Le aziende sono sempre più attive nella promozione di iniziative di Diversity&Inclusion, che hanno benefici sia per le singole persone sia per il business delle imprese stesse. Ma, per una volta, ci si può soffermare sull’etimologia della parola “inclusione” e riflettere su di essa.
“Inclusione” rimanda alla chiusura dentro uno spazio predefinito. Oggi però, soprattutto a causa degli effetti della pandemia sulle nostre vite, è evidente l’ampiezza delle nostre dimensioni identitarie. Questa multidimensionalità ha abbattuto i confini spazio-temporali e i muri di uffici e case nel periodo di lavoro da remoto ed è ormai realtà: per questo motivo, è il momento di provare a sostituire la parola “inclusione” con “apertura”.
Attraverso la scoperta e il racconto agli altri di sé, e rompendo i tabù del passato, le persone diventano più consapevoli delle proprie dimensioni identitarie e tratti caratteriali. Questo le rende più bravi sul lavoro, oltre che ingaggiate e felici. E le aziende possono avere a disposizione mappe più ampie riguardo alle loro persone. Solo allargando lo sguardo a ciò che è diverso e complesso, infatti, le imprese possono beneficiare di questa “apertura” sia a livello individuale sia di performance collettiva.
Lo ha raccontato Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nel corso della tavola rotonda Organizzazioni per le persone o persone per le organizzazioni? nell’ambito del 50esimo Congresso Nazionale di Aidp, a cui hanno partecipato anche Michele Viale, Direttore Generale di Alstom Italia e Svizzera, Marco Piccolo CEO di Reynaldi, Delegato CSR Confindustria Piemonte ed Elena Caffarena Senior Partner di Praxi.
Dal confronto è emerso inoltre come, oggi più che mai, ci sia una forte convergenza di interessi tra persone e aziende. Per questo, non bisognerebbe mettere in antitesi le architetture organizzative e le persone che ne fanno parte. Proprio facendo emergere le differenze delle persone (e cambiando il nostro comportamento in relazione al nostro interlocutore) è possibile ottenere migliori risultati.
D’altra parte, il modello taylorista non ha più senso nella nostra società. Il tempo di lavoro va valorizzato in relazione al tempo di vita e le aziende sono chiamate ad avere una vocazione di responsabilità verso il proprio territorio, supportando le persone e guardandole nella loro interezza, oltre ai ruoli lavorativi. In una parola: con umanità.
La pandemia ha accelerato l’evoluzione dei modelli organizzativi attraverso tre spinte principali: digitalizzazione, sostenibilità, potere dei consumatori e dei giovani talenti sulle scelte e le azioni delle aziende. In questa fase di svolta, al centro dell’attenzione delle aziende ci sono dimensioni ‘nuove’ come benessere, fiducia, collaborazione, rispetto, leadership diffusa e scopo condiviso, sulla scia del modello d’impresa olivettiano.
Fu proprio Adriano Olivetti a sostenere che la vita delle persone dovesse entrare maggiormente nella fabbrica. “Oggi viviamo ancora un paradosso nel mondo del lavoro, che vede le persone divise tra vita privata e attività professionale, ma abbiamo l’occasione di estendere le mappe delle aziende per comprendere al loro interno le nostre vite”, ha spiegato Riccarda Zezza CEO di Lifeed nell’ambito dell’incontro Organizzazioni per le persone o Persone per le organizzazioni? del 50esimo Congresso Nazionale Aidp, in cui ha dialogato con Isaac Getz, professore alla ESCP Business School, saggista e tra i protagonisti del movimento globale di liberazione aziendale.
Non dovrebbe essere strano parlare di aziende altruiste oggi, ma fino all’inizio della pandemia e del remote working forzato la vita delle persone è stata lasciata fuori dagli uffici. “Solo adesso la complessità delle nostre vite (che in realtà era già esistente) è diventata visibile”, ha sottolineato Riccarda Zezza. “In passato ci sembrava ovvio ‘conciliare’ vita e lavoro, ma prenderci cura degli altri fa parte della nostra natura umana, è un istinto primario della nostra specie che fa emergere in noi responsabilità e ci rende agenti del cambiamento”.
Le aziende ‘egoiste’ lasciano tutto questo fuori dai loro ‘recinti’. Ma le risorse delle persone sono già presenti all’interno delle imprese. “Per scardinare le vecchie cornici, il movimento da fare non è aggiungere nuove forme alle persone in direzione top-down, bensì dare spazio alle loro dimensioni identitarie. Portando la vita nel lavoro, dunque, è possibile costruire economie e società altruiste”.
Come può tradursi tutto questo, concretamente, nelle aziende oggi? Secondo Isaac Getz, le imprese altruiste hanno tre caratteristiche principali: “Si prendono cura di tutti i membri dell’ecosistema di business, agiscono in modo incondizionato e lo fanno attraverso tutti i loro processi di core business. Così raggiungono performance economiche elevate”. Con le loro azioni etiche nei confronti degli stakeholder, puntando sulla sostenibilità e su valori umani, queste imprese ottengono risultati di business positivi.
D’altra parte, secondo recenti studi, oggi l’87% dei Millennials crede che il successo di un’azienda non sia misurabile solo in termini finanziari e l’89% dei consumatori sarebbe disposto a lasciare un brand per un altro con una missione sociale.
Focalizzarsi sul valore sociale è dunque la chiave. “Persone, clienti, fornitori, comunità: il mix di questi ‘ingredienti’ porta alla ‘ciliegina sulla torta’, cioè il risultato economico, che è una conseguenza dell’approccio basato sulla cura del proprio ecosistema di business”.
I manager e i Direttori HR, secondo Getz, sono chiamati a cambiare le organizzazioni abbandonando l’approccio top-down e il proprio ego, abbracciando invece la visione altruista attraverso la spinta ai processi di core business con un valore sociale per i propri clienti, fornitori e comunità in cui operano, migliorando la vita degli ‘abitanti’ del loro ecosistema.