Milano, 4 dicembre 2024 – In Italia, sono circa 3,6 milioni le persone che soffrono di un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA), una cifra che include non solo giovani, ma anche adulti tra i 35 e i 60 anni. Questo fenomeno è una vera e propria epidemia silenziosa, poiché i numeri sono significativamente sottostimati. In un periodo storico in cui la salute mentale è sempre più rilevante, il 50% degli italiani ritiene che il supporto delle aziende in questo ambito abbia un impatto determinante nella scelta di restare in un’azienda.
Ma quali sono gli stereotipi che riguardano i lavoratori affetti da DCA? Rendere visibile in azienda il proprio malessere può aiutare a superare lo stigma? Quali sono le competenze soft che affrontare un percorso di cura può aiutare a sviluppare? Ma soprattutto, queste competenze possono rappresentare un primo passo verso l’eliminazione dello stigma pubblico che circonda i soggetti affetti dalla malattia mentale?
Un progetto di ricerca realizzato nell’ambito del corso di laurea Magistrale in Psicologia per le Organizzazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano risponde a questi interrogativi e si è aggiudicata il “Libellula Inspiring Company“, il premio rivolto alle aziende che realizzano progetti volti a prevenire e contrastare la violenza e la discriminazione di genere, dentro e fuori il contesto di lavoro.
L’indagine è stata resa possibile grazie alla collaborazione tra Lifeed, l’azienda EdTech che dal 2015 sta cambiando il mondo del lavoro, trasformando le esperienze di vita personale in competenze soft da attivare sul lavoro, e Animenta, associazione non-profit che si occupa di disturbi del comportamento alimentare in tutta Italia.
Gli stereotipi più comuni sulle persone che soffrono di malattie mentali includono la percezione che queste persone siano meno competenti, imprevedibili, poco affidabili. Inoltre, molti manager e consulenti di selezione del personale esitano ad assumere persone con disturbi psicologici (Sawyer & Siegel, 2019). Oltre allo stigma pubblico, le persone con malattie mentali spesso interiorizzano gli stereotipi che vi sono nei confronti della malattia, applicandoli a sé stesse, attraverso un processo che prende il nome di stigma interiorizzato o auto-stigma.
A fronte dello stigma che gravita attorno alla malattia mentale, le persone con DCA possono trovarsi di fronte al dilemma se rivelare o meno la propria condizione. Per evitare lo stigma, possono scegliere di nascondere queste informazioni sul lavoro con un potenziale impatto negativo sulla creazione di legami professionali autentici (Thomas, 2020).
Alla luce di questo, la ricerca condotta con i dati raccolti attraverso la piattaforma Lifeed su persone appartenenti alla community di Animenta con DCA, è stato possibile mappare le competenze latenti che a causa di uno stigma sociale spesso non vengono viste e valorizzate sul lavoro.
L’obiettivo della ricerca è stato rompere stigmi e stereotipi sui disturbi del comportamento alimentare, sensibilizzando il mondo del lavoro e le organizzazioni su una categoria di malattie mentali ancora poco conosciute. Il progetto ha permesso alle persone di scoprire e portare nell’ambito professionale le competenze sviluppate nella loro vita personale, contribuendo così a rafforzare autostima e sicurezza di sé.
Dall’analisi dei risultati è emerso chiaramente che nelle esperienze di vita personale delle partecipanti e dei partecipanti c’è un potenziale enorme di competenze che non viene portato sul lavoro e che le aziende non sanno di avere. Le persone sviluppano più competenze soft nei ruoli personali rispetto ai ruoli professionali con una media di potenziale inespresso superiore al 40%:
“Questa ricerca nasce dal desiderio di rivoluzionare il modo in cui le aziende affrontano la salute mentale, promuovendo una cultura inclusiva che valorizzi le esperienze personali come autentiche risorse. Abbiamo voluto far luce su una malattia come i DCA, tanto diffusa quanto ancora poco conosciuta, permettendo a chi vive un disturbo alimentare o qualsiasi difficoltà psicologica di guardare oltre la malattia, riconoscendo il proprio potenziale e rafforzando l’autostima. La nostra ambizione è di trasformare le aziende in luoghi abilitanti, capaci di valorizzare le potenzialità insite nelle esperienze di vita senza stigmatizzare, perchè, come dimostra la ricerca, le esperienze personali arricchiscono persone e organizzazioni di competenze fondamentali.” – ha dichiarato Benedetta Di Cesare, Research & Innovation Analyst di Lifeed.
“Crediamo che le organizzazioni possano guidare un cambiamento culturale importante nel modo in cui il mondo del lavoro e la società vedono le persone e la diversità in tutte le sue forme. È tempo di smettere di considerare le esperienze di vita personale – anche quelle più complesse – come ostacoli alla produttività e iniziare a riconoscerle come momenti di crescita che portano con sé nuove competenze. Più lasciamo che uno stereotipo intrappoli una persona, più le impediamo di esprimere il proprio potenziale, che rischia di rimanere latente; a perdere, però, è anche la società, che rischia di non vedere mai tutto il valore che quella persona potrebbe portare. Solo superando queste barriere si possono costruire le fondamenta per un mondo del lavoro più giusto, equo e inclusivo, dove ogni persona ha la possibilità di contribuire al meglio delle proprie capacità” ha affermato Chiara Bacilieri, Head of Innovation di Lifeed.
“Quando si affronta un percorso di cura da una malattia mentale come un DCA ci si chiede spesso cosa ci insegnerà questo percorso e spesso ci si vergogna. Molte volte si ha paura del tempo che si spende a curarsi, ma il tempo investito nella propria salute mentale non è mai tempo perso. Questa ricerca ci ha permesso di capire come ogni percorso che affrontiamo nella nostra vita può aiutarci negli anni successivi e come le competenze latenti di cui diventiamo consapevoli possano essere messe in campo anche nel lavoro”– ha commentato Aurora Caporossi, Founder e Presidente di Animenta.
Grazie a questo finanziamento, l’azienda co-fondata da Riccarda Zezza aumenta gli investimenti nell’AI generativa e avvia l’espansione all’estero
Milano, 2 ottobre 2024 – Lifeed, azienda di education technology che dal 2015 sta cambiando il mondo del lavoro facendo emergere le competenze soft da tutti i ruoli della vita delle persone, ha concluso con successo un bridge round di investimento, iniziato nel 2023, per un totale di 3,5 milioni di euro.
L’investimento è stato sottoscritto dal Fondo Rilancio Startup, gestito da CDP Venture Capital SGR S.p.A, da Opes Italia Sicaf Euveca, da SEFEA Impact SGR e dall’ungherese Impact Ventures, già investitore in Lifeed.
Il round di investimento consentirà da un lato il rafforzamento dell’offerta, attraverso l’utilizzo dell’AI generativa, dall’altro l’espansione in alcuni mercati esteri ad alto potenziale grazie a partnership con società leader nella human transformation. Inoltre, Lifeed punta al consolidamento del mercato italiano, dove conta già oltre 100 aziende clienti e 70.000 utenti.
Per accompagnare questa nuova fase della vita dell’azienda, entra nel board in qualità di CEO Salvatore Pugliese, già Amministratore Delegato di Brown Editore S.p.A e TF Group S.p.A che porterà importanti competenze manageriali e avvierà una nuova fase di crescita fortemente improntata sull’innovazione tecnologica, sul consolidamento del mercato italiano e sullo sviluppo internazionale.
Riccarda Zezza, che ha co-fondato l’azienda a l’ha guidata nei primi 9 anni, portandola a ottenere investimenti in Italia e all’estero e ad essere citata come una tra le pratiche più innovative e inclusive al mondo per lo sviluppo delle competenze nello studio “The skilling challenge” condotto da Ashoka e McKinsey & Company, assume il ruolo di Chief Science Officer con l’obiettivo di ampliare l’impatto scientifico e definire la strategia di ricerca e sviluppo dell’azienda, con un focus sempre maggiore sui dati e sull’impiego dell’intelligenza artificiale.
Lifeed, grazie alle sue soluzioni basate sul metodo del Life Based Learning, si presenta oggi al mercato delle organizzazioni con una piattaforma di sviluppo digitale che misura e sviluppa il pieno potenziale umano in tutta l’organizzazione: valorizzando tutte le loro competenze di vita, le aziende migliorano le performance, aumentano la retention e potenziano l’engagement delle persone.
Gli algoritmi alla base della piattaforma, permettono di costruire un’esperienza personalizzata per ogni utente, strutturata in tre fasi: scoperta, attivazione e misurazione.
La piattaforma è mobile-first, si avvale dell’intelligenza artificiale per un viaggio formativo immersivo ad alto tasso di completamento (+90%) garantendo alle funzioni HR la misurazione quantitativa dei risultati raggiunti nello sviluppo del potenziale umano, anche ai fini delle certificazioni e dei report ESG.
“Questo bridge round di investimento proietta Lifeed in un piano di sviluppo ambizioso che è stato colto pienamente dai nostri partner e che ci consentirà di proiettarci al 2025 con l’apertura di nuovi mercati, alcuni già identificati come il Messico, il Regno Unito e la Svizzera, altri ancora da identificare. Ho deciso di affrontare questa sfida perché sono convinto che in un mondo sempre più “AI-centrico”, freneticamente improntato alla ricerca di automazione di processi ed operazioni ci siano delle capacità umane che non saranno mai sostituite: empatia, creatività, pensiero critico, ad esempio. Il mio obiettivo è quello di lavorare con Riccarda Zezza e con un team di grande valore per offrire al mercato una piattaforma rivoluzionaria capace di misurare il potenziale dei talenti dando all’AI il giusto ruolo di co-pilota, e non di pilota assoluto” – ha dichiarato Salvatore Pugliese, CEO di Lifeed.
“Sono molto orgogliosa di questo traguardo e so che l’ingresso di Salvatore Pugliese porterà Lifeed in una nuova fase di crescita : si tratta di un “passaggio generazionale”, quello tra i fondatori e un top management qualificato, che solo le startup più fortunate possono permettersi quando puntano alla fase di “scaleup” – e ci riesce meno del 5% delle startup*, quindi abbiamo ragione di festeggiare.
Noi puntiamo tutto sullo sviluppo umano: la parte “soft” su cui sembra meno facile avere un impatto, ma che poi ha a sua volta un impatto su tutto il resto. Lo facciamo con una rivoluzione nella formazione: un’esperienza di apprendimento che si adatta alla vita delle persone, e la trasforma in una palestra di formazione continua di competenze soft. Questo metodo rompe gli stereotipi che limitano le capacità delle cosiddette “minoranze” , arrivando a raddoppiare produttività, coinvolgimento e leadership di donne, giovani, ageing workforce, genitori, caregiver e returner” – ha concluso Riccarda Zezza, Founder di Lifeed.
Il round di investimento e il piano di sviluppo arrivano a 10 anni dall’uscita in libreria di Maam, maternity as a Master, il libro scritto da Riccarda Zezza che ha gettato le basi del modello di Lifeed, avviando l’avventura imprenditoriale e di innovazione del mercato del lavoro dell’autrice, che oggi si rinnova ulteriormente anche grazie al potenziale offerto dall’AI.
Oggi le sfide principali del mercato del lavoro sono rappresentate da fenomeni come Talent shortage, Intelligenza Artificiale (AI) e reskilling, Grandi dimissioni e Quiet quitting. Questi trend si traducono nel crescente malessere e distacco delle persone dal lavoro, in particolare da parte delle giovani generazioni. La Direzione HR è chiamata a rispondere a tali sfide per migliorare i livelli di benessere, engagement e inclusione e per garantire la sostenibilità futura delle imprese.
Queste criticità e le possibili soluzioni sono state approfondite nella ricerca 2023-24 dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, di cui Lifeed è partner. Dalla ricerca è emerso che oggi lo skill mismatch e il malessere sono ampiamente diffusi tra le aziende, che nell’88% dei casi faticano ad attrarre e trattenere i talenti. Solo il 9% delle persone dichiara di stare bene sul lavoro e solo il 5% afferma di essere pienamente ingaggiato e felice in azienda.
In parallelo, il 42% dei dipendenti ha cambiato o intende cambiare lavoro nel prossimo anno (un dato che sale al 65% per i più giovani). Al posto della retribuzione, oggi stare bene al lavoro rappresenta la richiesta fondamentale da parte delle persone (36%), soprattutto quelle appartenenti alla Generazione Z. Investire in iniziative che promuovono il coinvolgimento, il benessere e lo sviluppo di competenze delle persone è quindi urgente e strategico per la competitività delle imprese.
Tra le sfide principali della Direzione HR c’è quella di rispondere alle esigenze delle diverse generazioni che oggi convivono nelle aziende. Come illustrato da Martina Borsato, Responsabile dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, da una parte si sta allungando la vita professionale dei lavoratori più senior, dall’altra cresce il peso delle generazioni più giovani che stanno cambiando le regole del lavoro.
A cambiare è il concetto di carriera, non più esclusivamente legata al successo professionale; cambia anche l’approccio alla gestione del rapporto tra vita lavorativa e vita privata, che diventa più fluido. Azioni per garantire l’occupabilità, flessibilità nel decidere orario e luogo di lavoro e attenzione al benessere fisico e mentale sono i fattori di attrattività emergenti per i più giovani.
In questo scenario, le aziende hanno l’occasione di trasformare il divario tra generazioni in un’opportunità di apprendimento e innovazione per tutti. Ciò è possibile se si superano i pregiudizi legati all’età e se si individuano e valorizzano le aree di sinergia tra le diverse generazioni, come le competenze complementari e quelle nascoste nei ruoli di vita personali.
Proprio nell’ambito delle competenze, un altro trend del mondo del lavoro riguarda il loro sviluppo in azienda. Non si tratta delle cosiddette hard skill, bensì delle competenze trasversali (o soft) che secondo il World Economic Forum rappresentano le competenze-chiave del futuro. Dalle ricerche dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed emerge che il 70% di queste competenze viene allenato nei ruoli di vita personali, fuori dal lavoro. Come non sprecare questo potenziale in azienda?
Solo considerando le persone in tutte le loro dimensioni identitarie, private e professionali, questo potenziale umano può essere trasferito sul lavoro e sviluppato con benefici sia per i singoli individui sia per le aziende in termini di benessere, retention, produttività e coinvolgimento.
Con le sue soluzioni digitali innovative e il suo metodo scientifico proprietario, Lifeed trasforma le esperienze di vita in opportunità di crescita personale e professionale. Vuoi scoprire come sviluppare tutte le competenze trasversali delle persone in azienda? Consulta il whitepaper qui sotto.
Oggi in Italia una donna su cinque esce dal mondo del lavoro dopo la maternità: un dato rimasto quasi invariato negli ultimi 10 anni. In oltre metà dei casi, il motivo riguarda l’inconciliabilità tra esigenze familiari e lavorative. Se scaliamo i vertici delle organizzazioni, una su cinque è anche il rapporto di donne manager.
Due dati diversi, una realtà comune: la Child penalty è l’insieme di penalizzazioni con cui si scontrano le madri lavoratrici, che ancora oggi sono percepite come meno competenti o focalizzate sul lavoro.
Rispetto agli uomini e alle colleghe senza figli, percepiscono salari più bassi e hanno minori probabilità di essere assunte o promosse. Ma ancora prima di volere o poter diventare madri, tutte le donne affrontano questi ostacoli, in misure e tempi differenti.
Troppo, e i costi più alti sono spesso invisibili. Sottovalutare le esperienze di cura delle persone si traduce per le organizzazioni in uno spreco di talenti e in una minore capacità di attraction e retention delle lavoratrici.
Dalle ricerche dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed emerge che, con la nascita di un figlio, il 97% delle donne scopre competenze soft che non sapeva di avere. Le competenze allenate con la cura dei figli rappresentano un potenziale che può essere misurato e portato anche nei ruoli professionali.
In questo whitepaper, troverai due strategie chiave per la tua organizzazione per cambiare la storia di maternità e lavoro e alcune best practice di realtà coraggiose che da anni collaborano con Lifeed.
Il rapporto tra maternità e lavoro è stato anche al centro del digital talk “Maternità e lavoro: quando le aziende fanno sul serio” promosso da Lifeed in occasione della Festa della mamma 2024.
L’evento ha rappresentato l’occasione per scoprire il valore tangibile della genitorialità condivisa in azienda attraverso i dati dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed e le testimonianze di alcune imprese virtuose come GRENKE Italia, Danone e MAgroup che hanno ottenuto da questo approccio un impatto positivo sul business.
Oggi le competenze più richieste nel mondo del lavoro sono quelle trasversali. Come conferma il Future of Jobs Report 2023 del World Economic Forum, nella top 10 delle competenze-chiave per affrontare le sfide del futuro 8 sono soft skill.
Queste competenze sono già disponibili in azienda, ma restano nascoste perché vengono allenate soprattutto nei ruoli e nelle transizioni di vita privata. Uno spreco di risorse per l’azienda con impatti negativi in termini di benessere, efficacia e coinvolgimento.
Come è possibile, dunque, far emergere tutto il potenziale nascosto delle persone sul lavoro? Per farlo è necessario vedere le persone a 360 gradi in tutte le loro dimensioni di vita e favorire il trasferimento delle competenze tra i diversi ruoli privati e professionali di ciascuno.
Per scoprire, attivare e misurare tutte le competenze delle persone in azienda c’è una soluzione digitale unica al mondo: Lifeed Radar®. Con Radar il management ottiene informazioni chiave per azioni strategiche di upskilling e reskilling e per valorizzare il 100% delle persone.
Vuoi sapere come sviluppare le competenze soft nella tua azienda con Lifeed Radar®?
Oggi le persone sono sempre più disconnesse dal lavoro e non stanno bene in azienda. Solo il 5% dei dipendenti italiani si sente ingaggiato e appena il 7% si dichiara felice sul lavoro.
Questa disconnessione impatta tutte le generazioni, in particolare i più giovani, ed è destinata ad ampliare il fenomeno del Talent shortage: una carenza di talenti che entro il 2030 è prevista di 85 milioni di persone a livello globale.
A tutto ciò si aggiunge l’avvento dell’Intelligenza Artificiale (AI) che porterà a una maggiore diversificazione delle competenze richieste nel mercato del lavoro.
Per riconnettere le persone al lavoro, la formazione tradizionale non basta. Occorre guardare le persone a 360 gradi valorizzando tutte le loro dimensioni di vita private e professionali.
Solo in questo modo le organizzazioni possono vedere e attivare il pieno potenziale di ognuno, migliorando così la retention, la crescita e la produttività dei propri collaboratori.
Ma cos’è il potenziale e dove si trova? Si tratta di competenze trasversali che rappresentano le skill del futuro (World Economic Forum) e vengono sviluppate soprattutto fuori dal lavoro.
Per favorire la retention e lo sviluppo dei talenti, le aziende sono chiamate a costruire una strategia di lungo periodo su più livelli. La ricerca di Lifeed ha identificato tre aree-chiave di intervento:
I dati dell’Osservatorio vita-lavoro, basati sulla Survey 2023 che ha coinvolto 1.219 partecipanti ai percorsi Lifeed, dimostrano che valorizzare le persone nella loro interezza permette di ottenere un impatto concreto su tutte queste aree.
In questo Impact Report sono presentati i dati raccolti dalla Survey 2023 di Lifeed che ha analizzato le risposte dei partecipanti ai suoi percorsi di apprendimento e sviluppo. Sono emerse le competenze allenate dalle persone nelle loro transizioni di vita privata e professionale.
L’analisi dei risultati dimostra l’efficacia del Life Based Learning, il metodo ideato da Lifeed che permette alle persone di trasferire le proprie soft skill dalla vita privata al lavoro e viceversa.
L’empatia non è più una semplice competenza trasversale. Quando i leader la mettono in pratica attivamente, può trasformarsi in un potente strumento capace di guidare verso il raggiungimento di risultati di business. Il magazine Forbes ha proposto una panoramica degli studi scientifici più aggiornati sul tema dell’empatia, definendola “la più importante competenza di leadership”.
Portata alla ribalta da Daniel Goleman e dai suoi studi sull’intelligenza emotiva, l’empatia viene generalmente associata a una serie di benefici in termini relazionali, come il miglioramento delle capacità di lavorare in team e la consapevolezza sociale. Tuttavia, alcune ricerche recenti ne hanno dimostrato gli effetti positivi anche in aree strettamente legate alle performance aziendali, come l’innovazione, la retention e la produttività.
Per esempio, l’empatia può essere un importante motore dell’innovazione, in quanto promuove l’ascolto attivo e una comprensione approfondita dei punti di vista altrui. Non è un caso che la prima fase del design thinking, uno degli approcci più avanzati per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi, consista proprio nel mostrare empatia verso i potenziali utenti. Metterci nei panni degli altri amplia infatti i nostri orizzonti e ci invita ad aprirci a nuove idee.
L’empatia è anche in grado di promuovere la diversità, contribuendo alla creazione di luoghi di lavoro più inclusivi. Stando a uno degli studi citati da Forbes, il 50% dei dipendenti guidati da leader empatici definisce il proprio luogo di lavoro come inclusivo, rispetto a soltanto il 17% da coloro che non godono di una leadership empatica. I leader dotati di questa competenza sono inoltre maggiormente in grado di aiutare i collaboratori a destreggiarsi tra le sfide dell’equilibrio tra vita lavorativa e professionale: l’86% dei collaboratori guidati da leader empatici ha dichiarato di sentirsi maggiormente in grado di gestire i propri obblighi professionali, personali e familiari, diventando così più produttivi.
Nello scenario post-pandemico, i benefici dell’empatia diventano ancora più rilevanti se considerati da altre due prospettive: la salute mentale e la retention. Per quanto riguarda la salute mentale, tristemente definita da Gallup come “la prossima pandemia globale”, l’empatia può diventare un potente antidoto allo stress e contribuire a creare esperienze collaborative favorevoli per i singoli lavoratori e i team.
In termini di retention, molto è già stato detto riguardo alla Great Resignation innescata dal Covid-19 e alle conseguenti trasformazioni al nostro modo di lavorare. Anche in questo caso, l’empatia si è dimostrata un’arma estremamente efficace nel trattenere i dipendenti migliori: il 57% delle lavoratrici bianche e il 62% delle lavoratrici di colore intervistate in uno degli studi hanno affermato che non lascerebbero il loro posto di lavoro se le loro situazioni personali venissero rispettate e considerate come un valore dalle rispettive aziende.
Cosa significa dunque essere leader empatici, e come fare per trarre il massimo vantaggio da questa competenza chiave? Come sottolinea Forbes, i leader non possono più limitarsi a prendere in considerazione i pensieri e le emozioni dei propri collaboratori usando un approccio cognitivo (“Se fossi nei suoi panni, cosa penserei in questo momento?”) o emozionale (“Se fossi nei suoi panni, come mi sentirei?”). I benefici più grandi derivano infatti dall’applicazione attiva dell’empatia, che può tradursi ad esempio nel manifestare la propria preoccupazione verso gli altri e le sfide che stanno affrontando.
Prestare ascolto alle vicende personali dei collaboratori e saper interpretare i segnali non verbali sono due competenze fondamentali per entrare completamente in sintonia con il vissuto delle persone. Ma non bastano. Per diventare davvero persone empatiche, i leader dovrebbero infatti prendere l’iniziativa a seguito delle informazioni raccolte, cercando attivamente dei modi per dare l’aiuto e il supporto necessario ai propri collaboratori.
Scoprire che un dipendente ha difficoltà nel vivere il proprio ruolo di genitore o caregiver ci rende dei bravi ascoltatori. Trovare soluzioni condivise per alleggerire il peso di queste sfide e trasformarle in opportunità di crescita ci rende invece degli ottimi people leader. E può fare un’enorme differenza nelle performance dell’azienda per cui lavoriamo.
Tutti gli eventi della vita possono arricchire il curriculum. Perché invece le più intense esperienze di vita vengono trattate come un ‘vuoto’ nella carriera professionale? Due esempi: il congedo per la nascita di un figlio (il 20% delle donne in Italia dà le dimissioni dopo la maternità) e il tempo dedicato alla cura di una persona cara, come un genitore anziano (il 28% dei caregiver ammette di vivere questa condizione come uno stigma sul lavoro).
Eppure si tratta di motori di attività quotidiane che migliorano ben 63 competenze! È ora di cambiare radicalmente la cultura e iniziare a considerare queste esperienze come dei veri e propri master nel curriculum vitae delle persone.
Da questo presupposto è nata #MyRealCv, la campagna digital di Lifeed che promuove la consapevolezza delle competenze allenate attraverso le esperienze di vita (come diventare genitori, prendersi cura di una persona non autosufficiente, vivere un divorzio, un trasloco, un nuovo lavoro…), vedendole nella loro complessità come occasioni che arricchiscono il curriculum vitae e realizzando così una migliore sinergia tra vita e lavoro.
La campagna, realizzata collaborazione con l’agenzia di comunicazione Cookies & Partners, vuole spingere un cambiamento culturale a partire dalla creazione di una community – canali social Facebook, Instagram e LinkedIn – e dai partner di Lifeed, per poi svilupparsi in maniera più ampia grazie al coinvolgimento di influencer scelti perché rappresentano quanto sia importante trovare una sinergia tra vita e lavoro, e quanto i cambiamenti di vita spingano in questa direzione.
“Si chiama ‘curriculum vitae’, ma purtroppo spesso perde di vista la vita, con la conseguenza di sprecare risorse utili alla società e al mondo del lavoro – afferma Riccarda Zezza, CEO di Lifeed – Con questa campagna proponiamo un cambio di paradigma che renda tutte le persone più consapevoli che gli eventi della vita producono competenze che meritano di essere valorizzate nella vita professionale perché ‘funzionano’ anche lì”.
La campagna è volutamente giocosa e aperta a tutti: un test composto da alcune domande individua i cambiamenti principali che le persone stanno attraversando, invitandole a scegliere quali competenze associarvi. La persona riceve quindi un report che indica le capacità sviluppate e da inserire nel CV.
Lifeed, proprio per il suo approccio innovativo al mondo del lavoro, è la prima e unica impresa italiana tra le 16 aziende selezionate dal network internazionale Unreasonable Group che riunisce innovatori dirompenti e imprenditori per entrare nella community di Unreasonable Future, il programma creato con l’obiettivo di co-progettare il futuro del lavoro.
Ripensare, ridisegnare, trasformare: sono alcune delle parole chiave del percorso delle aziende verso il cosiddetto new normal post pandemia. In questo scenario, le competenze richieste dal mercato sono in continua evoluzione e la Direzione HR gioca un ruolo determinante per valorizzare il potenziale delle persone.
Oggi qualunque planning rischia di diventare obsoleto in poco tempo. Le competenze trasversali, legate alla capacità di apprendere e di pensare, sono le uniche su cui è possibile pianificare e servono in tutte le professioni, anche quelle tecniche. Ma la capacità di sapere quali competenze saranno utili in futuro non può essere attribuita solo in direzione top-down: è invece possibile utilizzare l’intelligenza collettiva, perché le persone stesse possono scoprire le proprie attitudini.
Per farlo è necessario “allargare la mappa”, come ha sostenuto Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nell’ambito dell’incontro Strategic workforce planning organizzato da HRC. Ciò significa capire che cambieranno il ‘cosa’ e il ‘come’ legati all’attività delle aziende, ma soprattutto significa tornare sul ‘perché’ ciò accade. Qui entrano in gioco i dati: oltre ai comportamenti, attraverso i People Analytics è possibile valorizzare le dimensioni identitarie sommerse e i tratti caratteriali delle persone. Ampliando la visione a queste dimensioni e attitudini in relazione alle esperienze di vita (lavorando non solo sui Big data, ma anche sugli Small data), l’HR può diventare “l’esperto delle mappe” per valorizzare tutto il potenziale dei dipendenti.
D’altra parte, oggi l’HR “non è più solo business partner, ma è il business stesso”, ha spiegato Alessandro Agosti, Direttore Risorse Umane di Findomestic. “L’HR accompagna le trasformazioni e può dare un’accelerazione decisiva al cambiamento anticipando i bisogni di nuove competenze”.
Secondo Andrea Bellina Head of Talent & Organization di Engie, la strategia è guidata dal business, ma a stretto contatto con l’HR che contribuisce a rendere concreta la strategia attraverso percorsi di formazione e riqualificazione. La tendenza oggi riguarda la ricerca di competenze legate alla gestione dei dati per comprendere gli scenari attuali e prevedere i trend del futuro.
Gli input di business e quelli dell’HR possono far trovare un equilibrio tra la ricerca di risorse sul mercato e la valorizzazione di competenze interne. In questo senso, “un approccio ‘plug-and-play’ non funziona, ma serve tempo per trasferire e sviluppare nuove competenze, anche in ottica generazionale”, ha affermato Alessandra Rizzi Group HR & Organization Director di BFF Banking Group. “La Direzione HR non basta da sola per anticipare le competenze, è un lavoro di squadra con il top management, serve un forte mandato di vertice per riuscire a non disperdere competenze e per garantire l’employability delle persone in questo periodo delicato”.
Oggi il tempo è un fattore chiave. “Dobbiamo prepararci al momento in cui il business cambierà per far fronte alla trasformazione dei consumi”, ha sottolineato Silvia Sulpizi, Senior HR manager Global Supply Chain di Baker Hughes, secondo cui è utile analizzare i comportamenti (non solo le hard skill) che serviranno nella transizione futura, per capire chi sarà pronto a mettersi in discussione.
Il workforce planning è fortemente legato alla strategia aziendale: per Luca Barbera, Head of Planning & Organization Global Power Generation di Enel Group, “capire i principali driver del business permette di pianificare l’evoluzione delle risorse interne. L’HR rappresenta una leva di creazione di valore all’interno della strategia dell’azienda, con l’obiettivo di riuscire a prevedere il futuro del lavoro”.
In questo contesto, non bastano competenze tecniche, ma servono anche “attitudini, startup mentality e approccio data-driven”. Sulla base delle attitudini, le persone possono anche cambiare ambito di lavoro e trovare nuove opportunità, per questo puntare sulla “contaminazione di saperi” può rivelarsi una strategia vincente, soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo oggi.