30 Novembre 2018
“Come posso avere più donne nel management team? Sono trentacinque, tutti uomini”.
Come ho risposto alla domanda di questo imprenditore giapponese durante il mio tour nel paese del Sol Levante per parlare di MAAM. Una trasferta che mi ha visto ospite di prestigiose università e grandi aziende semplicemente entusiaste della portata rivoluzionaria del nostro programma. Nonostante la distanza culturale che ci separa, ho scoperto, invece, che le donne giapponesi sono molto simili a noi, delle alleate naturali verso un cambiamento sempre più necessario. Una natalità ai minimi storici, una percentuale molto bassa di rientri femminili al lavoro e una cultura antica e tradizionalista. Viene definita dal governo giapponese un’emergenza nazionale, ma potrebbe essere un buon momento per cambiare finalmente le regole del gioco e cambiare prospettive sul lavoro.
Ho aperto una finestra su un mondo nuovo, ma che parla lo stesso nostro linguaggio delle emozioni perché la vita è il vero denominatore comune di tutti noi.
Nella stanza ci sono quindici donne (e un uomo): tutte dirigenti di grandi aziende. Il tema del workshop sono gli stereotipi, e io dico: “Alzi la mano chi di voi ha potere”. Si guardano, sorridono imbarazzate, neanche una mano si alza. E’ la prima volta che accade, in anni in cui pongo questa domanda ad aule sempre diverse. Sono in Giappone, e per la prima volta capisco che, nonostante le similarità numeriche in termini di occupazione e presenza – o dovrei dire “assenza” – nelle posizioni decisionali di economia e politica, le donne giapponesi stanno anche peggio delle Italiane.
E allora provo a vedere se funziona anche qui, a Tokyo, il meccanismo di “empowerment” che ho sperimentato tante volte con altre donne in Italia e in Europa, e dico: “Alzi la mano chi di voi ha responsabilità”. La alzano tutte, e di nuovo sorridono. Questa volta però è un sorriso liberatorio: hanno già capito. Non serve che lo dica, ma lo dico lo stesso: “Non potete avere aree di responsabilità se in quelle stesse aree non avete potere”.
Eppure è tipico delle donne: non collegare potere e responsabilità, e pensare di avere la seconda ma non il primo. Mentre è abbastanza tipico del modello di potere prevalente l’esatto contrario: molte persone di potere non collegano ad esso la responsabilità.
Infine domando di nuovo di alzare la mano se pensano di avere potere, e questa volta la alzano tutte. Quindi funziona anche in Giappone, potrei quasi dire che è un principio universale: le donne accettano più facilmente un’idea di potere se è collegata chiaramente al concetto di responsabilità. Delle donne giapponesi sto scoprendo molto in questo viaggio, iniziato appena tre giorni fa, ma che mi sta facendo incontrare aziende, studenti, media. Intanto ora so che sono molto simili a noi: delle alleate naturali verso un cambiamento sempre più necessario. In Giappone il 60% delle donne non torna a lavorare dopo la maternità e la natalità è ai minimi storici. E’ considerata un’emergenza nazionale: la definizione è roboante, le misure messe in campo dal Governo quasi invisibili. Le aziende, come spesso accade, reagiscono più velocemente: i meccanismi del mercato non perdonano chi resta indietro, ed è ormai abbastanza chiaro che non avere donne nel mix decisionale equivale a perdere competitività. Anche solo perché parliamo dell’unico caso di minoranza maggioritaria esistente al mondo.
Ho capito anche che le Giapponesi sono forse più arrabbiate di noi. Perché in definitiva rinchiuse in una cultura ancora più antica, ancora più chiaramente tradizionalista e superata, che rende difficile anche godersi la maternità, oltre a lavorare. Alle mie quindici “alunne” alla fine del workshop brillavano gli occhi. Forse è più facile accettare che le formule per attivare il cambiamento arrivino da molto lontano, o forse è proprio necessario che sia così.
Poco dopo il workshop parlavo infatti con un imprenditore giapponese di seconda generazione, venuto apposta per incontrarmi e chiedermi
“Come posso avere più donne nel management team? Sono trentacinque, tutti uomini”.
A lui ho risposto come non ho mai il coraggio di fare “in casa”: “se veramente vuoi che il tavolo sia occupato anche da donne, devi cambiare le abitudini di tutti. Le tue per primo. Se non vuoi donne che siano uguali agli uomini, dovrai prepararti a richieste diverse, incentivi diversi per spingerle a lavorare con te. Una bella automobile, per esempio, potrebbe non funzionare. Le donne preferiscono avere il benefit del tempo, della flessibilità. Le donne sono diverse (anche i giovani lo sono!) e daranno una scossa a tutto: sei sicuro che sia quello che vuoi?”
Ascoltava con attenzione: suo padre è il capo dell’azienda, si ritirerà tra due-tre anni. Lui vuole cambiare molto, e le donne possono essere le sue migliori alleate. La distanza tra l’Italia e il Giappone (otto ore di fuso orario, dodici di aereo) ha forse consentito a lui di fare domande più audaci e a me di dare risposte più coraggiose di quanto ognuno di noi avrebbe accettato dai propri connazionali. E’ così anche con le donne che incontro: meno diffidenza di quanta spesso ne abbiamo tra noi Italiane, più immediata la voglia di alleanze. Forse proprio perché così diverse in apparenza a e così simili nella sostanza.
Riccarda Zezza, articolo scritto per Alley Oop