Avete presente tutto quello che sapevate sui valori della vostra azienda, sugli obiettivi, sul clima e sulle relazioni interne ed esterne? Se non lo avete già fatto durante la pandemia, allora proviamo a metterlo in discussione proprio adesso.
Ogni azione che viene messa in atto ora avrà probabilmente un impatto determinante sul presente e sul futuro dell’azienda. Quando l’emergenza sarà finita, le persone ricorderanno tutto ciò che l’impresa ha saputo o non ha saputo gestire sul piano organizzativo, culturale, sociale, sanitario. Pensate all’11 settembre 2001. Dove eravate, con chi, cosa stavate facendo nel momento in cui avete appreso la notizia dell’attentato terroristico? Potremmo scommettere che ce lo ricordiamo tutti perfettamente. La nostra mente funziona così: il trauma fissa in essa anche tutto il contesto. La pandemia che ci siamo inaspettatamente trovati ad affrontare, come ogni crisi, ha portato ad una transizione da cui non è più possibile tornare indietro. Tutto quello che ci dava sicurezza, come le relazioni tra i colleghi, la modalità di gestione del personale, i comportamenti dei manager, sono inevitabilmente cambiati. L’emergenza sanitaria ci ha richiesto un rapidissimo mutamento di abitudini: è dimostrato che le realtà con una cultura aziendale ben definita e radicata hanno attutito meglio il colpo.
Ma la crisi obbliga comunque ad uscire dalla propria zona di comfort. Non a caso, il cambiamento spesso viene associato al lutto, dal momento che richiede le stesse risorse per essere elaborato. Se esso, poi, è collettivo, occorre compiere lo sforzo di trovare una strada comune per affrontarlo. Il primo passo è senz’altro comunicativo: sapere che anche gli altri vivono le nostre stesse difficoltà ci aiuta a sentirci meno soli. Sappiamo bene che, ora, la salute dei collaboratori è la priorità. Prendersi cura di sé e degli altri diventa un elemento chiave nella quotidianità aziendale. Ciò non comprende solo lo stato di salute fisica, ma anche quella emotiva. Ansia, stress, disturbi del sonno, difficoltà cognitive sono purtroppo diventati sintomi di un malessere che colpisce forse più del Covid-19.
Nella “fase 1” tante aziende si sono preoccupate in primo luogo del benessere fisico ed economico dei propri dipendenti. Lo sforzo è stato concentrato sul “qui ed ora”: misure di sicurezza, sanificazione degli ambienti, attivazione, ove possibile, del lavoro a distanza, garanzie economiche. È stato tutto talmente improvviso e inaspettato che difficilmente qualcuno avrebbe potuto opporsi alle decisioni. La “fase 2”, però, ha visto aumentare i bisogni e le richieste. Essa ci ha mostrato come l’emergenza si sarebbe protratta a tempo indeterminato. Ci siamo resi conto che alcuni settori continuavano a crescere, altri erano in forte crisi. Abbiamo capito che le scuole sarebbero rimaste chiuse, che lavorare da casa era possibile, che ridurre gli spostamenti ha giovato al tempo per sé e per la famiglia, ma anche all’ambiente.
Abbiamo cominciato a contare meno vittime e, quindi, a scovare qualche aspetto positivo della nuova condizione. L’essere umano è per natura estremamente adattabile alle circostanze: in fondo, è pur sempre un animale, che rientra in un contesto biologicamente evolutivo.
Si sono fatte strada nuove consapevolezze, quelle di chi si sente un po’ un “sopravvissuto”: la leadership, per prima, è stata chiamata ad un cambiamento. I papà e le mamme, per i figli, incarnano “il supereroe”. La stessa cosa accade in azienda nei confronti del leader. Ma di fronte ad un’emergenza sanitaria, non tutti abbiamo la vocazione all’eroismo. Anche perché, a volte, sfocia in avventatezza. La via di mezzo è il coraggio, quel sano atteggiamento di consapevolezza dei rischi, ma anche degli strumenti per superarli in sicurezza. Allora, in questo momento, è più che mai vero che il leader deve agire nell’ottica del “buon padre di famiglia”, come dice addirittura il principio che ispira le nostre leggi civili. Quell’atteggiamento di tutela e, insieme, di apertura e rassicurazione che abbiamo avuto coi nostri figli in questo periodo è senz’altro una competenza trasversale che fa bene anche all’azienda.
La crisi ha enfatizzato alcuni aspetti della cultura aziendale più legati all’impatto sulla società. Un esempio sono i nuovi spot pubblicitari girati in questo periodo: molti mettono l’accento sulla costruzione di una “nuova umanità”. Saremo davvero persone migliori? Difficile a dirsi ora, anche se è auspicabile. Di certo, ci auguriamo che le aziende non torneranno indietro rispetto ai comportamenti virtuosi attuati. Dallo smart working alla digitalizzazione, dal sostegno alle famiglie sino alla sicurezza dei luoghi di lavoro, dalla comunicazione alla condivisione di strategie, si sono compiuti passi enormi a cui, d’ora in poi, difficilmente le persone vorranno rinunciare.
Analizzate queste situazioni, ora bisogna affrontare la “fase 3”. Come si fa a non disperdere tutto questo? Nessuna rivoluzione acquisisce un senso se non la si governa e non si mettono a frutto gli insegnamenti. Siamo certi che la pandemia avrà messo in evidenza talenti inaspettati, nuove competenze trasversali, capacità finora non considerate utili sul luogo di lavoro. Ma nella “fase 3” non c’è più spazio per l’improvvisazione: è il tempo dell’organizzazione. Ci sono aziende che hanno vissuto l’euforia di sentirsi un po’ eroiche: pensiamo a quelle che hanno convertito la produzione o che già prima producevano mascherine, respiratori, medicinali, presidi sanitari e di sicurezza. Al contrario, pensiamo a chi ha perso ogni motivazione per andare avanti: operatori del turismo, dei servizi, che si sono trovati a dover ricorrere agli ammortizzatori sociali, che hanno davanti a sé una lunga salita prima di ritornare ad una parvenza di normalità. Situazioni opposte che rischiano di implodere, per motivi del tutto diversi. Per i dipendenti, è il momento di rivedere obiettivi, engagement, retention, prassi organizzative. Come?
I dati emersi dalla survey che abbiamo sottoposto a circa 1.500 lavoratori e lavoratrici parlano chiaro: il 69% delle persone si aspetta che, per favorire il rientro, la propria azienda dia spazio ai pensieri e agli stati d’animo delle persone. Il 62% dichiara di provare preoccupazione all’idea di “tornare alla normalità”, perché il futuro sembra ancora incerto. Il 68% ritiene fondamentale la dote di ascolto nel proprio manager.
Il programma digitale Lifeed Crisi è in grado di sostenere le aziende nella delicata fase di ripresa. Grazie ai moduli formativi esso permette ai partecipanti non solo di elaborare la crisi, ma anche di interrogarsi sulle life skill che ha fatto emergere. Raggiunta la consapevolezza, grazie a un diario individuale che tiene il passo della formazione vera e propria, si possono condividere idee, sensazioni e stati d’animo in una stanza comune di discussione. Una nuova visione, una rinnovata cultura aziendale possono così andare costruendosi proprio a partire da ciò che i collaboratori esprimono. Ammettere, ad esempio, la paura per il futuro e poi condividerla è il passo per superarla. Le emozioni negative, se non affrontate ed elaborate, possono diffondersi in azienda proprio al pari del virus.
Lifeed Crisi consente di affrontare il cambiamento: mette tutta la popolazione aziendale in condizione di acquisire consapevolezza delle nuove competenze chiave allenate durante la crisi e di co-progettare un processo di rinnovamento della cultura aziendale. Ogni collaboratore si trova al centro e si trasforma in motore di cambiamento. Il percorso formativo è basato sul Life Based Learning: nella transizione le persone tirano fuori competenze ed energie inaspettate e le aziende hanno l’opportunità di migliorare i processi e di innovare. Esso, inoltre, favorisce la riduzione dello stress: le persone si raccontano, condividono e mettono a fuoco paure, incertezze e desideri, trovando nuovi punti di riferimento dentro di sé. Ogni modulo si conclude con l’invito a contribuire alla “narrazione collettiva” insieme ai colleghi, per confrontarsi e arricchirsi reciprocamente, generare contenuti per l’azienda, a partire dai propri bisogni, riflessioni, idee. I partecipanti diventano così anche “autori” del cambiamento, per restituire valore alla propria azienda: se la pandemia ci ha insegnato una cosa, è che “nessuno si salva da solo”.
Se Vasco Rossi si fosse ispirato all’esperienza lavorativa dei nostri nonni, forse anche a quella dei nostri genitori, probabilmente non avrebbe scritto “Vita spericolata”, quanto piuttosto “Vita prudente”. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno conosciuto senz’altro momenti storici difficili, ma la professione, almeno quella, era una certezza. Esisteva il “mito del posto fisso”, quello che, ormai, si studia sui libri di scuola, a cavallo tra la storia e la letteratura. Le tappe della vita erano ben definite, l’approdo al contratto a tempo indeterminato segnava un engagement definitivo. Se avessimo raccontato loro della letteratura scientifica che esiste oggi su questo tema, probabilmente avrebbero sorriso. Eppure, non è affatto scontato che fossero più appagati e realizzati delle nuove generazioni. Oggi le transizioni lavorative sono fisiologiche: anche chi segue un iter tutto sommato lineare, molto difficilmente potrà esimersi dallo sperimentare almeno qualche tirocinio, un contratto di apprendistato, collaborazioni esterne, per poi approdare ad una certa stabilità contrattuale, ma, anche in questo caso, non escludendo diversi cambi di azienda.
Pier Giovanni Bresciani, Docente di Psicologia del Lavoro presso l’Università di Urbino e Presidente della SIPLO – Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, che è uno dei massimi esperti di transizioni in Italia, nei suoi testi fondamentali (cfr. ad es. Biografie in transizione. I progetti lavorativi all’epoca della flessibilità. Franco Angeli, Milano, 2006) osserva giustamente come queste transizioni lavorative avvengano oggi in un contesto sociale molto più “liquido”, per dirla con Bauman. L’incertezza soggettiva, data da una società che ha abdicato al proprio ruolo di accompagnamento alla crescita dell’individuo, difficilmente viene sostenuta dalle contromisure messe in atto nel mondo della formazione e del lavoro. Come fa notare Bresciani, per affrontare la transizione le persone utilizzano e mescolano elementi diversi, che fanno parte della propria dotazione individuale di risorse. Ecco perché ogni cambiamento, anche se positivo, è comunque un momento delicato nella vita. Ogni ‘spostamento’ richiede sempre al soggetto una ridefinizione cognitiva, a volte anche molto complessa: essa evoca sempre ansie, paure, insicurezze, ci pone di fronte alle nostre scelte e al giudizio che abbiamo su noi stessi, ma anche a quello degli altri (o al timore di quello che gli altri vedono in noi). Lasciare il noto per l’ignoto comporta emozioni complesse, la cui elaborazione richiede risorse personali importanti.
Pensiamo alla maternità e alla paternità. Questo è forse il più grande e significativo cambiamento di vita che una persona può vivere. Ebbene, anche la maternità e la paternità sono delle transizioni e per noi, proprio per questo, sono anche delle palestre di efficacia professionale. Qualunque sia il nostro ruolo in azienda, quello che apprendiamo diventando genitori può essere messo a frutto anche sul lavoro. Quasi inevitabilmente il genitore aumenterà la propria capacità di ascolto, di mediazione, di comprensione dei colleghi e collaboratori. Il modello di leadership, di gestione del conflitto, persino quello della gestione del proprio tempo (e, di conseguenza, la produttività) possono cambiare positivamente, se guidati ed accompagnati a riconoscere le abilità che la transizione ha portato con sé.
Pensiamo, più in generale, a quella che definiamo “la nostra esperienza”. È quella che descriviamo sul curriculum, ma anche quella che avanziamo come argomento di conversazione, o per consigliare qualcuno. “Secondo la mia esperienza” è di solito l’incipit che fa sì che il nostro interlocutore difficilmente possa eccepire o ribattere: è un argomento quasi assoluto, insindacabile, perché presenta un aspetto di sé come un fatto, non come opinione. Ma quella condizione di vita che definiamo esperienza la costruiamo proprio transizione dopo transizione. La difficoltà consiste nell’affrontarla, elaborarla, metterla a frutto, anche sul lavoro, perché questo importante bagaglio personale porta con sé l’acquisizione di competenze. Difficilmente, tuttavia, le cosiddette life skills, o anche le soft skills, possono essere riconosciute e trasformate in un punto di forza in autonomia. Non è la scuola che ci insegna a metterle in pratica, nemmeno l’Università. Con Lifeed, la formazione tra digitale e vita reale che valorizza le esperienze di vita e le rende risorse preziose per l’attività lavorativa, abbiamo pensato e strutturato addirittura un master (anzi, più di uno) per apprendere l’enorme potenziale di sviluppo che la transizione porta con sé. Con cinque anni di esperienza alle spalle, sappiamo che le persone che attraversano una transizione possono uscire più deboli o molto più forti: dipende da come la attraversano.
L’esempio che abbiamo fatto (diventare genitori) è riferito ad una cosa bella. Ma non tutte le transizioni derivano da un evento positivo. Pensiamo all’emergenza sanitaria data dal Covid-19. Essa ha portato cambiamenti, in noi e nel mondo del lavoro, da cui sarà difficile tornare indietro. Eppure, anche questa transizione non è positiva o negativa in sé. Dipende da come la si vive. Lifeed Transitions vuole aiutare le aziende e i loro dipendenti a ricavare i frutti positivi di questa esperienza. Rischi ed opportunità sono due facce della medaglia che il destino ha lanciato in aria, ma noi abbiamo la possibilità di condizionare il lato su cui la moneta cadrà. L’uomo è animale sociale: questo lavoro non può essere solo interiore. Deve coinvolgere il contesto in cui siamo inseriti.
Ecco perché Lifeed Transitions permette non solo di apprendere la gestione di questa transizione e farla diventare motivo di crescita personale, ma anche di porla come terreno di confronto e crescita del team. I partecipanti, “dal basso” possono contribuire alla (ri)costruzione di una nuova cultura aziendale, che parta dal riconoscimento e dalla applicazione delle nuove competenze apprese dal singolo. In questo modo, la medaglia cadrà sulla faccia giusta, quella delle opportunità: lo psicologo e politico David Halpern parla di “crescita postraumatica” in contrapposizione alla sindrome da stress postraumatico. Questo esempio ci aiuta a capire come un evento doloroso, cui tendenzialmente assoceremmo esiti negativi, grazie ad un supporto idoneo e competente può non solo essere superato senza traumi, ma addirittura portare ad un miglioramento. Il momento della crisi è un guado: la struttura giusta può aiutarci a superarlo indenne.
Il Bridges’ Transition Model insegna a riconoscere gli stati d’animo che affrontiamo durante la transizione: la fine di qualcosa porta ad essere sotto shock, spaventati, arrabbiati. Ne consegue un disorientamento, una confusione mentale, uno stato di frustrazione o addirittura di apatia. Se abbiamo gli strumenti adatti, possiamo trasformare queste sensazioni negative in un nuovo inizio. Se, al contrario, non è gestita, la transizione può avere ripercussioni molto negative, anche sul benessere dell’azienda. Se non si abilitano nuovi linguaggi, non si esplicita la rottura dei vecchi stereotipi e non si fa spazio all’incertezza e al bisogno delle persone di esprimersi, la ricaduta potrebbe essere un aumento dello stress dalla durata molto lunga e una perdita di senso per molte persone.
Non sono gli individui più forti o più intelligenti a sopravvivere alla crisi, ma coloro che sono capaci di adattarsi al cambiamento. Perché questo avvenga, è necessario capire a fondo i mutamenti cui siamo andati incontro, le competenze che abbiamo sviluppato per affrontarli e comprendere come possono essere applicate con successo nel nostro contesto lavorativo. È solo quando abbiamo attraversato il guado che, un po’ increduli, ci chiediamo come abbiamo fatto ad arrivare indenni dall’altra parte. Allora, dobbiamo guardarci indietro per capire il passato, anche gli errori. Il presente, infatti, serve proprio a rimediare ed essi. Il passato non va visto in ottica profetica: quello che è successo non è destinato a ripetersi, se abbiamo imparato come evitarlo. Lo sguardo al futuro deve rendere generativi gli apprendimenti che ci hanno permesso il passaggio. Creatività, intraprendenza, apertura mentale, gestione del cambiamento, visione: sono queste le capacità che i partecipanti ad una nostra survey si sono attribuiti, mentre attraversavano l’emergenza sanitaria. Si tratta di skills importanti, che possono essere applicate con successo al lavoro.
Il master Lifeed Transitions accompagna non solo nella fase del riconoscimento, grazie allo strumento della narrazione di sé, ma aiuta a condividere in “stanze virtuali” le proprie sensazioni: “nessuno si salva da solo” è un primo, grande apprendimento che ci ha lasciato in eredità il Covid-19. Scoprendo le proprie risorse si può attraversare quel ponte sospeso tra l’incertezza e l’autonomia (If You’re Burning Out, Carve a New Path, Harvard Business Review April 2020), agendo per controbilanciare il “carico allostatico” e lo stress dati dalla crisi. Il termine “allostasi” venne coniato nel 1988 da Peter Sterling e Joseph Eyer (dal greco ‘allo’, che significa variabile e ‘stasis’ che significa stabile), per indicare che la stabilità dell’organismo è il risultato del cambiamento. Questo modello si può definire predittivo, perché cerca di anticipare le domande dell’ambiente agendo sempre sugli stessi sistemi dell’organismo. È alla base, quindi, di un concetto oggi molto utilizzato, quello della ‘resilienza’: anche tale capacità si può apprendere ed allenare, per diventare protagonisti, non spettatori della nostra storia. Non è da confondersi con la resistenza: questa è la semplice presa d’atto delle proprie cicatrici, nonostante le quali proseguire il cammino. La resilienza, invece, è la capacità di imparare da esse, ammettendo e comprendendo i propri errori e trasformandoli in punti di forza: ciò permette non solo di migliorarsi, ma anche di affrontare la paura del cambiamento, che è del tutto naturale. Questo non possiamo impararlo se, semplicemente, ce lo racconta qualcun altro. L’incertezza provocata dalla transizione fa emergere le meta competenze che più servono al mondo del lavoro e che sono più difficili da formare in aula: l’attitudine al cambiamento continuo, la tolleranza dell’errore, lo spirito di iniziativa, l’imprenditorialità, l’agilità mentale, la leadership, la responsabilità, l’autodeterminazione. Sono tutte capacità che vanno rafforzate con un aiuto competente.
Lifeed Transitions fa esattamente questo: grazie al team scientifico che lo ha progettato, altamente esperto di questi temi, sa fare spazio alle riflessioni delle persone, accompagnarle in un percorso attraverso la crisi, mettendo in evidenza come cambiano le loro identità, rassicurandoli e facendoli sentire più forti. A beneficio di tutti, perché, come ci insegna Darwin, ai fini della sopravvivenza non conta solo l’eccellenza del singolo individuo, ma l’intero contesto biologico e sociale in cui è immerso.
di Riccarda Zezza
Sensibili guerriere: sono le mamme che in questi giorni si stanno trovando davanti all’impossibile scelta tra figli e lavoro, pagando in prima persona il prezzo di una società che ancora poggia, per mantenere il proprio precario equilibrio, sulla loro resistenza e il loro spirito di sacrificio. E’ proprio così: oggi più che mai è alle madri che si chiede di fare un passo indietro, ed è alla loro forza accudente e resiliente che si chiede di sostenere quella parte di Italia che forse non vota, ma dà un volto al nostro futuro: i figli.
Sensibili guerriere è il titolo di un saggio sulla forza femminile a cura di Federica Giardini, ed è anche il titolo preso in prestito dalla conferenza digitale organizzata il 7 maggio da Alley Oop – Il Sole 24 Ore e dalla società HR-tech Life Based Value di cui sono amministratrice delegata: mantenendo una promessa fatta durante una conferenza analoga organizzata con sette “CEO papà” in occasione della Festa del papà, eccoci a festeggiare la Festa della mamma del prossimo 10 maggio insieme a sei “CEO mamme”.
Le CEO mamme, questa era la provocazione lanciata dalla conferenza, combattono forse un doppio stigma: troppo CEO a casa e troppo mamme sul lavoro? La storia che ci hanno raccontato è stata molto più luminosa, tanto che non pochi dei 500 partecipanti hanno commentato ringraziando per aver aperto la loro giornata in modo positivo.
Video dell’intero live streaming della conference
Ma partiamo dai dati: sulla base un sondaggio tra 1.500 partecipanti ai webinar di Life Based Value, sappiamo che il 63% delle persone oggi ha bisogno di rassicurazioni sul futuro e che il 44,5% vuole anche essere coinvolto di più nella definizione delle soluzioni. Il modello di potere desiderato è un misto di collaborazione (26%), conoscenza (26%), rispetto (17%) ed empatia (13,5%), e dai manager della fase 2 ci si attende che sappiano soprattutto condividere (70%) e ascoltare (68%), ma anche, forse sorprendentemente, che sappiano prendersi dei rischi (60%).
Quasi l’unanimità dei partecipanti (l’89,8%) ritiene poi che in questi tempi di emergenza sia possibile e necessario usare un potere di tipo “generativo”: un potere che sappia disegnare oggi il futuro, seminando idee e progetti che gli sopravvivranno.
Che cosa c’entra la maternità? Molto, anche se, come ha detto lo psicanalista Erikson nel descrivere la generatività: “La semplice messa al mondo di figli non garantisce che il genitore svilupperà un senso di generatività. I prerequisiti per lo sviluppo in questo stadio sono fede nel futuro, fiducia nella specie e abilità a occuparsi degli altri. Invece che allevare figli, si può lavorare allo stesso modo per creare un mondo migliore per i bambini degli altri”. Ecco quindi cinque pillole di potere generativo emerse nella conferenza del 7 maggio:
Livia Cevolini, amministratrice delegata di Energica Spa, casa costruttrice di moto elettriche ad elevate prestazioni, e mamma di una bimba di due anni: diventare madre le ha dato un nuovo scopo, tanto che adesso punta tutto sull’energia verde “Perché voglio far sì che lei viva in un mondo migliore”. Oltre a ricevere un’energia meravigliosa da questa nuova dimensione personale, ritiene che migliori la sua capacità di comprensione degli altri e di valorizzazione dei talenti.
Isabella Fumagalli, amministratrice delegata di BNP Paribas Cardif, diventando mamma di due ragazze ha “ingranato una marcia in più”, sentendo la responsabilità di disegnare un futuro per le sue figlie; e dalle conversazioni con loro, dalle loro “domande autentiche” ha imparato che cosa vuol dire la faticosa ma essenziale ricerca di un senso di verità. In questa fase di quarantena, poi, Isabella sta scoprendo che anche le persone della sua azienda sono molto più che professionisti: ognuno e ognuna di loro ha molteplici dimensioni, che aprono prospettive nuove anche sul modo di lavorare insieme, sulle possibilità di vicinanza tra persone e azienda (mentre non sta parlando ma è comunque inquadrata, Isabella viene abbracciata e baciata da una figlia di passaggio).
Roberta La Selva, CEO di Ogilvy Italia, diventando mamma di Michele e Arianna ha scoperto come ri-bilanciare tutto con la leggerezza che avere molti “campi da gioco” dà, redistribuendo i pesi e imparando mentre insegna, affinando l’empatia e soprattutto l’agilità mentale richiesta dal continuo adattamento a situazioni nuove, “Come per esempio fare conferenze come questa dal balcone di casa, visto che tutte le altre stanze sono occupate!”.
Elena Riva, co-proprietaria e Presidente di Panino Giusto SpA, ha tre figli insieme al loro papà, con cui è anche socia in affari, e questo “insieme ” ci tiene a sottolinearlo, perché l’azienda è un quarto figlio che da sola non avrebbe mai potuto fare. Con i tre figli – e con i 450 dipendenti della sua azienda – ha scoperto il valore della diversità come effetto moltiplicatore. Come leader e come madre, riconosce nei propri figli così come nei propri dipendenti il senso di indipendenza, che la porta a definirsi una “custode”: una custode molto paziente, che semina, insiste e persevera con fiducia, sapendo che il momento del raccolto arriverà.
Susanna Zucchelli, infine, Direttrice Generale di Heratech, non abbiamo scoperto quanti figli abbia, ma ha ben chiaro che la maternità le ha fatto portare anche nel suo ruolo di leader di un’azienda molto “hard” (ha la responsabilità della Direzione Ingegneria, delle strutture di Telecontrollo e Laboratori e della gestione dei processi e servizi) un atteggiamento materno e “avvolgente”, che sa far emergere una “bio-resilienza” nelle sue persone particolarmente utile in questa fase. Avere dei figli, aggiunge, le ha dato una visione a lungo termine e la capacità di chiedere aiuto quando serve. “E, se non te lo danno, alla fine li obblighi!” ha concluso con quel senso pratico e terrestre che hanno le persone che gestiscono tutti i giorni le sfide concrete della vita.
Auguri dunque alle sensibili guerriere: a tutte le donne che lavorano e si prendono cura di qualcuno. Fortunate se trovano la sinergia tra questi equilibrismi, avvantaggiate se lasciano per strada i sensi di colpa e di inadeguatezza che la nostra società elargisce loro in abbondanza, sono comunque sempre capaci di esprimere un potere che è fatto di forza ma, come ha detto la prima ministra neo zelandese Jacinta Ardern, anche di gentilezza e di capacità di stare insieme.
Post originariamente pubblicato su Alley Oop Blog de Il Sole 24Ore
Ottimista, inclusivo e gentile. Che sappia coniugare umiltà, collaborazione e cultura e non abbia timore di ammettere le proprie paure. Una persona entusiasta, in grado di ritrovare il senso dello scopo. Dopo la crisi innescata dalla diffusione della pandemia da Covid-19, anche la figura del manager di azienda deve cambiare. Abbiamo provato a tratteggiarne i caratteri, coinvolgendo amministratori e responsabili d’azienda nella nostra terza Life Ready Conference dal titolo Manager in shock: lo stile antifragile ce la farà? che si è tenuta il 28 aprile. In tempi di distanziamento sociale e incertezza economica, il concetto di potere è oggi associato sempre più alla cura piuttosto che alla forza. La leadership del domani richiederà coraggio e visione del futuro.
Che tipo di potere serve oggi? La maggior parte delle persone che lavorano in azienda avverte il bisogno di rassicurazioni (63,4%) e di un piano di azione che li coinvolga (44,4%), ma anche di sentirsi al sicuro (40%). “La sensazione è che in questo momento si stia recuperando fiducia nell’idea che il potere abbia in sé la conoscenza e non sia più qualcosa da cui difendersi. C’è un modello di potere che ha a che vedere con l’adattamento e uno che richiede senso della possibilità”, ha spiegato Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value. “Oggi è prevalente il senso di adattamento, ma nella fase successiva, che si aprirà a breve, le persone vorrebbero veder prevalere all’interno della propria azienda il senso della possibilità: non un potere che intervenga a ripristinare le cose com’erano, ma che riesca a imparare da quanto successo e ad andare oltre”. Il manager ideale dovrebbe fare della condivisione e dell’ascolto i suoi punti di forza. In un periodo di crisi, in cui sarebbe naturale aspettarsi che le persone desiderino cautela, a sorpresa si ricerca un leader capace di assumere dei rischi pur di andare avanti. Un leader, appunto, “antifragile”.
Video dell’intero live streaming
Il concetto di antifragilità, coniato dal matematico e filosofo libanese Nassim Taleb, nasce per trovare il giusto contraltare all’idea di fragilità. Il suo opposto non è, infatti, né la robustezza né la resilienza, due atteggiamenti che conducono entrambi a reagire a uno choc restando uguali a sé stessi. “Chi è antifragile, invece, a fronte di uno stress violento è in grado di migliorare, acquisendo capacità che non aveva prima”, ha sottolineato Raffaele Guerra, Executive Vice President di Capgemini.
“Per questo è interessante il rapporto tra antifragilità e innovazione: sostiene Taleb che, di fronte a un evento esterno, le persone tendano a iper reagire, cioè a mettere in atto una reazione superiore alle effettive necessità dell’evento, creando una ‘provvista emotiva’. Tendono, cioè, ad accumulare in maniera sovrabbondante motivazione e volontà, che sono una molla eccezionale per fare cose nuove”.
È quel che è accaduto oggi nel pieno dell’emergenza, con circa il 70-75% delle imprese italiane entrate, in pochi giorni, in una nuova modalità di lavoro a distanza. Il passaggio è stato reso possibile dall’abbandono di un approccio top down e verticistica, che non poteva funzionare. “Ha funzionato, invece, un approccio antifragile, bottom up e disordinato: chi lavorava in posizione decentrata ha trovato modi nuovi per attivare il lavoro a distanza, poi generalizzati all’interno dell’azienda. Trial and error: si impara per tentativi e commettendo degli errori, purché siano piccoli. Bisogna poterne far tanti prima di arrivare al risultato”.
L’errore, dunque, come learning point per apprendere la lezione e migliorare la ripartenza. La collaborazione non è avvenuta soltanto tra singole persone interne all’organizzazione, ma ha coinvolto in molti casi anche i clienti e i fornitori. Caratteristica tipica di ogni azienda che voglia dirsi innovativa. “La cultura dell’innovazione spinge a gestire l’azienda in maniera non gerarchica, a curare il valore dell’altro, a tollerare l’errore e anzi incoraggiarlo”, ha continuato Guerra.
Il 34% dei CEO delle aziende italiane si spende in prima persona, prendendo parte diretta alla trasformazione già avviata verso la rivoluzione digitale. “Un atteggiamento culturale differente e il diverso modo di ragionare sono caratteristiche fondamentali della leadership del domani. Non sappiamo quale sarà il futuro status quo, sappiamo solo che sarà diverso da quello attuale”.
Una volta superata l’emergenza, i vecchi modelli manageriali potrebbero essere, dunque, superati dalle azioni dei singoli. Quali caratteristiche umane dovranno avere i manager per consentire alle persone di lavorare in un livello di incertezza così alto? E cosa consentirà loro di essere di supporto agli altri senza soccombere a loro volta?
Se oggi la prima reazione alla crisi è disporre licenziamenti e tagli agli stipendi, forse un approccio diverso dovrebbe suggerire di coinvolgere i dipendenti, oltre che nei sacrifici odierni, anche nei futuri successi aziendali. “Bisogna riscoprire la generosità di fare business”. Secondo Maria Elena Cappello, Member of the Board di Tim, Prysmian, MPS, Saipem, Eni Enrico Mattei Foundation, il coronavirus ha accelerato di almeno 15 anni le esigenze di digitalizzazione delle imprese. “Ci vogliono leader coraggiosi, capaci di mettere a terra idee in modo veloce. Una società più imprenditoriale e digitale ha bisogno di essere capace di sbagliare molto, ma di avere processi talmente veloci che permettano di comprendere subito l’errore e di riconvertirsi in fretta. Abbiamo bisogno di digital leader”.
Un approccio di questo tipo permetterebbe di eliminare anche l’elemento fin qui ricorrente della solitudine del manager, dipinto come uomo solo al comando. Al contrario, proprio durante le crisi, il leader dovrebbe essere più trasparente e capace di includere il management nella ricerca delle soluzioni. “Occorre un maggior coinvolgimento dei giovani a vari livelli dell’impresa. Meno gerarchia e più contaminazione di idee, perché la ripartenza sarà basata su un meccanismo largamente diverso da quello che conosciamo”.
I manager dovranno accompagnarsi a persone giovani, capaci e diverse, includendole nella war room con l’obiettivo di concentrarsi su pochi programmi finalizzati a superare l’emergenza. “Il leader dev’essere capace di anticipare l’uscita dalla crisi e ciò è possibile solo stando vicino al proprio team e costruendo una nuova company culture. La leadership di oggi deve fare tutto questo in modo accelerato, focalizzandosi soprattutto su quale sarà l’impresa di domani”.
La gestione dell’emergenza Covid-19 ci ha già dato alcune importanti lezioni di antifragilità, intese come la presa d’atto del fallimento di altrettanti modelli tradizionali di gestione dell’organizzazione. Innanzitutto, è venuto meno il paradigma secondo cui è possibile controllare l’impresa attraverso la pianificazione di comportamenti per il futuro.
“Anche il migliore dei modelli predittivi patisce il limite dell’accadimento di eventi imprevedibili in grado di mettere in discussione lo status quo. Ci siamo resi conto sul campo che siamo stati in grado di resistere meglio alla crisi perché abbiamo potuto contare su manager, supervisori e dipendenti dotati di capacità di mettere in discussione le previsioni grazie alla forza di generare nuove idee”. Fortunato Costantino è People Care & Union Relationship Manager di Q8 ed è convinto che il coronavirus abbia messo in luce l’importanza di costruire relazioni umane e professionali di qualità. Durante l’emergenza, la società ha adottato un approccio fondato sulla comunicazione diretta e trasparente ai propri dipendenti, inaugurando anche un canale di informazione ribattezzato You’ll never work alone.
Secondo Costantino, lo stile del one man company, che distribuisce direttive e ne demanda l’esecuzione, rischia di deprimere la creatività del team. “Invece, ciò che serve è un manager che sappia condividere obiettivi e strategie, valorizzando l’apporto dei collaboratori e spronandoli ad esercitare la loro leadership attraverso un sano confronto dialettico. Non significa favorire l’anarchia o indebolire la struttura organizzativa, ma valorizzare il talento”.
Nel post lockdown, oltre alle competenze tecniche, al manager sarà richiesto di possedere altre abilità: capacità di ascolto, apertura al cambiamento, valorizzazione dell’errore. “Non può essere un esperto arroccato nelle sue competenze tecniche, ma deve avere una visione olistica dell’organizzazione e dev’essere capace di condividere la leadership”. Non più intesa come privilegio di pochi, ma come responsabilità di tutti.
Il primo passo, dunque, è restituire fiducia alle persone, lungo tutta la catena produttiva. Lo sa bene Christophe Poitrineau, Supply Chain Director di Carrefour: nei giorni della diffusione del virus e delle prime misure di contenimento, la Supply chain si è trovata a sostenere le pressioni opposte dei consumatori e dei produttori. “Questa crisi non è uno sprint, ma una maratona”, ha ammesso.
“Abbiamo ancora davanti a noi alcuni mesi in cui dovremo sostenere questo ritmo. Perciò, la prima cosa da fare è ridare fiducia alle persone, garantendo procedure di controllo e sicurezza”. Il secondo passo attiene alla dinamica collettiva: nell’esperienza di Poitrineau, condividere informazioni con tutto il team, con riunioni giornaliere, si sta rivelando fondamentale per assicurare continuità ai processi.
“La cosa più rilevante per un manager è il supporto: andare sul campo, trovare soluzioni e non lasciare le persone in difficoltà, eliminare la distanza strutturale tra chi lavora in ufficio e chi fa un lavoro operativo”. Da qui l’importanza di avere dati condivisi, senza i quali sarebbe difficile avere una visione di insieme e prendere le giuste decisioni. La situazione cambia ogni giorno e un buon leader dev’essere pronto a reagire e ad anticipare gli eventi. “Il rischio è di essere assorbiti dal quotidiano, dimenticandosi dei piani futuri. Al contrario, occorre un ritorno di esperienza per lavorare su progetti nuovi e avere un piano per il futuro condiviso da tutto il gruppo”.
Condivisione come parola d’ordine per la ripartenza. Cristiana Scelza, CEO di Prysmian Russia, si è trovata spesso a pronunciarla, raccontando la sua esperienza nel mercato Oil&Gas prima in Brasile, nel Paese sconvolto dallo scandalo corruzione che ha travolto l’azienda petrolifera nazionale Petrobras, e poi a Mosca, in una realtà dall’altissima presenza femminile, ma dominata ancora da un atteggiamento maschio e aggressivo. “Il manager non è solo: se si crede davvero nella diversità e nell’inclusione, si diventa capaci di affidarsi al team, che può aiutarti e supportarti. Al contempo, il leader ha l’obbligo di filtrare i propri demoni: non si possono trasmettere ansia e paura, senza dare un messaggio costruttivo”.
“La resilienza non basta più”, ha detto Scelza. Non si può pensare di ritornare al mondo come era prima: in una crisi come questa, le antenne devono essere tese ogni giorno e rivolte al futuro. “Le crisi ci sono costantemente in giro per il mondo, accelerano un po’ tutto e ti fanno saltare i preliminari. Però, abbiamo tutti gli strumenti che ci servono per superarle. Non con facilità, ma sicuramente con grandi possibilità”.
Alla fine, dipende tutto da come si reagisce di fronte agli accadimenti. O da come si vuole reagire, perché l’antifragilità è una dote che si può anche apprendere. “Non si tratta di avere adattabilità, perché non si sa neppure a che cosa bisognerà adattarsi. Più che altro parlerei di plasticità: occorre diventare plastici per includere dentro di sé il caso”, ha spiegato Valeria Cantoni, Founder di ArtsFor.
“I contain moltitudes” recita la nuova canzone di Bob Dylan, riprendendo un verso di Walt Whitman: diventare persone consapevoli di contenere una moltitudine di ricchezza e di risorse aiuta a metterle a frutto e anche a concedersi degli spazi vuoti per guardare cosa sta nel mezzo.
“Molte aziende continuano a raccontarsi la stessa storia e vivono di rendita sull’epopea del fondatore, ma il mondo è cambiato e la storia va aggiornata: a raccontarla devono essere le persone che vivono l’azienda tutti i giorni. Bisogna uscire da quella che l’economista Luigino Bruni definisce ‘carestia di capitale narrativo’”, ha continuato Cantoni.
I manager che possono fare la differenza, allora, sono quelli che si concentrano sulla qualità della relazione e del linguaggio all’interno delle organizzazioni. Serve un manager inclusivo e autorevole, che sappia dire “non lo so” e chiedere aiuto, che sperimenti, che favorisca la cultura dell’apprendimento continuo e dell’errore, che sia consapevole dei propri bias interiori e delle proprie risorse, un manager narratore che sappia entrare nella propria vita raccontandola.
“È venuto il momento di assumere l’imperativo di essere tutti una comunità di destino, non solo per una scelta responsabile, ma per una necessità di sopravvivenza all’interno delle organizzazioni. Oggi mettersi a imparare cose nuove permette di allenare la capacità di sperimentare, di tenerne traccia e di condividere quanto appreso con i propri collaboratori”.
Articolo originariamente pubblicato su Parole di Management
Stiamo attraversando una vera e propria transizione. E’ come se tutti stessimo vivendo una forma di “congedo di maternità” forzato. Siamo a casa, continuando a lavorare, tanti dei nostri ruoli si sovrappongono e si accumulano. Come ogni transizione, anche questa causata dall’emergenza sanitaria del Coronavirus, richiede una ridefinizione cognitiva, sia a livello individuale sia a livello sociale, e uno sforzo di ridefinizione.
Per riflettere su questi temi e capire come le aziende si stanno preparando, abbiamo incontrato 4 Direttori delle Risorse Umane di 4 diverse industry che, in totale, gestiscono più di 10.000 persone. Abbiamo chiesto loro come stanno immaginando il ritorno alla “normalità” e come si stanno preparando al dopo Covid-19. Ecco cosa ci hanno raccontato nella nostra nuova Life Ready Conference che si è tenuta lo scorso 2 aprile.
Aggiornamento dell’8 aprile
Leggi l’articolo Un capo del personale su due: l’impatto sarà strutturale che Il Sole 24 Ore Lavoro ha dedicato ai contenuti emersi durante questa Life Ready Conference.
Video dell’intero live streaming
“All’emergere della complessità nelle organizzazioni, la gestione delle risorse umane diventa fondamentale. Inevitabilmente, anche nella situazione di discontinuità che stiamo vivendo, il faro si è acceso sui Direttori HR. Chi di noi ancora non era inserito nei processi decisionali ha iniziato a confrontarsi nei livelli più alti dei leadership team. La crisi è dunque diventata un’occasione per noi HR di giocare un vero e proprio ruolo da Leader.
In termini più ampi, la questione della leadership che proprio dalla crisi è stata messa in discussione, ci sta consentendo di individuare i fattori del leader vero, al di là degli strumenti di valutazione delle performance che tutti noi utilizziamo. La crisi ha messo in luce che il vero leader è colui che riesce a dare una direzione precisa, senza ambiguità, e sa fornire una positività strategica ai propri messaggi. Con queste due caratteristiche è possibile creare un ambiente performante.
Da questa crisi ci portiamo, inoltre, a casa la necessità di garantire flessibilità a tutti i livelli. L’accelerazione tecnologica è stata guidata dal Covid-19 e ci farà tornare in un mondo in cui delega e obiettivi saranno fondamentali: questo telelavoro e, speriamo con continuità successiva, diventi vero e proprio smart working ha bisogno di questi due elementi, senza i quali non sarà possibile lavorare con efficacia”.
“Con la mia azienda e con Life Based Value abbiamo fatto un grande viaggio negli ultimi anni per valorizzare la genitorialità, per mettere la maternità e la paternità nel conto economico delle aziende. 20 anni fa quando ho iniziato la mia carriera professionale la maternità era un tabù; oggi sappiamo che il congedo è una grandissima risorsa e patrimonio anche per le organizzazioni. Il top management ne è consapevole grazie ai dati che siamo in grado oggi di fornire sulla crescita delle competenze e il miglioramento della produttività dopo il congedo di maternità. Grazie a questa crisi siamo riusciti a traslare quello che succede durante il congedo di maternità a tutta l’azienda; è proprio come se fossimo tutti in un grande ‘congedo collettivo’, che al pari della maternità, può diventare una grande opportunità.
Le organizzazioni sono sostenute da 4 pilastri: quello economico, quello organizzativo, quello culturale e quello psico-affettivo. In tutte le situazioni di crisi, non solo in quella attuale, bisogna dare priorità e attenzione al pilastro psico-affettivo dell’organizzazione. Le organizzazioni sono fatte di persone che hanno sentimenti, paure, ansie, reazioni. I leader, dall’Amministratore Delegato a tutta la sua prima linea, sono chiamati a gestire anche la dimensione psico-affettiva, nonostante anche loro siano altrettanto preoccupati del futuro. Noi in Danone abbiamo preso in tutto il mondo un impegno: Danone ha dichiarato che nessuno perderà il proprio posto di lavoro a causa del Coronavirus.
In questo modo abbiamo lasciato spazio alle persone di esprimere la propria creatività, con loro stiamo riscrivendo il nostro Business Model e introducendo nuove modalità lavorative. Ogni persona a qualsiasi livello può avere un’idea creativa, ma la esprime solo se il management crea uno spazio di fiducia e di conforto. Mettiamoci nei panni delle persone, avere cura di loro nella loro interezza, non vederli sono come dei professionisti, solo così possiamo ottenere un grandissimo ritorno.
Credo che questa crisi ci lascerà più ricchi di idee, tutto ciò che abbiamo pensato per far fronte a questa situazione e reinventarci, resterà anche dopo, diventerà patrimonio dell’azienda”.
“Da quanto è scoppiata l’emergenza, abbiamo intrapreso una serie di azioni urgenti e necessarie, dalla salvaguardia delle persone attraverso l’azione dei protocolli sanitari, all’estensione dello smart working a tutta la popolazione impiegatizia, alla salvaguardia sociale e l’adozione di strumenti di integrazione salariale. A ciò si aggiunge la salvaguardia psicologica su cui stiamo lavorando adesso: stiamo per attivare uno sportello di ascolto e alcuni seminari sull’equilibrio personale. Il lavoro è parte integrante della nostra vita e anche la nostra routine oggi viene meno: si è costretti a vivere in casa, spesso in uno spazio fisico ridotto con la propria famiglia, tutto ciò richiede un diverso equilibrio.
I prossimi passi sono quelli più complicati e anche difficili da definire. Perchè non sappiamo la durata delle misure di contenimento attuali, ma anche perchè che siamo consapevoli che “percorrere il metro che ci separa sarà difficile” (citando il responsabile della Protezione Civile Angelo Borrelli). La domanda che ci dobbiamo porre è come possiamo mantenere il distanziamento sociale, che probabilmente continuerà come misura di profilassi a lungo dopo l’emergenza, senza diminuire, anzi, aumentando l’inclusione? Questo è uno dei nostri obiettivi. Pensiamo, ad esempio, al valore della pausa caffè: quando si potrà rifare? E come la sostituiremo?
I punti su cui ci dobbiamo impegnare in azienda sono essenzialmente quattro.
Volendo fare una sintesi, le mie parole d’ordine per il futuro saranno: nuove competenze e condivisione. Dobbiamo reinventarci e chi è stato generoso nella creazione e nell’ascolto del proprio network oggi ne trae un vantaggio competitivo importante”.
“Fino a ieri, quando avevamo la possibilità di sperimentare tante modalità di fare formazione, abbiamo ‘giocato’ sulla formazione di competenze soft, come creatività, apertura, innovazione, intraprendenza, imprenditorialità. Tutte queste competenze, con le quali ci siamo allenati finora sulla carta, oggi sappiamo che domani diventeranno il nostro nuovo modo di lavorare.
Ma non è la formazione non è l’unico aspetto che dobbiamo ripensare. Un altro è la comunicazione interna. Attraverso la nostra intranet, oggi comunichiamo quotidianamente con i nostri dipendenti: stiamo traducendo i decreti, i moduli, le informazioni che arrivano dal governo le stiamo semplificando e spiegando a tutti i nostri dipendenti. Ma non solo… abbiamo anche un’app, che di solito usiamo per gli eventi aziendali e che oggi abbiamo riconvertito per sentirci tutti più vicini: ogni settimana lanciamo un tema per comunicare e confrontarci tutti in maniera continua. Anche per far emergere idee su come gestire il rientro dopo la crisi.
Su questo tema, stiamo cercando di fare rete con altre imprese, soprattutto quelle del nostro settore, per capire cosa stanno facendo, così da raccogliere anche altre idee per elaborare le azioni che possiamo intraprendere.
Alcune delle nostre scelte passate sono state vincenti in questo periodo, altre andranno ripensate. Due anni fa, ad esempio, abbiamo inaugurato la nostra nuova sede. Nella stessa occasione, abbiamo dotato tutti i dipendenti di un PC portatile, avviando una sperimentazione di smart working senza limiti di tempo, affidandoci al buon senso dei nostri collaboratori.
Un altro spunto per noi importante è che oggi possiamo insegnare qualcosa agli altri Paesi. Da essere considerati la piccola Business Unit, che performa bene ma che sta a guardare i grandi del Gruppo, oggi siamo visti come al Business Unit che può insegnare a quelle più grandi. Sia perché abbiamo vissuto con 4 settimane di anticipo questo tzunami, sia perchè la nostra anima ‘latina’ ha tirato fuori iniziative e idee oggi reputate come best practice dagli altri”.
Abbiamo messo insieme 7 key opinion leader, uomini, padri e capi di grandi aziende. Li abbiamo fatti parlare per più di 1 ora in live streaming, direttamente dai salotti delle loro abitazioni, e ci hanno spiegato, con grande trasparenza e umanità, come l’esperienza della paternità abbia influito sul loro modo di agire la leadership. E abbiamo scoperto che proprio i loro figli, 19 in tutto, sono stati la migliore palestra di competenze professionali. Ecco cosa ci hanno detto.
Video dell’intero live streaming
“Il mio modo di lavorare è cambiato da quando sono padre. Con i figli riscopriamo alcuni valori, come la responsabilità sociale, la sostenibilità verso le nuove generazioni. La situazione che tutti noi stiamo vivendo oggi, a causa del coronavirus, ci fa capire che questi stessi valori vanno riportati nelle aziende, affinché si crei nel medio lungo termine un’osmosi con i valori materiali, quelli tipici di un bilancio aziendale, rendendoli degli elementi strategici per le stesse aziende.
Nelle aziende il clima è fondamentale, devi fare in modo che i collaboratori stiano bene, partecipino, va cercata l’armonia e lo devi fare con pazienza, convincimento. Proprio come con i figli. Siamo tutti padri e madri ma quando entriamo in azienda sembriamo dimenticarcelo. Eppure se cominciassimo ad agire gli stessi comportamenti virtuosi, anche gli altri colleghi cominceranno a farlo”.
“La paternità mi ha insegnato almeno 3 cose importanti.
La prima: ho 3 figli e proprio da loro ho scoperto che sul lavoro, così come in famiglia, non ci sono ricette standard, servono approcci diversi in base a carattere, età. Lo stesso vale con i dipendenti, capita spesso che in azienda utilizziamo approcci standardizzati.
La seconda (suggerita da mia moglie!): la paternità fa bene al CEO perchè tiene a bada il suo ego, mantiene i piedi per terra, lo costringe a bagni di realtà quotidiana. Ho imparato, ad esempio, che con i miei figli ho solo 5 secondi per catturare la loro attenzione, prima che gli sguardi ritornino a fissare lo schermo di un telefono. In famiglia i ruoli si conquistano e cambiano ogni giorno con la crescita di tutti.
Infine: la situazione che stiamo vivendo dovuta all’emergenza coronavirus mi ha fatto capire che bisogna avere fiducia gli uni degli altri, i figli cercano rassicurazioni per evitare lo smarrimento, così come i collaboratori”.
“Faccio una prima distinzione: i figli sono per sempre, mentre i lavori cambiano. Superata la soglia dei 1.000 pannolini cambiati, ho capito che il lavoro non doveva più essere la scusa per spendermi poco nel mio nuovo ruolo famigliare, allora ho deciso di ridimensionare il mio tempo, ricalibrare sforzi ed energie. Ho smesso, ad esempio, di lavorare nei weekend, imparando a prioritizzare di più. E questa consapevolezza è stata per me un grande elemento di crescita.
Un’altra riflessione nella correlazione tra dimensione parentale e professionale è la ricerca di linee guida per la leadership che nel mio team sono: dare la direzione per creare un’unità d’intenti, saper incanalare l’energia per essere efficaci, celebrare successi e fallimenti. Sono tre elementi che ritrovo anche nella genitorialità.
Insomma, i parallelismi sono tanti. Con una differenza, però: il leader è solo, il modello di leadership aziendale classico lavora al singolare. In famiglia si è in due: questa dualità è estremamente proficua e importante, e andrebbe portata anche in azienda”.
“Sono un papà di lunga data, ho avuto il primo figlio a 26 anni. Il fatto di essere diventato padre molto prima di aver ricoperto i primi ruoli di responsabilità sul lavoro ha avuto un forte impatto nel mio modo di vivere l’azienda. Con la prima figlia ci sono stati problemi di ospedalizzazione e dopo di lei avevamo fatto fatica ad averne altri: queste vicende mi hanno insegnato che non si può avere tutto sotto controllo, neanche sul lavoro, ci sarà sempre l’imprevisto. Mi hanno insegnato che nella vita devi fare tutto il possibile come se tutto dipendesse da te, ma sapendo che l’esito non lo determini tu.
Un altro aspetto della paternità riguarda il tema della libertà, lo chiamo “freedom management”, stimolare la libertà altrui porta a risultati molto superiori. È evidente con i figli, ma anche in azienda: come CEO penso che saremo ricordati per ciò che di più grande lasceremo in azienda, non per i margini più o meno alti”.
“Essere padre è una scelta, e non sempre facile. Diventare padre mi ha esposto a delle esperienze che hanno notevolmente cambiato il mio modo di essere. Io sono un manager con un background tecnico e poco umanistico, ed entrare in contatto con il carico di emotività di un bambino è stato un impatto immenso. Mi ha portato, ad esempio, ottimismo, fiducia nel futuro – che serve tantissimo soprattutto in azienda dove c’è molta incertezza.
Quando arrivano i figli ti sbattono in faccia la loro emotività, la loro ingenuità e questo ti cambia tutto: il feedback diretto alla Jobs, non funziona nè con loro nè con i collaboratori, nei quali vedo gli stessi occhi. Se sbaglio oggi chiedo più scusa di un tempo.
Anche alzare continuamente l’asticella non funziona: quando insegni a tuo figlio a tuffarti, viene automatico continuare a correggerlo per perfezionismo, ma lui probabilmente perderà a un certo punto entusiasmo. In azienda funziona allo stesso modo, servono obiettivi raggiungibili e motivanti, ma anche una diversa cultura dell’errore”.
“C’è un’altissima contaminazione tra essere leader e genitore, imparo tutti i giorni da questi due ruoli: ho imparato a sfruttare meglio il tempo, spesso poco per la famiglia, oppure mantenere maggiore distacco rispetto ai problemi e sviluppare empatia, mettendosi nei panni dell’altro. Non esiste palestra migliore per l’intelligenza emotiva della paternità!
In questi anni poi ho sviluppato anche la capacità di pensiero laterale: evitare quindi di guardare solo al rapporto causa-effetto ma spostare il punto di osservazione dal problema alla soluzione, come quando un figlio ha una difficoltà con una data materia scolastica.
Infine, c’è il tema dell’apprendimento continuo, che vale per vita privata e professionale”.
“Il mio ruolo da padre è arrivato dopo quello da General Manager, ma mi ha insegnato veramente molte cose. Innanzitutto ho scoperto che il più bravo negoziatore al mondo è un bambino di 5 anni: continuerà a chiedere una cosa fino allo sfinimento finché non l’avrà ottenuta. Da ciò ho appreso che spesso bisogna passare dal comandare al negoziare.
Ho dovuto imparare a dire tantissimi sì anziché tantissimi no, anche quando sono stanco e non vorrei giocare per la milionesima volta a quel gioco, ma ci si rende conto che la singola occasione di quel momento non tornerà.
Ho imparato a passare dal dare la regola al dare l’esempio, che è la cosa che ci rende più credibili sia a casa che sul lavoro. In ultimo, ma non per importanza, il tema della delega: se continuiamo a fare le cose al posto dei nostri figli anziché insegnargliele, proprio come i nostri dipendenti, non impareranno mai”.
Il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità, nonché l’inclusione di tutti i dipendenti sono parte dei valori fondanti dell’azienda farmaceutica MSD Italia che ha scelto di adottare i master per i neo-genitori e per i figli caregiver che trasformano le esperienze di vita (in particolare, quelle di cura familiare) in soft skill preziose anche sul lavoro. “Un terzo circa della nostra popolazione ha più di 50 anni e sappiamo che molti di loro dedicano parte del loro tempo alla cura dei propri familiari anziani o disabili”, spiega Michele Ceresani, HR Executive Director di MSD Italia.
Con il master di LBV per i figli caregiver, in primis, e con il tradizionale master per i neo-genitori “intendiamo migliorare alcuni comportamenti focalizzandoci in particolar modo su inclusività, capacità di sperimentare, lavorare in una modalità a rete al di là dei silos organizzativi. A questo scopo crediamo che questi percorsi formativi possano aiutarci a rafforzare tutta una serie di competenze, quali ad esempio empatia ed ascolto, allenarci nella gestione del rischio e dell’errore, aumentare la nostra capacità di collaborare e creare di alleanze. Inoltre, siamo certi possa essere fondamentale per migliorare ancora le nostre abilità nel gestire dinamiche di cambiamento, lavorando sulla nostra capacità di dare e ricevere feedback e sulla nostra flessibilità”. Si tratta spesso di “un patrimonio di competenze già presenti e solo da mettere a fuoco”, continua Ceresani.
Anche per MSD Italia la possibilità di attingere in via quanto più possibile diretta ad esperienze concrete maturate nella quotidianità – opportunamente rielaborate attraverso le modalità proposte dalla metodologia del Life Based Learning – è un potente fattore di accelerazione e potenziamento di queste competenze.
“In Siram Veolia – azienda che offre servizi di gestione ottimizzata delle risorse ambientali – sono tante le persone che hanno una famiglia, considerando che l’età media dei lavoratori è di 45 anni” spiega Emanuela Trentin, Amministratore Delegato. “Nella vita quotidiana come genitori o figli siamo messi continuamente alla prova: dobbiamo negoziare, scendere a compromessi, gestire situazioni complicate. Con i master di LBV per neo-genitori e caregiver sarà evidente come queste capacità possano essere messe a disposizione anche in azienda, migliorando la perseveranza, l’autostima e la performance, fondamentali per il nostro lavoro e per quello dei colleghi. Così come, viceversa, molto spesso ci troviamo a mettere in atto a casa meccanismi che solitamente applichiamo in ufficio. Questo dimostra come la vita privata e lavorativa possano essere complementari”.
I master di LBV si basano infatti sul Life Based Learning e aiutano i lavoratori a capire come le esperienze della vita privata possono conciliarsi con il lavoro o migliorare gli aspetti
lavorativi. Siram Veolia è un’azienda presente su tutto il territorio italiano con oltre 3.000 collaboratori. I master digitali di LBV, tra cui il nuovo CARE per figli caregiver, possono offrire a colleghi di sedi diverse di partecipare a un progetto di formazione inedito ed entrare in contatto attraverso una community in cui scambiare riflessioni ed esperienze, “cosa che con i canali lavorativi ‘classici’ non potrebbe avvenire facilmente” – spiega Trentin.
“Collaborare e condividere gli obiettivi per il bene comune favorisce la sinergia e il clima lavorativo. Abbiamo scelto di proporre il master CARE poiché lo spirito di Life Based Value è proprio quello di unire mondi diversi e modi di vivere, per trarne il meglio”.
“Dopo 8 anni di applicazione della policy che supporta la genitorialità il 100%, delle mamme di Danone rientrano in azienda e sul totale delle promozioni il 40% è rappresentato da donne rientrate dal congedo maternità. Senza contare il tasso di natalità, pari al 7%, 11 punti percentuali sopra la media nazionale (che si attesta al -4%)”. Sono queste le parole di Sonia Malaspina, HR director South Europe Danone Specialized Nutrition per spiegare gli impatti di una parental policy avviata nel 2011 e che, dal 2017 ha visto l’introduzione del master LBV per future mamme, neo-mamme e neo-papà con bambini fino a 3 anni.
“Grazie al master per i neo-genitori abbiamo avuto degli accrescimenti davvero interessanti e soprattutto misurabili. Sono migliorate l’abilità di lavorare per priorità (+35%), di prendere decisioni (+15%), di delegare (+35%) e di gestire la complessità (+10%) ma anche l’empatia (+35%) e l’agilità mentale (+20%)” – continua Sonia Malaspina.
Forte di questi numeri e di questa esperienza che ha permesso di scoprire come la fase dell’accudimento possa migliorare anche le capacità manageriali, Danone ha quindi deciso di rivolgere l’attenzione anche verso un altro tipo di cura: quello dei caregiver, che si prendono cura di genitori anziani o di parenti con disabilità e malattia.
Intervistata dal settimanale Gente del 30 novembre 2019, Maria Bianca Farina, da due anni Presidente di Poste Italiane, racconta che in un’azienda come Poste dove “le donne sono oltre il 50% del nostro personale”, la maternità è un valore aggiunto e “alle giovani dico: i figli non sono di inciampo alla carriera”.
“Non mi sono mai sentita discriminata” – spiega. “Ho fatto battaglie che avrei fatto anche se fossi stata un uomo, ma ciò non toglie che ci siano donne che quelle discriminazioni le hanno subite. Credo che il mondo del lavoro sia ancora a misura di uomini, perché è sempre stato così, e loro spesso non trovano in noi quelle caratteristiche che si aspettano, specchiandosi in loro stessi. È per questo che spesso le donne sono state costrette a entrare dalle porte secondarie e che malgrado leggi come quella sulle quote rosa ancora siano poche, soprattutto ai piani alti”.
In Poste Italiane molto è cambiato da quel lontano 1863, quando servì addirittura un decreto regio per assumere la prima donna. Mentre oggi “è una delle imprese più femminili che ci siano”.
“Naturalmente occorre un impegno supplementare per favorire e abilitare il più ampio accesso femminile ai ruoli di maggior rilievo e manageriali”. Una sfida nella sfida, continua l’articolo di Gente, in una Paese come l’Italia dove tante donne sono costrette a rinunciare al lavoro, proprio perché non riescono a conciliarlo con la famiglia.
Nel nostro Paese ancora solo il 56,2% delle donne partecipa al mercato del lavoro e il tasso di occupazione non supera il 50%. Si tratta dei valori tra i più bassi, insieme a quelli della Grecia, tra i paesi dell’Unione europea. Ne abbiamo già parlato qui.
Maria Bianca Farina ha però a cuore questa situazione e sa che, dalla sua posizione di rilievo, deve impegnarsi affinché altre donne possano arrivare ai vertici delle aziende: “Incoraggio le donne con cui lavoro sottolineando sempre che possono farcela anche loro”.
E poi parla anche di noi:
In Poste abbiamo adottato MAAM, che grazie alla tecnologia assicura la continuità della prossimità con l’azienda anche da casa e trasforma la maternità in un valore aggiunto sul lavoro. Perché le competenze che la maternità produce e acuisce – penso all’attenzione al futuro, alla pazienza, all’ascolto – sono preziose anche quando si torna alla scrivania.
Poste Italiane è la prima azienda che ha adottato MAAM, il Master per neo-genitori, nel 2015.