La Giornata mondiale della salute mentale (il 10 ottobre di ogni anno) è stata istituita nel 1992, ma è servita una pandemia per dare visibilità globale a questo tema così importante per le singole persone e per le aziende che sono abitate e vissute, appunto, dalle persone.
Basti pensare che, secondo l’ultimo report Gallup sullo “Stato globale del mondo del lavoro”, passiamo in media 81.396 ore della nostra vita al lavoro: una quantità di ore inferiore solo al tempo che passiamo dormendo.
Eppure, quella del benessere rappresenta ancora una sfida da vincere per le organizzazioni. Ciò vale anche in Italia, dove un lavoratore su quattro si è dimesso nel 2021 per preservare la propria salute fisica e mentale, quattro persone su 10 hanno avuto almeno un’assenza per malessere emotivo e solo il 9% dichiara di stare bene sul lavoro (Fonte: Osservatorio HR Innovation Practice, Politecnico di Milano).
Tra le principali cause c’è la difficoltà a conciliare vita privata e professionale, che è legata al conflitto tra le due dimensioni esistente nella nostra cultura. Come emerge dall’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, in ognuno convivono in media cinque ruoli di vita (la maggior parte di essi non lavorativi) che possono creare benessere personale e organizzativo, ma solo se vengono visti in sinergia tra loro.
La consapevolezza di avere molti ruoli aumenta infatti la propensione a prendersi cura di sé. Per dare alle persone un’opportunità concreta per prendersi cura di sé, le aziende possono inserire nella loro strategia di benessere appositi percorsi di self-coaching basati sulla pratica dell’auto-riflessione che permettono di acquisire maggiore consapevolezza di sé e di stare meglio con gli altri.
Tutti questi temi sono stati approfonditi nel Caring Company digital talk “Il benessere mentale attraverso la cura” promosso da Lifeed, attraverso le testimonianze di esperti del mondo HR, la condivisione dei dati presentati da Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.
Innanzitutto è necessario considerare che ogni persona ha delle specialità, che sono legate alle sue esperienze e definiscono il suo stile personale. Ne è convinta Arianna Conca, Global Diversity & Inclusion and Wellbeing Manager di Chiesi, che sottolinea l’importanza di riconoscere questo valore in ambito HR anche nella selezione, valutazione e promozione delle persone in azienda.
Prendersi cura delle persone in tutte le loro componenti, anche emotive e umane, favorisce la salute mentale ed è la chiave per lavorare meglio. Secondo Conca, l’attenzione alla salute mentale deve essere sia una parte del Dna delle aziende, sia una responsabilità diffusa delle persone perché prendersi cura di se stessi e dedicarsi tempo è fondamentale per stare bene e trovare la necessaria armonia tra le varie dimensioni identitarie di ognuno.
Tutto ciò – aggiunge Conca – riguarda direttamente la leadership aziendale: il benessere organizzativo è anche una responsabilità dei capi e le aziende sono chiamate a creare le condizioni per praticare uno stile di leadership umano.
Condivide questo punto di vista sulla leadership Raffaella Maderna, People & Communication Director di Lundbeck Italia, spiegando che chi gestisce persone ha un ruolo critico per facilitare la diffusione di una cultura del people care in azienda.
Prendersi cura delle persone a 360 gradi significa anche considerare l’emotività di ognuno perché, come afferma Maderna, la salute parte dal cervello che è il vero protagonista del nostro benessere psico-fisico. Oggi, infatti, le persone vivono l’azienda come persone nella loro interezza, non più solo come dipendenti, e vanno considerate nella loro molteplicità.
La pandemia, nel bene e nel male, ha abbattuto le barriere tra vita privata e lavorativa e le aziende non possono ignorare questo cambiamento di prospettiva. Il passaggio richiesto alle organizzazioni è quello da ‘preoccuparsi’ del benessere delle persone a ‘occuparsi’ di loro, attraverso l’ascolto e attività che favoriscono la consapevolezza e la responsabilità delle persone.
Come sottolinea Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda, il tema della salute mentale impatta in particolare le donne, che ricoprono più spesso il ruolo di caregiver nella vita privata e che, dopo l’arrivo della pandemia, ne hanno subito maggiormente gli effetti in termini di ansia e depressione.
L’obiettivo di Fondazione Onda è promuovere una cultura della salute di genere a livello istituzionale, sanitario-assistenziale, scientifico-accademico e sociale per garantire alle donne il diritto alla salute secondo principi di equità e pari opportunità.
Infine, secondo Merzagora, nei veloci cambiamenti del mondo di oggi è anche necessario fermarsi e compiere un’auto-riflessione, per dare un senso alla propria esistenza e ritrovare quel benessere mentale e fisico così importante per le persone e per le aziende.
Proprio per approfondire l’importanza dell’auto-riflessione per gli individui e per le organizzazioni, Lifeed ha realizzato il whitepaper “Il potere del self-coaching per le aziende” che raccoglie anche le testimonianze di alcuni manager della funzione HR.
Oggi le aziende mettono a disposizione dei dipendenti numerosi servizi con l’obiettivo di favorire il loro benessere e la produttività, ma spesso questi servizi non vengono utilizzati dalle persone. Perché?
L’Harvard Business School l’ha definito un “circolo vizioso della cura”, spiegando che la motivazione è prima di tutto culturale: le dimensioni della vitalità e della passione restano spesso fuori dai confini dell’ufficio, dove il professionista viene prima del genitore, caregiver, partner e di qualsiasi altro ruolo di vita privata. In questo modo, le aziende non riescono a vedere le persone nei loro molteplici ruoli e non intercettano i loro reali bisogni.
Se viste e valorizzate, invece, queste dimensioni rappresentano una fonte di talenti nascosti utili anche sul lavoro e già a disposizione delle imprese. Secondo i dati dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, il 70% dei talenti si trova nella sfera personale, solo il 30% in quella lavorativa. Come far emergere quel prezioso 70%? Basta saperlo vedere.
Per approfondire i temi legati alla cura delle persone nelle organizzazioni, Lifeed ha realizzato un whitepaper che raccoglie le testimonianze di alcuni manager della funzione HR, i quali raccontano le sfide del mondo del lavoro, condividendo priorità, bisogni e opportunità per il futuro delle Risorse Umane.
Oggi nelle aziende il 73% delle persone ha un ruolo di caregiver nella vita privata, cioè si prende cura di una persona cara come un figlio, un partner o un genitore anziano (The Caring Company, Harvard Business University, 2019). In Italia, un terzo degli over 50 si prende cura di almeno una persona anziana o non autosufficiente (Talenti Senza Età 2019. Donne e Uomini over 50 sul lavoro, Valore D).
Eppure quello dei caregiver è un ‘mondo sommerso’ all’interno delle imprese: in pochi comunicano sul luogo di lavoro di ricoprire questo ruolo di cura nella vita privata, per paura che ciò possa influire negativamente sulla propria carriera. Altre persone invece non sono proprio consapevoli di essere caregiver: da un’analisi dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed condotta su circa 10mila utenti emerge che solo l’8% si identifica nel ruolo di caregiver.
Ma quando si analizzano i dati dei partecipanti delle aziende che portano avanti percorsi di auto-consapevolezza dedicati ai caregiver, la percentuale di identificazione sale al 24% (con un incremento del 66%). Ciò avviene grazie al riconoscimento di questa dimensione identitaria, che ha l’effetto di dare significato all’esperienza e al ruolo di cura e di far fiorire talenti e competenze trasferibili sul lavoro.
Questo dato suggerisce alle aziende la necessità di un nuovo approccio al tema del caregiving. Nel mercato del welfare, le imprese offrono ai loro dipendenti ‘pacchetti’ con vari servizi di sostegno delle famiglie, che spesso però non vengono utilizzati perché troppo generali. Si crea così un mismatch tra domanda e offerta. Solo ascoltare i reali bisogni delle persone permette di ‘vedere’ i caregiver in azienda e di riconoscerne le singole necessità, con benefici sul loro benessere, engagement e produttività, evitando uno spreco di risorse economiche.
Tutti questi temi sono stati approfonditi nel Caring Company digital talk “Conoscere i talenti dei caregiver” promosso da Lifeed, con la partecipazione di Riccarda Zezza CEO di Lifeed e le testimonianze di esperti del mondo HR, la condivisione dei dati presentati da Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.
La consapevolezza rappresenta quindi il primo motore per far emergere le risorse dei caregiver. Come spiega Zezza, si tratta di una competenza soft che può diventare elemento di business se viene tradotta in cultura, nella percezione del valore di sé per arricchire la cultura aziendale. Per riuscirci, è necessaria una rivoluzione di prospettiva: i nuovi ruoli della nostra vita (come diventare caregiver) non devono combattere tra loro per ritagliarsi uno spazio. Piuttosto, ogni nuovo ruolo può avere un dialogo con le altre cose che siamo. Ciò favorisce la nostra efficacia ed empowerment, perché aumenta la nostra capacità sia di chiedere sia di dare agli altri.
Come si traduce tutto ciò nell’esperienza delle aziende? Per Carolina Azijn, People Experience Lead Italy di Mondelēz International, è necessario mettere in campo azioni integrate per rispondere ai molteplici bisogni delle persone nell’ottica di una nuova sinergia vita-lavoro e per far emergere e valorizzare il portato personale. Tra i vari servizi messi a disposizione dei dipendenti, l’azienda (il cui programma Mondelez Made Right è stato premiato dal Politecnico di Milano) ha attivato nel tempo spazi di confronto e comunità interne, come i ‘Diversity, Equity & Inclusion Ambassadors’, che hanno favorito la co-creazione di una cultura inclusiva dove i dipendenti sono attori attivi delle politiche aziendali.
Solo se l’azienda si mostra vicina alle persone e mette in pratica una cultura della cura, i caregiver non sono più invisibili. Ne è convinta Irina Maletta, referente People Care Unità People Care, Diversity & Inclusion di Enel Italia, secondo cui un’impresa deve lavorare per favorire l’incontro tra la dimensione di cura e quella di crescita professionale, aiutando i caregiver a conciliare i propri ruoli. Tra i numerosi progetti a supporto della popolazione aziendale, Enel ha istituito la figura del ‘gestore del cuore’: i dipendenti hanno a disposizione questa figura per evidenziare problematiche di salute e familiari. Il gestore del cuore supporta quindi i caregiver nel trovare la giusta collocazione e l’azienda, a sua volta, mette in campo attività di formazione, informazione e servizi di wellbeing e caring. Il team di People Care, Diversity and Inclusion Italia rappresenta un vero e proprio centro di ascolto in azienda, in particolare per sostenere i due pilastri del caring: genitorialità e caregiving.
Rosanna Maserati, Responsabile del Servizio Diversity e Inclusion di Crédit Agricole Italia, racconta che l’azienda considera il tempo dedicato alla cura come tempo prezioso. Crédit Agricole Italia ha quindi identificato due bisogni principali dei caregiver ai quali ha risposto: supporto emotivo-psicologico; servizi di sostegno economico e organizzativo. Fondamentale è sviluppare nei caregiver la consapevolezza di non essere un peso per l’azienda ma, al contrario, di vivere un’esperienza di cura familiare in grado di sviluppare competenze utili anche sul lavoro.
Quello del caregiver è un ruolo che spesso, nella cultura italiana, viene dato per scontato. Per valorizzarlo, serve un cambiamento culturale. Proprio su questo punto focalizza la propria attenzione Lucia Saracco, People Coordinator di Santander Consumer Bank, secondo cui bisogna partire creando un ambiente inclusivo, dove sia percepito il valore delle differenze e tutti (compresi i caregiver) possano far emergere le loro competenze a beneficio dell’azienda. Risulta quindi di fondamentale importanza il riconoscimento della dimensione di cura. Un ambiente inclusivo – aggiunge Saracco – genera innovazione e fa lavorare meglio. In azienda conta anche che tutti, a partire dal top management, usino un linguaggio inclusivo che rispetti le differenze e l’unicità di ognuno.
Per approfondire il tema del caregiving e capire come le aziende possono prendersi cura di chi ha cura, Lifeed ha realizzato il whitepaper dal titolo Tutto il valore dei caregiver.
La proposta di legge presentata alla Camera per un congedo di paternità retribuito a tre mesi (invece degli attuali 10 giorni) ha riacceso i riflettori su un tema che spesso rimane in secondo piano nel dibattito pubblico: la genitorialità è anche una questione maschile e, se condivisa, porta benefici sia ai padri sia alle madri.
Gli ultimi due anni di pandemia e di lavoro da remoto hanno reso ancora più evidente che il diritto alla parità nell’esercizio della genitorialità non è più rinviabile. Lo dimostra l’analisi condotta dall’Osservatorio Vita-Lavoro di Lifeed, secondo cui i padri lavoratori non percepiscono più il ruolo professionale come preponderante nella loro vita: si sentono infatti in primis padri (71%) e solo dopo professionisti (42%).
Come si riflette tutto questo in ambito lavorativo? Come possono le aziende valorizzare le esperienze di vita e le competenze dei loro collaboratori padri? Se ne è discusso nel corso del Caring Company Digital Talk Le competenze dei padri trasferite sul lavoro promosso da Lifeed, attraverso le testimonianze di manager di importanti aziende.
Innanzitutto ci si chiede se oggi la paternità sia visibile nelle aziende. Dall’analisi delle riflessioni dei lavoratori papà partecipanti ai percorsi Lifeed, risulta ancora alta (57%) la percentuale di padri che non si considerano “visti” sul luogo di lavoro. Ciò è dovuto a ostacoli che, secondo i padri stessi, vanno dalla cultura aziendale che tende a mantenere separata vita privata e lavoro, alla scarsa attenzione al work-life balance da parte dell’azienda, fino agli stereotipi personali.
Ma esistono anche abilitatori che, secondo i partecipanti, possono ‘accendere’ sul luogo di lavoro il potenziale della paternità: una cultura aziendale ‘caring’ che mostra attenzione al work-life balance e ai ruoli extra lavorativi delle persone; un clima di condivisione, supporto reciproco, apertura al dialogo tra colleghi, manager e collaboratori sul tema della paternità; iniziative ad hoc dedicate ai genitori; l’autodeterminazione e la volontà dei singoli.
La tipologia dell’azienda e i valori organizzativi sono fondamentali, insieme alla spinta individuale, per influenzare la visibilità della paternità in azienda. Ne è convinto Stefano Angilella, HR Director Avanade ICEG, secondo cui il contesto aziendale è l’elemento più importante per far sì che l’esperienza genitoriale sia un patrimonio di competenze per l’azienda stessa.
Tra le numerose iniziative di supporto alla genitorialità, Avanade ha realizzato un manifesto che impone il congedo di paternità obbligatorio: una misura che va nella direzione di favorire la gender equality e che rende strutturale questa opportunità, con l’obiettivo di far vivere l’esperienza genitoriale appieno, di pari passo con il percorso di crescita professionale.
Il percorso di visibilità dei padri rientra in un cambiamento culturale aziendale che, soprattutto in Italia, richiede tempo e il superamento di stereotipi sui ruoli privati e lavorativi. Per Ivan Basilico, Sviluppo risorse umane e welfare di Ferrovie Nord Milano tutti i soggetti coinvolti (dallo Stato alle singole persone) devono lavorare in modo collettivo per superare gli ostacoli.
In questa direzione, possono essere utili misure aziendali, come quelle attuate da FNM, che spostano il focus dalla quantità alla qualità del lavoro, valorizzano l’ascolto e la libertà di parlare della cura e della genitorialità come qualcosa che fa acquisire competenze trasversali tra vita e lavoro, la flessibilità di orari, lo Smart working e iniziative specifiche a favore dei genitori.
Anche Ruggero Dadamo, Chief People Officer di Sisal sostiene che a contare molto sia l’aspetto normativo. In mancanza di un maggiore supporto da parte dello Stato, le aziende possono mettersi in ascolto delle loro persone e renderle serene nel raccontare le proprie esperienze genitoriali che possono rompere stereotipi culturali, creando ‘papà-ambassador’ in azienda.
Sempre per accompagnare i dipendenti papà in questo cambiamento culturale, Sisal ha messo in campo anche misure a favore dei figli dei dipendenti per orientarli verso discipline STEM e per aumentare le loro competenze digitali, oltre a iniziative specifiche per supportare i dipendenti genitori durante la pandemia.
Matteo Gori, Global Marketing Director di Barilla, spiega che oggi ci troviamo all’interno di un ‘percorso evolutivo’ nel quale gli individui sono chiamati a prendere l’iniziativa e le aziende possono mettere in moto un circolo virtuoso. La singola persona può quindi giocare un ruolo molto importante per abilitare il cambiamento e, in questo senso, l’autodeterminazione è fondamentale.
Ma quali sono i vantaggi di questa visione nella vita privata e nel lavoro? Il congedo parentale – racconta Gori citando la propria esperienza personale – aiuta a raggiungere l’equilibrio dei carichi di cura, mentre la genitorialità rende manager migliori, più curiosi, con una visione laterale, consapevoli di poter vivere un distacco più sano tra vita privata e lavoro e capendo di avere priorità diverse.
Per rendere la paternità un fattore distintivo e positivo, va fatto prima un lavoro sui valori culturali dell’azienda. Secondo Alessandro Mancini, Responsabile Relazioni Sindacali e Welfare di Trenord, la funzione HR ha un ruolo centrale in questo senso e i percorsi formativi sono molto importanti per coinvolgere i padri nella realizzazione del cambiamento.
Mancini evidenzia come il fenomeno della denatalità in Italia sia preoccupante e per questo bisogna lavorare sul tema della paura delle persone di non essere all’altezza del compito di genitore o di perdere qualcos’altro di importante nella propria vita diventando genitori. Le iniziative durature di benessere organizzativo possono essere utili per valorizzare le unicità di ognuno e garantire un maggiore equilibrio dei carichi di cura.