15 Giugno 2021
In un mercato sempre più competitivo, i temi di engagement, retention e benessere acquisiscono una rilevanza strategica per le aziende. Tuttavia, non sempre c’è piena consapevolezza di come si ottengano risultati ottimali in questi ambiti. Secondo quanto scrive l’Harvard Business Review, per trattenere i propri talenti, la maggior parte delle organizzazioni offre aumenti salariali, benefit economici o formativi e misure di welfare.
Sono aspetti certamente importanti, ma è dimostrato come niente di tutto questo basti per un dipendente che non si sente a suo agio nell’ambiente di lavoro. Il primo e fondamentale elemento per essere competitivi è il riconoscimento di tutte le dimensioni identitarie dei lavoratori. Non solo come professionisti, ma anche (e prima di tutto) come persone a 360 gradi.
I dipendenti che differiscono dalla maggior parte dei loro colleghi per religione, genere, background socio-economico o età spesso nascondono aspetti importanti di se stessi, per paura di conseguenze negative. Ciò rende difficile per le aziende essere veramente attrattive, con quanto ne consegue in termini di reputazione, produttività e vantaggio competitivo. Per i dipendenti, risulta pressoché impossibile sentirsi effettivamente legati all’impresa per cui operano. La chiave per un vera inclusione è capire chi sono veramente i propri dipendenti.
Molte organizzazioni conducono sondaggi sul coinvolgimento delle loro persone, ma la maggior parte trascura di analizzare in maniera profonda i dati raccolti attraverso l’ascolto delle persone, perdendo così molte opportunità di identificare eventuali problemi alla base di un’inefficace strategia di Diversity&Inclusion.
Per questa ragione, la Diversity è un’opportunità che diventa una ricchezza solo se gestita, altrimenti rischia di sfociare in conflitto. In un team, essa è un valore aggiunto solo quando c’è consapevolezza: in questo senso, le aziende non possono più limitarsi ad agire con la logica delle quote sui temi di gender equality e work-life balance.
Non è sufficiente inserire elementi differenziali al proprio interno (per esempio assumere più donne o persone di etnie diverse) senza far seguire un’opportuna elaborazione, altrimenti la D&I rischia di diventare una ‘moda’, qualcosa che non stimola più ricerca, domande, attenzione, ma una sorta di ‘dovere da adempiere’. È fondamentale, dunque, che le aziende investano su una vera valorizzazione delle differenze, agendo sulla formazione dei manager in un’ottica di caring leadership e lavorando sul riconoscimento delle competenze trasversali dei collaboratori, partendo da quelle acquisite grazie alle loro esperienze di vita.
Basti pensare quanto sia contraddittorio basare le valutazioni di carriera su un classico ‘curriculum vitae’ che, a dispetto del nome stesso, contiene indicazioni solo sulla vita lavorativa della persona. Se ne è accorto anche LinkedIn, che, fino alla ‘denuncia’ di una giovane madre, Heather Bolan, non permetteva di scegliere, dal menù a tendina, altre professioni che non fossero quelle codificate. Così, coloro che avevano ‘preso una pausa’ dal lavoro, tradizionalmente inteso, magari per viaggiare, per assistere un famigliare, per curarsi, si ritrovavano con imbarazzanti ‘buchi’ nel proprio CV, generando sospetto e diffidenza tra i recruiter.
Eppure, durante le transizioni di vita e le attività di cura sono tante le competenze soft che si apprendono e che possono essere valorizzate in termini professionali. Persino LinkedIn, dunque, è diventato più flessibile e ora consente di esplicitare scelte di vita che, sebbene non strettamente lavorative, evidenziano fortemente il valore anche professionale di una persona.
Riconoscere la diversità e valorizzarla è la chiave, dunque, per renderla ricchezza: perché ciò avvenga, bisogna essere in grado, in primo luogo, di leggere i dati che vengono raccolti in azienda. Occorre imparare a fare le domande giuste, rivolgendosi alle persone nella propria interezza, per scongiurare il rischio di generalizzazione. L’attività di People Analytics non deve fermarsi alla punta dell’iceberg, ma deve estendersi a tutte le dimensioni della persona.
Accanto ai cosiddetti Big Data (prendendo in prestito dal Marketing questa espressione), a cui i più si limitano, troviamo tutto un mondo sommerso di Small Data. L’autonarrazione delle persone può essere uno strumento di emersione della parte sottostante dell’iceberg: occorre, però, che i manager siamo formati nel modo giusto per ascoltare ‘mentre’ le persone si formano.
La diversità è innovazione se le aziende (a partire dai leader) sono capaci di mettere in luce l’elemento di diversità che c’è in ognuno e la sua portata positiva in termini di capacità di visione laterale, creatività e azione.
Anche la pratica del feedback deve tenere conto dell’insieme delle caratteristiche della persona che si ha di fronte. Altrimenti, questo sistema di valutazione, invece che essere di stimolo al miglioramento, può far precipitare la produttività dei dipendenti e, con essa, la brand reputation (che parte proprio dall’interno delle aziende).
L’ascolto richiede impegno ed è faticoso, certo. Ma è un investimento: i manager possono dedicare tempo all’ascolto per vederne i benefici futuri. Non si deve temere il cambiamento che questo può generare in azienda: ogni transizione, di vita o professionale, porta con sé una ricchezza, se gestita. Occorre solo imparare a farlo.