’innovazione, sia tecnologica sia culturale, è uno dei pilastri su cui si basa il business di Terna, operatore che gestisce le reti per la trasmissione dell’energia elettrica con sede a Roma.
Tra le competenze che Terna vuole favorire per supportare un mindset orientato all’innovazione, c’è il concetto di readiness: essere pronti a cogliere i vantaggi dell’innovazione con la giusta consapevolezza è considerato dall’azienda il primo passo per affrontare le sfide poste dalle nuove modalità di lavoro e dalla digitalizzazione.
Terna aveva anche l’obiettivo di testare la propria maturità verso l’approccio metodologico alla formazione, attraverso una maggiore responsabilizzazione delle risorse nei confronti del proprio percorso di apprendimento, favorito dalla disponibilità di contenuti formativi da fruire liberamente su piattaforma web.
A luglio 2020, nonostante le difficoltà legate all’impatto della pandemia, Terna ha deciso di puntare sul self based learning dei dipendenti indirizzato a tutta la popolazione aziendale e realizzato con Lifeed.
“Se dovessi scegliere una parola per definire questo percorso, direi ‘naturalezza’. I nostri dipendenti hanno apprezzato il modo in cui l’apprendimento si inserisce in modo naturale nella quotidianità e hanno espresso grande soddisfazione per la user experience”, racconta Francesca Sarandrea, Corporate Academy di Terna.
“In particolare è stata gradita l’innovazione del progetto che, per la prima volta, unisce esperienza personale e professionale in modo sorprendentemente efficiente”.
Il ritorno in ufficio e la modalità di lavoro ibrida dopo la fase più critica dell’emergenza sanitaria rappresentano nuove sfide per la Direzione HR delle aziende. Nel periodo della pandemia, le persone sono rimaste distanti molto tempo e in questa fase di incertezza hanno bisogno di una ‘re-inclusion’, come se si trattasse di un nuovo onboarding.
Più che di inclusione, si può parlare di innovazione, perché occorrono nuove mappe, come sottolineato da Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nell’evento Mix culturale e re-inclusion. Come reinterpretare la diversità in una fase di incertezza organizzato da HRC.
Nelle transizioni, come quella che stiamo vivendo, le persone si sentono più fragili ma anche più consapevoli e forti allo stesso tempo. In questa fase di incertezza, l’ascolto delle emozioni che emergono dalle autoriflessioni dei dipendenti ha un ruolo fondamentale per favorire il passaggio graduale alla cosiddetta ‘nuova normalità’ e per ricomporre il puzzle, sia a livello individuale sia collettivo. Dall’ascolto, quindi, può partire una rielaborazione di questa transizione e di noi stessi.
Se negli ultimi decenni abbiamo cercato di portare la vita in azienda con appositi servizi per le persone, con la pandemia è stata l’azienda a entrare nelle nostre case. Ora è necessario ricostruire l’immagine aziendale sulla base di uno scopo e di valori condivisi e sul supporto psicologico alle persone che ne hanno bisogno.
Non solo: se il confronto in presenza in azienda creava valore, ora la sfida è continuare a farlo in modalità ibrida puntando sulla comunicazione e sul digitale. Inoltre, bisogna considerare che molte persone sono state assunte nel periodo di lockdown e non hanno mai visto l’ufficio. Anche gli spazi vanno ripensati, perché la sede aziendale può essere un luogo di aggregazione e ci deve essere un motivo di andare in ufficio, cioè collaborare.
Tutte queste riflessioni sono emerse dal confronto con: Alessandro Agosti di Findomestic; Antimo Ricciardi di Almirall; Andrea Rubera di Tim; Maria Cristina Bombelli di Wise Growth; Ilaria Polvani di Baker Hughes; Doriana De Benedictis di EY; Federica Confalonieri di Heineken; Paolo Dolezzal di Watts Water Technologies; Anna Torri di Starbucks; Lucia Melcore di P&G.
Ripensare, ridisegnare, trasformare: sono alcune delle parole chiave del percorso delle aziende verso il cosiddetto new normal post pandemia. In questo scenario, le competenze richieste dal mercato sono in continua evoluzione e la Direzione HR gioca un ruolo determinante per valorizzare il potenziale delle persone.
Oggi qualunque planning rischia di diventare obsoleto in poco tempo. Le competenze trasversali, legate alla capacità di apprendere e di pensare, sono le uniche su cui è possibile pianificare e servono in tutte le professioni, anche quelle tecniche. Ma la capacità di sapere quali competenze saranno utili in futuro non può essere attribuita solo in direzione top-down: è invece possibile utilizzare l’intelligenza collettiva, perché le persone stesse possono scoprire le proprie attitudini.
Per farlo è necessario “allargare la mappa”, come ha sostenuto Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nell’ambito dell’incontro Strategic workforce planning organizzato da HRC. Ciò significa capire che cambieranno il ‘cosa’ e il ‘come’ legati all’attività delle aziende, ma soprattutto significa tornare sul ‘perché’ ciò accade. Qui entrano in gioco i dati: oltre ai comportamenti, attraverso i People Analytics è possibile valorizzare le dimensioni identitarie sommerse e i tratti caratteriali delle persone. Ampliando la visione a queste dimensioni e attitudini in relazione alle esperienze di vita (lavorando non solo sui Big data, ma anche sugli Small data), l’HR può diventare “l’esperto delle mappe” per valorizzare tutto il potenziale dei dipendenti.
D’altra parte, oggi l’HR “non è più solo business partner, ma è il business stesso”, ha spiegato Alessandro Agosti, Direttore Risorse Umane di Findomestic. “L’HR accompagna le trasformazioni e può dare un’accelerazione decisiva al cambiamento anticipando i bisogni di nuove competenze”.
Secondo Andrea Bellina Head of Talent & Organization di Engie, la strategia è guidata dal business, ma a stretto contatto con l’HR che contribuisce a rendere concreta la strategia attraverso percorsi di formazione e riqualificazione. La tendenza oggi riguarda la ricerca di competenze legate alla gestione dei dati per comprendere gli scenari attuali e prevedere i trend del futuro.
Gli input di business e quelli dell’HR possono far trovare un equilibrio tra la ricerca di risorse sul mercato e la valorizzazione di competenze interne. In questo senso, “un approccio ‘plug-and-play’ non funziona, ma serve tempo per trasferire e sviluppare nuove competenze, anche in ottica generazionale”, ha affermato Alessandra Rizzi Group HR & Organization Director di BFF Banking Group. “La Direzione HR non basta da sola per anticipare le competenze, è un lavoro di squadra con il top management, serve un forte mandato di vertice per riuscire a non disperdere competenze e per garantire l’employability delle persone in questo periodo delicato”.
Oggi il tempo è un fattore chiave. “Dobbiamo prepararci al momento in cui il business cambierà per far fronte alla trasformazione dei consumi”, ha sottolineato Silvia Sulpizi, Senior HR manager Global Supply Chain di Baker Hughes, secondo cui è utile analizzare i comportamenti (non solo le hard skill) che serviranno nella transizione futura, per capire chi sarà pronto a mettersi in discussione.
Il workforce planning è fortemente legato alla strategia aziendale: per Luca Barbera, Head of Planning & Organization Global Power Generation di Enel Group, “capire i principali driver del business permette di pianificare l’evoluzione delle risorse interne. L’HR rappresenta una leva di creazione di valore all’interno della strategia dell’azienda, con l’obiettivo di riuscire a prevedere il futuro del lavoro”.
In questo contesto, non bastano competenze tecniche, ma servono anche “attitudini, startup mentality e approccio data-driven”. Sulla base delle attitudini, le persone possono anche cambiare ambito di lavoro e trovare nuove opportunità, per questo puntare sulla “contaminazione di saperi” può rivelarsi una strategia vincente, soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo oggi.
Il potenziale formativo degli eventi della vita è straordinario. Le esperienze quotidiane possono avere un impatto enorme sulla motivazione delle persone nei confronti dell’apprendimento. Dal momento che le competenze soft richieste oggi nel mondo del lavoro sono difficili da costruire in aula, le sfide affrontate nella dimensione privata consentono di sviluppare una nuova consapevolezza per trasferire le competenze tra vita e lavoro.
Il digitale è fondamentale per favorire tutto questo: esso rappresenta “una manifattura magica delle idee”, come spiega Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, in questa intervista sul tema #DiventaChiVuoi a GoDaddy Talks, l’appuntamento con i protagonisti dell’imprenditoria digitale.
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I dati sono ancora poco confortanti: le donne che ricoprono cariche societarie come titolari e soci rappresentano poco più del 30% del totale, con una crescita moderata negli ultimi 15 anni (+1,4% dal 2005). Nello stesso periodo, la partecipazione delle donne al mondo del lavoro (tasso di attività) è salita di oltre quattro punti percentuali, riducendo il gap con quella maschile, che però rimane ampio (54,7% contro 73,5% nel 2020).
È quanto emerso dall’analisi sullo scenario attuale dell’imprenditoria femminile e sulla financial literacy delle donne italiane presentata da Prometeia nel corso del Forum Women ONboarding, l’iniziativa di UniCredit nell’ambito del percorso UniCredit4Women per valorizzare il talento e le occasioni di crescita per le donne e facilitare il dialogo tra il mondo bancario e l’universo femminile.
Oggi, come sottolineato da Francesco Giordano, Co-CEO Commercial Banking Western Europe di UniCredit, c’è ancora una forte gap che riguarda l’imprenditoria femminile negli ambiti della digitalizzazione e delle competenze finanziarie. Per far fronte a questo problema, UniCredit ha lanciato due iniziative concrete: un percorso di mentoring al femminile (Women ONboarding) e quattro percorsi di financial education dedicati della Banking Academy. L’iniziativa si inserisce nella più ampia strategia del Gruppo per tutelare tutte le diversità e favorire l’inclusione.
L’evento, che ha visto la partecipazione di Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, ha rappresentato l’occasione per comprendere come, in vista della ripresa economica post covid-19, l’imprenditoria femminile possa fare un’importante differenza. In particolare, le nuove generazioni di imprenditrici possono insegnare ai loro figli una nuova sensibilità nei confronti della finanza. Anche perché le donne hanno “uno sguardo innovativo, diverso da quello che siamo abituati a vedere sul mercato, dove la maggior parte delle imprese è maschile”, ha spiegato Riccarda Zezza.
“Le donne possono portare la specificità della loro ricchezza, costruendo nuove strade senza adattare radicalmente il loro pensiero e linguaggio. È importante che le donne facciano impresa perché il mondo ha bisogno di uno sguardo diverso, di soluzioni nuove: non si tratta di consentire alle donne di correre sulla stessa pista degli uomini, ma di cambiare la pista perché sia più adeguata ad accogliere il diverso potenziale di entrambi”.
Per esprimere il loro potenziale, le donne hanno bisogno di indipendenza economica. Oggi l’educazione fa la differenza in questo senso, ma poche ragazze scelgono di studiare materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), come evidenziato da Ersilia Vaudo Scarpetta, astrofisica e Chief Diversity Officer dell’Agenzia Spaziale Europea. “Le materie STEM hanno il più grande potenziale di empowerment e il più alto tasso occupazionale, la più alta crescita salariale e possono contribuire ad accorciare il tempo raggiungere la parità economica di genere”.
Secondo il World Economic Forum, ci vorranno almeno due secoli per colmare questo divario. E l’Italia è in fondo alle classifiche dell’Ocse riguardo al gap di genere sulle conoscenze finanziarie. Sono ancora poche le imprese femminili, ma queste PMI si distinguono per il loro tasso di innovazione e finalità sociali.
Scarpetta ha sottolineato inoltre l’importanza della mentorship per le giovani donne, che hanno la possibilità di condividere punti di vista e trovare soluzioni attraverso la creazione di un network e di relazioni per crescere, seguendo leader positivi e inclusivi. Anche per Antonella Mansi, Presidente del Centro di Firenze per la Moda Italiana, l’educazione alle materie STEM “è cruciale, insieme con quella familiare e scolastica, per rendere le donne pronte al mondo imprenditoriale”.
Sull’importanza dell’educazione dei figli fin da piccoli ad avere indipendenza economica concorda Irene Facheris, esperta in gender studies e formatrice, che ricorda come i suoi genitori le abbiano insegnato a gestire la ‘paghetta’ attraverso un file Excel quando era bambina. “Alle famiglie (e in particolare alle donne) è richiesta maggiore educazione finanziaria”. Non solo: “Anche la scuola ne è responsabile, perché il problema del pay gap nasce prima del mondo del lavoro. E bisogna considerare anche la violenza economica che si manifesta nelle famiglie nella gestione delle risorse economiche”.
Il tema della sostenibilità dell’attività imprenditoriale, dal punto di vista umano, è stato sottolineato da Lavinia Biagiotti, presidente e CEO di Biagiotti Group, secondo la quale “siamo qui per lasciare una legacy nei confronti dell’ambiente e soprattutto delle persone”.
Infine Magda Bianco, Direttrice Dipartimento tutela della clientela ed educazione finanziaria di Banca d’Italia, ha evidenziato la correlazione tra il livello di competenze in finanza e quelle in matematica. “A scuola bisogna puntare di più sulla finanza, che nella società spesso ha una connotazione negativa, e sulla matematica in modo meno competitivo e più coinvolgente, senza creare stereotipi e dando maggiore fiducia alle donne”.
I modelli organizzativi in continua trasformazione e la cultura aziendale hanno un impatto sullo sviluppo delle persone che passa anche attraverso una nuova formazione dei leader. Oggi le modalità di apprendimento tradizionali non bastano più, nemmeno per i capi. Le aziende hanno l’occasione di passare dal concetto di ‘formare’ a quello di ‘essere’, maturando una consapevolezza del fatto che le dimensioni identitarie delle persone sono una risorsa, non un ostacolo.
Anche l’assessment può considerare lo spessore umano come se fosse un insieme di cerchi concentrici che rappresentano la complessità (positiva) delle persone, come è emerso nel corso dell’evento La sfida dello sviluppo parte dalla formazione dei capi organizzato da HRC, a cui ha partecipato anche Riccarda Zezza, CEO di Lifeed.
La funzione HR ha un ruolo determinante per dare ai manager i giusti strumenti in grado di valorizzare le dimensioni identitarie delle persone. Ma “valori e purpose devono essere incarnati innanzitutto dai leader, soprattutto quelli intermedi”, come spiegato da Laura Bruno, Head of HR di Sanofi.
Le relazioni capo-collaboratore sono state rese più complicate dalla distanza a cui ci ha costretti la pandemia. La Direzione HR “può essere facilitatrice e regista di questo rapporto, anche provocando il manager a ‘fare il capo’ con coraggio, gentilezza e generosità”, sostiene Tiziano Suprani, Corporate HR Officer di Ferroli. Per farlo, servono sia “uno stimolo dal basso da parte dei collaboratori, chiamati a puntare sull’autoapprendimento”, sia una proattività dei leader che “devono saper indirizzare le capacità delle persone”.
Non basta però essere allenatori: bisogna scendere in campo, dal momento che oggi le organizzazioni sono fluide e i modelli gerarchici del passato non funzionano più. “I capi operano in un terreno magmatico, essere leader è un processo di trasformazione continua che richiede flessibilità”, afferma Marina Collautti, Head of Employer Branding, Recruiting & Mobility di Generali Italia.
Un buon manager oggi deve essere “visionario e anticipatore, per comprendere l’effetto del cambiamento sulle persone”, puntando anche su una nuova cultura dell’errore, aperta alla sperimentazione, e sulla comunicazione per creare un clima di fiducia con i collaboratori.
Non c’è una ricetta unica per essere capi: dipende dal contesto e da tante variabili. Per questo, oggi servono leader empatici, sintonizzati con le persone nelle diverse situazioni, in grado di dialogare con loro in modo più autentico e capaci di creare relazioni basate sull’ascolto.
Come evidenziato da Lavinia Lenti, Direttrice HR di Sace, “il leader del futuro deve essere empatico, inclusivo, aperto al digitale e all’innovazione”. Per questo l’azienda, nella formazione dei capi, punta su tre leve principali: gestione collaboratori da remoto; valutazione e sviluppo dei collaboratori (con focus su diversità di genere); innovazione e digital con centralità del dato.
L’HR ha l’opportunità di lavorare a quattro mani con il capo per favorire l’ingaggio e l’elemento motivazionale, che può dare una spinta ulteriore agli stessi leader, dei quali “bisogna valorizzare il ruolo come guida per la crescita dei collaboratori. Come ci prendiamo cura dei nostri figli, così dovremmo fare anche con i nostri collaboratori”, aggiunge Lenti, secondo cui “servono più job rotation e mix generazionale e di genere ai livelli più alti dell’organizzazione”.
In questo contesto, la formazione tradizionale “non serve a niente”, afferma Fabio Nebbia, HR Director di Coopservice. “La cultura si traduce nel ‘saper essere’, cioè nel modo in cui si fanno le cose in azienda”. Per creare cultura, dunque, non bastano le classiche modalità di apprendimento: “Lo spessore umano va tenuto più in considerazione. E le competenze vanno tradotte in comportamenti agiti misurabili”.
D’altra parte, oggi non ci sono più silos divisivi tra casa e lavoro, è tutto interconnesso e in ambito professionale alcuni aspetti come flessibilità e welfare diventano più importanti dello stipendio o del ruolo. Per Nebbia, “il capo dovrebbe essere consapevole del ben-essere delle persone e del motivo per cui ogni mattina vengono al lavoro”.
Un nuovo tipo di formazione deve essere accompagnata anche da un nuovo ‘role modeling’ dei leader. “Ai manager è richiesto di rompere gli schemi e per farlo serve uno spessore culturale”, sostiene Fabio Colacicco, Group HR Director di Banca Sella, che indica tre leve su cui puntare: disruption, crescita e libertà.
La complessità delle persone porta più risorse, perché i tratti caratteriali fanno esprimere competenze che altrimenti restano inespresse sul lavoro. Scomporre le competenze in comportamenti permette di scoprire risorse trasferibili tra vita e lavoro. L’autoconsapevolezza legata alle esperienze di vita può dunque sostituire la formazione tradizionale, anche perché più le persone trovano coerenza in quello che fanno, più si comportano in modo etico. Per questo, ai capi è richiesto di avere uno sguardo in grado di catturare la complessità delle persone. E di farne tesoro.
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Nei prossimi mesi parteciperemo anche ad altri HRD Square: non perdere gli appuntamenti in agenda!
Lunedì 19 aprile 2021 – STRATEGIC WORK FORCE PLANNING: COME ANTICIPARE LE NUOVE COMPETENZE E COME SVILUPPARLE? (UP-SKILLING /RE –SKILLING)
Giovedì 6 maggio 2021 – ABBIAMO VERAMENTE CAMBIATO IL MODO DI FARE HR?
Lunedì 24 maggio 2021 – LA NUOVA FLESSIBILITÀ E LE RICADUTE SULLA LEADERSHIP. COME GUIDARE IL TEAM IN UNA FASE DI INCERTEZZA E QUALI PRIORITÀ PER AGIRE IL CAMBIAMENTO?
Martedì 22 giugno 2021 – INCLUSIONE: VERSO UNA CULTURA DELL’APPARTENENZA
I grandi cambiamenti vissuti all’interno delle organizzazioni dall’inizio della pandemia non riguardano solo la sfera aziendale, ma hanno una forte sinergia con la vita privata delle persone. Oggi è chiaro che i vecchi modelli di leadership non funzionano più. È necessario rompere le barriere e gli schemi del passato, cercando di rispondere a nuove domande, per far emergere la meraviglia di questa nuova realtà.
In questo senso, la paternità può rappresentare un nuovo modello di leadership: ascolto, empatia, gentilezza e cura sono le soft skill praticate dai padri nella vita quotidiana e sono le stesse caratteristiche della ‘caring leadership’ sempre più richiesta oggi all’interno delle aziende.
Ma in cosa consiste l’evoluzione degli stili di leadership e qual è il legame con la paternità? Se ne è discusso nel corso della Life Ready Conference del 17 marzo 2021 dal titolo L’era dei leader papà – Nuovi stili di leadership a un anno dalla pandemia, attraverso le testimonianze di alcuni top manager padri.
Nell’ultimo anno abbiamo allenato ancora di più attenzione e alterità, capacità che si sviluppano in automatico durante tutto il percorso di paternità. Ne è convinto Isidoro Colluto, Customer Team Director Region Italy e co-leader ERG Balance Italia di Barilla: “Come è necessario dare ai figli tanta attenzione e ridurre lo spazio del proprio ego, per creare una relazione solida e profonda, così anche in azienda con i propri collaboratori è importante trasporre queste modalità: ne deriveranno gratitudine, autenticità e un maggiore livello di complicità tra le persone”.
Oggi è finita l’era della leadership autoritaria ed è chiaro che i protocolli non valorizzano la diversità e non aiutano la sopravvivenza delle organizzazioni. “Dobbiamo ampliare la nostra visione e capire chi sono i nostri collaboratori per muovere le loro corde e far emergere le loro potenzialità, come faremmo con i nostri figli”, aggiunge Colluto. “La diversità nelle aziende e nella vita riguarda ognuno di noi, per questo è necessario scoprire ogni diversità e creare un mosaico più ampio e colorato, dove ogni singola tessera è unica e fondamentale”.
Essere genitori insegna tantissimo. “Ho imparato che la gentilezza è il motore del mondo. Con i figli, ma anche nelle organizzazioni, è importante la capacità di aiutarli a scoprire ed esprimere il proprio potenziale, è un rapporto di co-costruzione, che passa appunto dalla gentilezza”, afferma Vittorio Ratto, Deputy General Manager di Crédit Agricole.
“L’ultimo anno e tutto quello che è successo in questi mesi mi ha fatto rimettere al centro nel mio ruolo di responsabilità l’importanza di comprendere le emozioni che attraversano l’organizzazione, spiegarle ed integrarle”. Gestire l’incertezza e la parzialità delle cose è una lezione che si impara con i figli, quando “siamo chiamati come genitori a dare senso e certezze, a spiegare e decifrare le loro paure“.
Il tema dell’emozionalità non è sempre stato all’ordine del giorno nelle aziende, ma la pandemia ci ha spinti a capire che si tratta di un fattore centrale per gestire le situazioni più complesse e passare con energia alla fase della costruzione e del ‘fare’.
La comunicazione e la capacità di creare una relazione diretta ed empatica con le persone sono aspetti fondamentali sia nella vita familiare, sia in quella lavorativa. “Se vogliamo che i nostri collaboratori, come i nostri figli, riconoscano il nostro ruolo di leader e guida, dobbiamo capire che si sono evoluti sia lo stile di paternità che i modelli di leadership: occorre essere aperti al dialogo e capaci di metterci in discussione”, sostiene Davide Viale, Rolling Stock Site Managing Director / Diversity & Inclusion Champion di Alstom. “Le persone devono poter percepire che il loro contributo è importante perché parte di un progetto più grande e questo è fondamentale soprattutto in periodi difficili come quello che stiamo vivendo, in cui tutti abbiamo bisogno di sicurezza”.
Per Eraldo Federici, Automotive, LifeScience, Manufacturing, Aerospace and Defence Italy Market Head di Capgemini, essere genitori allena a sviluppare la capacità relazionale, perché “ogni figlio pretende una relazione unica e puntuale con il genitore“, che si inserisce all’interno di una più ampia relazione di famiglia, che si evolve nel tempo. Questa relazione, nel pensiero di Federici, si può vedere come una danza tra tutti i membri della famiglia in un contesto dinamico.
Per questo è necessario essere quanto più presenti, per dare ai propri figli la consapevolezza di essere amati: “In una situazione come quella pandemica, dove si sono persi molti punti di riferimento, la consapevolezza degli affetti permette di trovare tranquillità per affrontare lo stato di incertezza“. Ciò si riflette anche nelle aziende, dove la leadership gerarchica non funziona più. Serve invece “un approccio interattivo, autocorrettivo ed evolutivo, nel quale i vari elementi contribuiscono secondo nessi di relazione e scambio reciproci“. I bambini, come i collaboratori, “devono fare da soli senza mai sentirsi soli, devono poter contare su riferimenti costanti. Quando si diventa genitori si impara da soli, crescendo insieme ai ragazzi, e così deve essere con i nostri team“.
Concetti come umiltà ed emozionalità, sia nella relazione con i figli sia in quella con i collaboratori in azienda, permettono di instaurare un rapporto costruttivo relazionandosi alla pari, senza pretendere qualcosa solo perché si è genitori o capi. Ne è convinto Giuseppe Donagemma, Presidente di Lifeed, secondo cui è sempre più importante “imparare a non aver paura di mostrare i propri punti deboli, far capire alla propria squadra che tutti devono tentare, possono sbagliare e devono ritentare. L’unico modo per portare innovazione in azienda è dare alle persone la libertà di fallire: a tal scopo la genitorialità è un grande allenamento”.
È risultato evidente poi che ci sia molto da fare per cambiare lo spirito manageriale italiano che, secondo Donagemma, si basa su un modello datato: “Ci si deve dimenticare dell’organizzazione gerarchica e favorire rapporti più diretti, umani e pragmatici. Lo stesso capita con i figli: bisogna costruire rapporti umani emotivi ed empatici, ma dare obiettivi da perseguire e limiti da rispettare”. Nei momenti di crisi, come quello che stiamo vivendo, è necessaria “grande assertività e resilienza da parte dei manager, perché le persone hanno bisogno di un riferimento che infonda loro confidenza nel superare le difficoltà, che mostri loro da direzione da intraprendere e che trasmetta un alto livello di energia e motivazione”.
Non hanno certo il blocco dello scrittore i nostri Life Based Learners: fiumi di parole che fanno emergere riflessioni, idee, nuove consapevolezze, valori, capacità. Al cuore di Lifeed, vi è infatti una metodologia di apprendimento che si basa anche (ma non solo!) sull’autonarrazione attraverso domande guidate.
Riflettere e scrivere permette di dare un nome ai segnali delle transizioni che stiamo vivendo, permette di familiarizzare con quello che ci sta accadendo e prendere la giusta distanza per vedere le cose più chiaramente e (ri)costruire il proprio racconto personale.
Sono numerosi gli studi che confermano i benefici dell’autonarrazione sia a livello fisico sia emotivo. Migliora, ad esempio, la regolazione delle emozioni e agisce sul sistema immunitario e sulla salute celebrale (Petrie et al. 2004); scrivere dei propri traumi, riduce lo stress, abbassa la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca (Pennebaker, Hughes e O’Heeron 1987); dedicarsi all’autonarrazione rende più felici, e migliora persino le capacità relazionali (Pennebaker & Graybeal 2001, Baddeley & Pennebaker 2011); migliora il benessere generale e le funzioni cognitive (Barclay & Skarlicki 2009).
Tutti questi benefici si travasano in maniera naturale e immediata dalla vita privata a quella lavorativa. Come dimostra chi si è formato su Lifeed: il 74% sente di conoscersi meglio, è più consapevole di sé e delle proprie risorse, mentre il 64% afferma che il metodo Lifeed “fa sentire bene”.
“L’esperienza è arrivata al momento giusto e quindi ha fatto leva sulle mie emozioni, che di norma sono un mondo chiuso e riservato, ma strabiliante per attivare il cambiamento”, racconta un partecipante. “Lifeed mi ha ‘autorizzata’ a focalizzarmi su me stessa per prima cosa, per poter dare il meglio di me sul lavoro”, dichiara un’altra.
Con la nuova funzionalità Portfolio è possibile rileggere i propri ricordi, rivivere emozioni alla luce del tempo trascorso e delle nuove consapevolezze che le esperienze di vita hanno generato, riscrivere o aggiungere nuove riflessioni.
Nella sezione “Competenze” del Portfolio è possibile verificare quali sono già state allenate grazie al focus offerto dalle unità didattiche o dalle attività pratiche previste per le Missioni Real Life, e quali sono ancora da allenare così da poter scegliere come focalizzare al meglio il proprio percorso formativo.
Genitori, caregivers e tutti coloro che stanno vivendo una forte transizione di vita hanno oggi uno strumento in più per trarre il massimo dalla loro formazione Life Based.
Un anno dopo l’inizio della pandemia, le nostre vite non sono più le stesse. I più grandi cambiamenti hanno impattato la dimensione privata e quella lavorativa, che non si possono più considerare separate tra loro.
L’esperienza vissuta nel corso dell’emergenza covid ha infatti creato una nuova sinergia tra la sfera quotidiana e quella professionale. Questo cambiamento ha coinvolto direttamente i papà, i quali hanno avuto occasione di sviluppare nuove competenze trasversali tra vita e lavoro, unite a una leadership diversa dal passato.
Il concetto stesso di leadership si è trasformato radicalmente: oggi la gestione del cambiamento passa da caratteristiche come ascolto, empatia, gentilezza e cura. Tutte soft skills praticate nella vita quotidiana come padri e caregiver, che si rivelano efficaci anche sul lavoro. Infatti la ‘caring leadership’ (autentica, presente e attenta ai bisogni delle persone) è sempre più richiesta nelle aziende.
A un anno dall’inizio della pandemia, come sono cambiate le vite dei papà? Quali caratteristiche hanno oggi gli stili di leadership e come emergono dalla paternità? E perché ciò farà la differenza anche domani?
Se ne parla nella Life Ready Conference del 17 marzo 2021 (ore 9.30-11) dal titolo L’era dei leader papà – Nuovi stili di leadership a un anno dalla pandemia, attraverso le testimonianze di alcuni top manager padri.
Ne parliamo con:
Alstom – Davide Viale, Rolling Stock Site Managing Director / Diversity & Inclusion Champion
Barilla – Isidoro Colluto, Customer Team Director Region Italy e co-leader ERG Balance Italia
Capgemini – Eraldo Federici, Automotive, LifeScience, Manufacturing, Aerospace and Defence Italy Market Head
Credit Agricole – Vittorio Ratto, Deputy General Manager
Lifeed – Giuseppe Donagemma, Presidente
Modera:
Monica D’Ascenzo, giornalista de Il Sole 24 Ore