Disturbi alimentari, tra stigma e competenze

Gli stereotipi sui lavoratori che soffrono di malattie mentali in una ricerca nata dalla collaborazione tra Lifeed e Animenta. Il progetto si è aggiudicato il premio “Libellula Inspiring Company”.

Milano, 4 dicembre 2024 – In Italia, sono circa 3,6 milioni le persone che soffrono di un  Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA), una cifra che include non solo giovani, ma anche adulti tra i 35 e i 60 anni. Questo fenomeno è una vera e propria epidemia silenziosa, poiché i numeri sono significativamente sottostimati. In un periodo storico in cui la salute mentale è sempre più rilevante, il 50% degli italiani ritiene che il supporto delle aziende in questo ambito abbia un impatto determinante nella scelta di restare in un’azienda. 

Ma quali sono gli stereotipi che riguardano i lavoratori affetti da DCA? Rendere visibile in azienda il proprio malessere può aiutare a superare lo stigma? Quali sono le competenze soft che affrontare un percorso di cura può aiutare a sviluppare? Ma soprattutto, queste competenze possono rappresentare un primo passo verso l’eliminazione dello stigma pubblico che circonda i soggetti affetti dalla malattia mentale?

Un progetto di ricerca realizzato nell’ambito del corso di laurea Magistrale in Psicologia per le Organizzazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano risponde a questi interrogativi e si è aggiudicata il “Libellula Inspiring Company“, il premio rivolto alle aziende che realizzano progetti volti a prevenire e contrastare la violenza e la discriminazione di genere, dentro e fuori il contesto di lavoro.

L’indagine è stata resa possibile grazie alla collaborazione tra Lifeed, l’azienda EdTech che dal 2015 sta cambiando il mondo del lavoro, trasformando le esperienze di vita personale in competenze soft da attivare sul lavoro, e Animenta, associazione non-profit che si occupa di disturbi del comportamento alimentare in tutta Italia.

Gli stereotipi più comuni sulle persone che soffrono di malattie mentali includono la percezione che queste persone siano meno competenti, imprevedibili, poco affidabili. Inoltre, molti manager e consulenti di selezione del personale esitano ad assumere persone con disturbi psicologici (Sawyer & Siegel, 2019). Oltre allo stigma pubblico, le persone con malattie mentali spesso interiorizzano gli stereotipi che vi sono nei confronti della malattia, applicandoli a sé stesse, attraverso un processo che prende il nome di stigma interiorizzato o auto-stigma. 

A fronte dello stigma che gravita attorno alla malattia mentale, le persone con DCA possono trovarsi di fronte al dilemma se rivelare o meno la propria condizione. Per evitare lo stigma, possono scegliere di nascondere queste informazioni sul lavoro con un potenziale impatto negativo sulla creazione di legami professionali autentici (Thomas, 2020). 

Alla luce di questo, la ricerca condotta con i dati raccolti attraverso la piattaforma Lifeed su persone appartenenti alla community di Animenta con DCA, è stato possibile mappare le competenze latenti che a causa di uno stigma sociale spesso non vengono viste e valorizzate sul lavoro. 

L’obiettivo della ricerca è stato rompere stigmi e stereotipi sui disturbi del comportamento alimentare, sensibilizzando il mondo del lavoro e le organizzazioni su una categoria di malattie mentali ancora poco conosciute. Il progetto ha permesso alle persone di scoprire e portare nell’ambito professionale le competenze sviluppate nella loro vita personale, contribuendo così a rafforzare autostima e sicurezza di sé.

Dall’analisi dei risultati è emerso chiaramente che nelle esperienze di vita personale delle partecipanti e dei partecipanti c’è un potenziale enorme di competenze che non viene portato sul lavoro e che le aziende non sanno di avere. Le persone sviluppano più competenze soft nei ruoli personali rispetto ai ruoli professionali con una media di potenziale inespresso superiore al 40%:

  • Il 65% delle persone allena l’ascolto nei ruoli di vita privata mentre solo il 46% utilizza questa competenza in ambito lavorativo, c’è quindi  un 19% di potenziale extra derivante dalle esperienze personali che si può portare sul lavoro. 
  • L’82% delle persone sviluppa l’empatia nella vita personale, con un potenziale extra da attivare sul lavoro del 49%.
  • Collaborazione e comunicazione, cardini del clima in azienda e dei legami con i colleghi, possono incrementarsi fino al 36% attivando queste competenze latenti.
  • Infine, anche la flessibilità ha un potenziale di sviluppo del 17% perché anch’essa viene allenata principalmente nella vita personale.

“Questa ricerca nasce dal desiderio di rivoluzionare il modo in cui le aziende affrontano la salute mentale, promuovendo una cultura inclusiva che valorizzi le esperienze personali come autentiche risorse. Abbiamo voluto far luce su una malattia come i DCA, tanto diffusa quanto ancora poco conosciuta, permettendo a chi vive un disturbo alimentare o qualsiasi difficoltà psicologica di guardare oltre la malattia, riconoscendo il proprio potenziale e rafforzando l’autostima. La nostra ambizione è di trasformare le aziende in luoghi abilitanti, capaci di valorizzare le potenzialità insite nelle esperienze di vita senza stigmatizzare, perchè, come dimostra la ricerca, le esperienze personali arricchiscono persone e organizzazioni di competenze fondamentali.”  – ha dichiarato Benedetta Di Cesare, Research & Innovation Analyst  di Lifeed.

“Crediamo che le organizzazioni possano guidare un cambiamento culturale importante nel modo in cui il mondo del lavoro e la società vedono le persone e la diversità in tutte le sue forme. È tempo di smettere di considerare le esperienze di vita personale – anche quelle più complesse – come ostacoli alla produttività e iniziare a riconoscerle come momenti di crescita che portano con sé nuove competenze. Più lasciamo che uno stereotipo intrappoli una persona, più le impediamo di esprimere il proprio potenziale, che rischia di rimanere latente; a perdere, però, è anche la società, che rischia di non vedere mai tutto il valore che quella persona potrebbe portare. Solo superando queste barriere si possono costruire le fondamenta per un mondo del lavoro più giusto, equo e inclusivo, dove ogni persona ha la possibilità di contribuire al meglio delle proprie capacità” ha affermato Chiara Bacilieri, Head of Innovation di Lifeed.

“Quando si affronta un percorso di cura da una malattia mentale come un DCA ci si chiede spesso cosa ci insegnerà questo percorso e spesso ci si vergogna. Molte volte si ha paura del tempo che si spende a curarsi, ma il tempo investito nella propria salute mentale non è mai tempo perso. Questa ricerca ci ha permesso di capire come ogni percorso che affrontiamo nella nostra vita può aiutarci negli anni successivi e come le competenze latenti di cui diventiamo consapevoli possano essere messe in campo anche nel lavoro”– ha commentato Aurora Caporossi, Founder e Presidente di Animenta.