15 Maggio 2019
Il tasso di occupazione femminile in Italia ha raggiunto il 49%, record positivo storico per il nostro Paese. Eppure ci troviamo ancora ben lontani dalla media europea, che si aggira intorno al 60%, e ci posiziona penultimi in Europa, primi solo alla Grecia.
Osservando più a fondo i dati, si scopre che il 30% delle donne lascia il proprio lavoro dopo la nascita di un figlio, dato che peggiora ulteriormente con l’arrivo del secondo figlio. La fonte del problema non è certamente da imputare alla carenza di talenti femminili sul lavoro (secondo il rapporto Global Gender Gap del World Economic Forum, siamo, infatti, primi al mondo per numero di donne iscritte all’università e il 60% dei laureati con lode nel nostro Paese è donna), piuttosto alla mancanza di un welfare adeguato capace di sostenere le esigenze delle famiglie, caricando ancora quasi esclusivamente sulle donne i principali problemi e impegni legati alla cura e alla gestione della famiglia. Lo dimostra il fatto che il 40,9% delle donne con figli lavora part-time, percentuale che non supera il 10% se consideriamo gli uomini.
Della condizione delle donne nel mondo del lavoro e dei tanti vantaggi che una maggiore presenza femminile potrebbe portare all’economia e alla società nel suo complesso si è parlato lo scorso 9 maggio durante il convegno “La rivoluzione gentile: perché il mondo del lavoro ha bisogno delle donne” organizzato da ESTE Edizioni e condotto da Chiara Lupi, Direttore Editoriale della casa editrice, a cui è intervenuta anche Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value.
“Cosa c’entrano le donne con il potere?” è il titolo dell’intervento di Riccarda Zezza, che ha messo in luce come in millenni di storia ed evoluzione della specie umana, gli uomini abbiano creato le regole e forgiato il concetto di potere, dalla politica, all’economia. “Solo recentemente è stato riconosciuto il valore economico della Diversity e le donne sono state chiamate a giocare il proprio ruolo anche negli ambiti del potere, ma con un limite: adattarsi alle regole vigenti, ai modelli comportamentali e di leadership costruiti negli anni, che appartengono alla sfera maschile” spiega Zezza.
Ecco perché il mondo del lavoro in primis non è ancora pronto ad accettare la disomogeneità che l’ingresso delle donne nelle aziende ha portato, prima fra tutte la gestione dell’assenza durante il congedo di maternità e la successiva necessità di una migliore gestione di vita e lavoro.
“L’opportunità che abbiamo oggi tra le mani è potente: abbiamo la possibilità di cambiare l’evoluzione della nostra specie, cambiare i valori, invece che farci cambiare da loro, abbiamo la responsabilità di portare le nostre logiche di potere, perché funzionano! Non si tratta di aiutare le donne, ma di aiutare il mondo attraverso le donne”.
È questo il punto di vista che ha introdotto Riccarda Zezza e che ha innescato le riflessioni durante la successiva tavola rotonda a cui hanno preso parte anche Elena Barazzetta, Ricercatrice di Percorsi di Secondo Welfare e autrice del libro Genitori al lavoro. Il lavoro dei Genitori, ed Enrico Gambardella, HR Director di AVIVA, a cui è seguito un vivace confronto con il pubblico presente in sala.
Le donne e, in generale, i caregiver sono manager e leader migliori, poiché hanno le giuste qualità – empatia, flessibilità, capacità di far fronte con calma a situazioni di forte stress, di creare alleanze e aiutarsi reciprocamente. Eppure i caregiver sono tutt’oggi penalizzati nel mondo del lavoro. Proprio nel momento in cui diventano caregiver, le donne escono dal mondo del lavoro poiché quella è la fase in cui l’equilibrio vita-lavoro comincia a vacillare. Una perdita di talenti e di opportunità enorme.
“Il tema della conciliazione riguarda la società tutta, non è solo ristretto alla popolazione femminile, a partire dai contesti famigliari, culturali, politici e aziendali. Benchè il cambio di paradigma debba avvenire in primo luogo all’interno delle mura domestiche, attraverso un migliore bilanciamento dei compiti tra uomini e donne, la società tutta e il mondo dell’economia non devono certo sottostimare questo tema” – spiega Elena Barazzetta. “Il tema della conciliazione e la disoccupazione femminile impattano notevolmente anche sul PIL. Secondo i dati della Banca d’Italia, se avessimo gli stessi livelli di occupazione femminile dell’Europa, il nostro PIL aumenterebbe del 7%”.
A ciò, va considerata la situazione demografica tipica del nostro Paese. L’Italia è un Paese a crescita negativa, il calo demografico è ormai una tendenza inesorabile, con cui avremmo già dovuto fare i conti diversi anni fa. Continua Barazzetta: “Citando il professor Alessandro Rosina, noto demografo che di recente ha pubblicato il suo nuovo libro Il futuro non invecchia, prima o poi il livello di demografia andrà stabilizzandosi, questo porterà la società a cambiare solo sull’indicatore dell’età media, saremo una società sempre più vecchia. Aumenterà, però, la qualità della vita e i sessantenni di domani avranno più abilità e capacità di sostare in una società sempre più dinamica”.
Ciò aprirà (o meglio: sta già aprendo) sfide e scenari nuovi: un aumento della popolazione “anziana” lavoratrice e la necessità sempre più forte di conciliare gli impegni professionali con le esigenze famigliari, soprattutto in risposta ai maggiori carichi di cura dei figli o dei genitori più anziani a cui i lavoratori dovranno dedicarsi durante il tempo famigliare.
“Le aziende sono degli attori importantissimi in tutto questo” – riprende Riccarda Zezza. “Venendo meno il ruolo dell’attore pubblico, è l’economia che sta guidando i principali cambiamenti in atto, offrendo risposte concrete alle nuove esigenze delle persone. Le aziende sono i nuovi attori culturali, politici, sociali. E questo è un aspetto positivo: le aziende si muovono con efficienza ed efficacia, quando le soluzioni individuate rispondono a queste logiche, è possibile metterle a sistema e scalarle”. Sono numerosi i casi di soluzioni di conciliazione win-win per aziende e dipendenti.
La maternità è solo il primo di una serie di fenomeni che sono già entrati nel mondo del lavoro: il 73% dei dipendenti di un’azienda prima o poi nella vita presta cura a qualcuno, è un caregiver. Ogni lavoratore ha o potrà avere l’esigenza di conciliare vita-lavoro, non solo le mamme. Quando ciò non accade, la produttività cala, il livello di vicinanza e ingaggio con il lavoro diminuisce, lo stress sale. “Le aziende devono poter contare sul benessere dei propri dipendenti, perché ne guadagnano in produttività, in innovazione” – continua Zezza. “Se le persone stanno bene, se vedono la coerenza con chi sono, se hanno la possibilità di portare la propria autenticità in azienda, lavorano meglio e producono di più. E non c’è alternativa: siamo arrivati al punto che le aziende devono urgentemente occuparsi anche di questi temi”.
Le aziende devono poter contare sul benessere dei propri dipendenti, perché ne guadagnano in produttività, in innovazione. Se le persone stanno bene, se vedono la coerenza con chi sono, se hanno la possibilità di portare la propria autenticità in azienda, lavorano meglio e producono di più. E non c’è alternativa: siamo arrivati al punto che le aziende devono urgentemente occuparsi anche di questi temi.
Riccarda Zezza
“Cambia la prospettiva: se fino a poco tempo fa non si faceva entrare il privato in azienda, oggi vogliamo essere quanto possibili autentici, perché ciò ci mette nelle condizioni di esprimere in pieno tutti i nostri talenti”, riassume Chiara Lupi.
Enrico Gambardella, HR Director di AVIVA, azienda con progetti di gestione delle persone molto all’avanguardia: “Concordo che la logica economica delle aziende sia un importante agente del cambiamento. Si parla, ad esempio da tanti anni di smartworking, ma questa pratica non ha avuto successo fino a quando non si è calcolato che eliminare gli uffici dava circa 4-500 mila euro di risparmio. Le persone hanno cominciato a lavorare da casa e ne sono state felici. Il punto di partenza delle aziende non è la felicità dei propri dipendenti, ma il ritorno economico. Ecco perchè dobbiamo continuare a spiegare alle aziende che Diversity & Inclusion, la gender equality, producono risultati economici. Solo così possiamo continuare ad alimentare questa prospettiva”.
D’accordo con questo approccio, Barazzetta sottolinea: “L’azienda è sempre più un soggetto di secondo welfare, in soccorso di ciò che il primo welfare non è più in grado di sostenere, un interlocutore che mette in campo iniziative inedite che spesso il primo welfare non è grado di gestire. Di certo non si convincono le aziende a prendersi a cuore questi temi con un approccio filantropico, bisogna far leva su tutti gli elementi che generano produttività”.
“Il punto di partenza delle aziende non è la felicità dei propri dipendenti, ma il ritorno economico. Ecco perchè dobbiamo continuare a spiegare alle aziende che Diversity & Inclusion, la gender equality, producono risultati economici. Solo così possiamo continuare ad alimentare questa prospettiva” spiega Enrico Gambardella.
Le risorse per rendere possibile il cambiamento sono già dentro le aziende
MAAM è un esempio concreto. Aziende, già sensibili a questi temi, hanno scoperto come accogliere “la vita” dei propri dipendenti all’interno dei propri contesti possa agevolare il loro benessere, riducendo stress e conseguenti cali di produttività, migliorando l’ingaggio. Ma le aziende posso certamente creare le circostanze migliori, tuttavia sono le persone che hanno la responsabilità di cambiare le regole, sono le storie delle singole persone che possono cambiare la cultura.
Proprio a conferma di ciò, una voce si alza dal pubblico per portare un’appassionata riflessione su quanto detto finora: “Sono una mamma atipica, non ho figli biologici ma mi prendo cura dei figli di altri che non sono in grado di gestirli, sono una mamma affidataria. L’esperienza dell’affido mi ha fatto capire che avevo sviluppato negli anni un modello di leadership completamente maschile. Ho sempre lavorato nell’ambito dell’Information Technology, un ambiente prettamente maschile. Ho vissuto in azienda situazioni molto spiacevoli di discriminazione di genere con i miei colleghi, pertanto l’unico modo di giocare la mia partita in azienda era adeguarmi alle regole vigenti. Tre anni fa, con il primo bambino che ho avuto in affido, mi sono ritrovata in una situazione critica, il mio modo di rapportarmi a lui era come quello che adottavo in azienda. A quel punto mi sono fermata a riflettere e ho capito che nonostante gli ottimi risultati che ottenevo sul lavoro, non ero felice. Ma lo diventavo quando tornavo a casa, seppur con le difficoltà nel gestire ragazze adolescenti. Ho cambiato così modo di rapportarmi a casa e pian piano l’ho esteso anche in ambito lavorativo. È un modo che mi fa sentire tranquilla, è un modello che mi consente di portare il mio essere donna in azienda”.
È dopo questo racconto che Riccarda Zezza conclude: “Quando vuoi cambiare qualcosa, devi iniziare con le persone che sono già alleate in maniera naturale. Perché se un cambiamento così grande cerchi di farlo attaccando i più difficili, non ce la farai. Dobbiamo creare una crescente massa critica di persone e aziende che sono già pronte, per poi cambiare la storia che si sta narrando”.