Nel contesto incerto di oggi, favorire diversità e inclusione è diventato un motore di competitività per le aziende. Ciò è possibile attraverso una leadership che “fa crescere” le persone, facendo emergere i talenti che esprimono in tutte le loro dimensioni identitarie.

I manager influenzano il coinvolgimento e le performance del team più di qualsiasi altro fattore all’interno delle organizzazioni. Basti pensare che, secondo una ricerca di Gallup, il 70% della variazione dell’engagement dei gruppi di lavoro dipende esclusivamente dai manager.

Proprio per attivare tutto il potenziale delle persone nelle aziende, la soluzione Caring leadership di Lifeed permette ai People Manager di acquisire un nuovo stile di leadership in grado di gestire i cambiamenti e far emergere il meglio dai collaboratori attraverso la cura.

Un’esperienza ibrida unica

Il percorso unisce il meglio dell’esperienza individuale e di gruppo, sincrona e asincrona, per il massimo dell’engagement e dell’efficacia. La soluzione Caring leadership si distingue per i workshop in presenza, incontri con i nostri Master Trainer per introdurre i partecipanti alla Lifeed experience.

Nella modalità “social” le persone si incontrano e si confrontano, tra loro e col trainer. Nella modalità “individual” i partecipanti effettuano le attività riflessive e le pratiche real-life.

La hybrid classroom è strutturata con un’introduzione da parte del trainer, a cui seguono l’attività riflessiva su piattaforma Lifeed e la pratica real-life. Infine è previsto un momento di confronto e condivisione collettiva col trainer. In questo modo, i partecipanti sviluppano una leadership in grado di gestire i cambiamenti e fare emergere tutto il potenziale delle persone.

“La parola ‘diversità’ non mi piace perché ha in sé qualcosa di comparativo e una distanza che proprio non mi convince. Quando la verbalizzo sento sempre di tradire qualcosa che penso o sento. Un termine in sostituzione potrebbe essere ‘unicità’, perché tutti noi siamo capaci di coglierla nell’altro e pensiamo di essere unici. Facile? Per niente, perché per comprendere la propria unicità è necessario capire di cosa essa è composta, di cosa siamo fatti. Le ambizioni, i valori, le convinzioni, i talenti, ma anche le fragilità e le paure. Tutto questo deve essere allenato e dobbiamo prendercene cura”. 

Così Drusilla Foer si è rivolta al pubblico nel corso suo monologo nella terza serata del Festival di Sanremo 2022. “Non è facile entrare in contatto con la propria unicità, ma un modo lo avrei: si prendono per mano tutte le cose che ci abitano e si portano in alto, si sollevano insieme a noi, nella purezza dell’aria, in un grande abbraccio innamorato e gridiamo: ‘Che bellezza, tutte queste cose sono io’. Date un senso alla mia presenza su questo palco e tentiamo il vero atto rivoluzionario, che è ascolto di se stessi e degli altri, per far sì che le nostri convinzioni non diventino convenzioni, senza pregiudizi”.

Possiamo prendere spunto dalle parole di Drusilla Foer per ricordarci che ogni persona è unica e, come scriveva Walt Whitman, contiene moltitudini. Ognuno è “molte cose” contemporaneamente e possiede talenti nascosti che può esprimere, se valorizzati, sia nella vita privata sia nel lavoro. Prendersene cura e saperle vedere in noi stessi e negli altri ci rende più efficaci e abbassa la fatica del gestire la complessità di ogni giorno. Solo così è possibile scoprire la meraviglia nascosta nelle persone per innovare il mondo del lavoro.

Nel contesto incerto di oggi, favorire diversità e inclusione è diventato un fattore di competitività per le aziende. Come fare? Attraverso una caring leadership che “fa crescere” le persone, fa emergere la ricchezza di tutte le loro dimensioni identitarie e le guarda non solo come indice di complessità, ma come un valore.

Il segreto? Guardare le persone nella loro interezza

Le molteplici caratteristiche delle persone si possono infatti considerare come una fonte di ricchezza per l’azienda. La diversità può rappresentare un vero e proprio motore di innovazione: la chiave è saper guardare le persone con curiosità e coraggio, facendole fiorire nella loro interezza.

Saper vedere davvero le persone in azienda non è facile. Solo un vero ascolto dei loro bisogni, con gentilezza ed empatia (che tutti possiedono potenzialmente), che fa spazio alle emozioni e dà maggiore responsabilità e autonomia, permette di conoscere come stanno le persone e farle stare meglio.

Quando si parla di Human sustainability, è necessario riconoscere che gli esseri umani sono diversi, sfaccettati, in continuo cambiamento e quindi potenzialmente in continuo apprendimento, con capacità naturali di adattamento alle trasformazioni nel tempo.

Ma queste caratteristiche possono essere valorizzate solo se le aziende sanno allargare le loro mappe e vedere le persone in modo diverso, nella loro interezza, con curiosità, coraggio e cura: tutte parole che hanno alla loro radice “cuore”.

Foto: Ansa

La pandemia ha reso evidente ciò che già esisteva, ma che non veniva riconosciuto apertamente fino a quando la nostra quotidianità è stata resa visibile a tutti attraverso lo schermo del pc nelle riunioni da remoto a cui ci siamo abituati dal febbraio 2020 a oggi: vita e lavoro non sono due dimensioni separate, anzi, è dalla loro sinergia che dipende il benessere delle persone

Il fenomeno della Great resignation (l’ondata di dimissioni che nel 2021 ha interessato dapprima le imprese americane e poi quelle europee, comprese le italiane) rappresenta un indicatore in questo senso: le persone hanno messo il loro benessere al primo posto e lo stesso dovranno fare le aziende se non vorranno perdere talenti e competitività sul mercato.

Anche le modalità di lavoro sono cambiate radicalmente: dal lavoro da remoto ‘forzato’ di inizio pandemia, oggi si è passati a un’organizzazione ibrida tra lavoro in ufficio e Smart working, dalla quale le aziende non potranno più tornare indietro. L’acronimo VUCA (volatility, uncertainty, complexity, ambiguity) introdotto dall’US Army War College dopo la Guerra Fredda oggi è tornato di grande attualità per descrivere lo scenario in cui stiamo vivendo.

Lo confermano i dati dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, secondo cui il 62% delle persone dichiara di provare preoccupazione all’idea di “tornare alla normalità”. Il 69% dei dipendenti si aspetta che, per favorire il rientro in ufficio, la propria azienda dia spazio ai pensieri e agli stati d’animo, mentre il 68% ritiene che il manager ideale debba avere la dote dell’ascolto.

Oggi più che mai, le aziende sono chiamate a rispondere ai bisogni delle loro persone in termini di conciliazione vita-lavoro, employee satisfaction ed engagement. La sostenibilità e la produttività delle imprese passano anche da azioni mirate di welfare con l’obiettivo di aumentare il benessere e il coinvolgimento dei dipendenti, i quali potranno scoprire nuovi modi di prendersi cura di sé.

Dunque, wellbeing ed engagement saranno sempre più centrali nelle strategie aziendali, soprattutto nella fase di rientro graduale in ufficio dopo il lungo periodo di pandemia che ha aumentato i livelli di stress e incertezza.

Tutte le esperienze di vita contano

Solo sentendosi riconosciute come persone nella loro interezza, non parzialmente come professionisti, le persone possono stare meglio anche sul lavoro. D’altra parte, le esperienze della vita privata sono un’occasione di sviluppo di competenze trasferibili nella sfera professionale e rappresentano una vera e propria palestra per allenare quelle soft skill così utili in tutti i nostri ruoli di vita, compresi quelli lavorativi. 

Per esempio, la genitorialità può essere una straordinaria leva di crescita professionale. La relazione quotidiana, sfidante e coinvolgente con i figli è una palestra unica per migliorare competenze relazionali, organizzative e dell’innovazione. Anche i dipendenti caregiver sono una risorsa preziosa per le aziende. Prendersi cura di una persona cara è un’occasione di sviluppo di competenze come capacità di ascolto, gestione dello stress e orientamento al risultato (solo per citarne alcune) trasferibili nella sfera lavorativa.

Investire sul benessere delle persone è quindi una grande sfida – ma anche una grande opportunità – per la Direzione HR delle aziende che può vincere tale sfida solo riuscendo a vedere le persone nella loro interezza. Non bisogna dimenticarsi che la vita è una maestra: le aziende che sapranno valorizzare le esperienze di vita delle persone, facendone delle palestre eccezionali di lifelong learning, saranno le protagoniste del futuro.

Quella del benessere è solo una delle sfide principali della Direzione Risorse Umane. Nel whitepaper Sfide e soluzioni per l’HR nel post pandemia realizzato da Lifeed, la funzione HR può trovare tutti gli spunti di riflessione per trasformare questa fase di incertezza in un’occasione di crescita per le persone e per l’azienda.

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La diffusione del lavoro ibrido legato alle conseguenze della pandemia ha allargato le distanze all’interno delle organizzazioni. Per questo, oggi è diventato ancora più importante mantenere saldi i contatti tra le persone. Stimolare l’inclusione e il senso di appartenenza, attraverso un atteggiamento di cura, può aiutare organizzazioni e team di lavoro ad affrontare meglio i cambiamenti. Lo dimostra l’esperienza degli ultimi mesi: venuta meno la barriera che separava la dimensione professionale da quella familiare, le aziende hanno imparato a considerare le persone nella loro interezza, scoprendone nuovi bisogni e differenti fragilità.

Secondo un report della School of Management del Politecnico di Milano (Lifeed è partner della Ricerca 2021/2022 dell’Osservatorio HR Innovation Practice), nonostante otto lavoratori su 10 abbiano ben chiari gli obiettivi da raggiungere e il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione, nel complesso le persone sono meno ingaggiate e coinvolte nelle attività lavorative. Il 79% dichiara di aver raggiunto un buon equilibrio tra vita privata e lavorativa e il 76% considera l’ambiente di lavoro più inclusivo. Eppure, la distanza tra l’organizzazione e le persone si avverte ancora.

Stimolare coinvolgimento e motivazione

Comunicazione interna e gestione del clima aziendale sono i processi considerati più critici. Se nell’ultimo anno è rimasta invariata la proficiency, ovvero l’efficienza e l’accuratezza nell’esecuzione delle attività, è invece calata tra i lavoratori la proactivity, l’indicatore che misura la capacità di introdurre miglioramenti in maniera proattiva a vantaggio dell’organizzazione. Le persone meno ingaggiate e meno coinvolte hanno avuto difficoltà a sviluppare idee utili a migliorare le attività lavorative.

La componente dell’engagement che si è ridotta in misura maggiore è quella del “vigore”, ovvero la condizione psicologica legata all’energia e al desiderio di lavorare. L’impegno che le aziende hanno messo in atto per motivare i propri collaboratori non è bastato a farle sentire oggetto di reale attenzione. È necessario allora intervenire per rendere le nuove modalità di lavoro davvero sostenibili, mettere in campo iniziative che stimolino il coinvolgimento e la motivazione e strutturare forme di leadership più attente e “gentili”.

Sviluppare un nuovo stile di leadership 

Come conferma il report del Politecnico, è tempo di delineare un nuovo ruolo della Direzione HR, di “cura” e “guida” delle persone. Recuperare l’impegno dei collaboratori e stimolare in loro una maggiore motivazione significherebbe ‘convertire’ di nuovo alla causa del business e della produttività menti fresche e desiderose di collaborare. Investire nel benessere delle persone, senza perdere di vista le esigenze di business, è possibile: empatia e ascolto fanno bene alle persone e contribuiscono anche ad accrescere la produttività dell’azienda.

Ma come si sviluppa uno stile di leadership improntato alla cura? Essere leader “gentili” non significa dimenticare i propri compiti di guida e organizzazione. Al contrario, la gentilezza nel leader coincide con la capacità di riconoscere i bisogni delle persone e si manifesta nella scelta di permettere a tutti di esprimere in sicurezza emozioni e stati d’animo. Anche a se stessi: la vulnerabilità oggi può essere considerata un sintomo di forza del leader, non solo perché accorcia le distanze con i propri collaboratori, ma anche perché offre un esempio da seguire a quanti temono di mostrarsi deboli condividendo le proprie emozioni. Un leader empatico, ben predisposto all’ascolto e attento alle relazioni umane è un leader inclusivo, che riconosce il valore delle sue persone e lo trasforma in punti di forza al servizio del business.

Allenare il “muscolo” della compassione

Come dice Richard Davidson, fondatore del Centro per la Ricerca su Menti Sane dell’Università del Winsconsin, anche la compassione, come le competenze fisiche e accademiche, può essere allenata mediante la formazione e la pratica. La compassione esercitata dall’azienda contribuisce ad alimentare fiducia e collaborazione tra i lavoratori. Per Davidson, “le persone possono effettivamente costruire il loro ‘muscolo’ della compassione e rispondere alle sofferenze degli altri con attenzione e desiderio di aiutare”. Proprio nelle situazioni di forte stress emotivo, è importante prendersi cura del benessere psico-fisico delle persone.

I primi a dover allenare questo nuovo “muscolo” sono i Direttori HR, chiamati a sostenere le persone nel recupero dell’entusiasmo e della motivazione. Va ripristinata anche quella dimensione di socializzazione, venuta a mancare negli ultimi mesi, per ridare nuovo senso all’idea di appartenenza, lasciandosi alle spalle il senso di precarietà dovuto all’emergenza. Proviamo a imparare dall’esperienza vissuta: la sfida è interiorizzare e far tesoro dei cambiamenti portati dal modello di lavoro da remoto nella cultura aziendale e nei comportamenti delle persone, passando da una logica legata al presenzialismo a una basata sull’attenzione ai risultati. E, soprattutto, alle persone che li hanno ottenuti.

Per le donne del terzo millennio, la domanda è: “Che cosa hanno di diverso le donne? Qual è il contributo unico che possono portare oggi al mondo?”.

Le donne hanno un’eredità speciale e oggi hanno la possibilità e la responsabilità di portarla al potere.

Il Dna delle donne è cablato con la nascita e la cura: un tratto che ha consentito la sopravvivenza della nostra specie tanto quanto la nostra capacità di cacciare, se non di più.

Poiché nessuna specie in Natura ha bisogno di cura alla nascita più a lungo di quella umana, l’essere sociali è una condizione della sopravvivenza.

È sempre stato così. È un modello di caring leadership estremamente potente, che le donne possono incarnare e diffondere, portando una nuova prospettiva nel mondo.

In cosa consiste, dunque, la caring leadership femminile? Lo spiega Riccarda Zezza in questo video tratto dalla sua lectio al TEDx di Ortygia, pubblicato sul sito ted.com e tradotto in cinque lingue.

Di seguito il testo integrale dello speech:

Che cos’è il potere?
Se immagini il potere: che cosa vedi?
Ho fatto la stessa domanda all’oracolo della ricerca immagini di Google
Ed ecco che cosa ne è uscito: Il potere è bianco e nero
Ha a che fare con la forza,
Il potere è un burattinaio
Riguarda la prepotenza
Il potere è… un uomo bianco.
Una spada è un simbolo di potere, con una spada puoi imporre la tua volontà
Più affilata è, meglio è
punta al cielo: più alta è, meglio è.
Un missile è un simbolo di potere
una minaccia tecnologica alla vita: la logica del dominio
resa potente dal progresso
Il potere svetta nel cielo: il più lontano possibile dal suolo.
Ha la forma di una spada, di un missile, di una torre,
è solitario, appuntito e pericoloso
più alto è, meglio è, più grande è, meglio è.
…si, il potere può fiorire
ma lo fa come un albero: se genera la vita,
è solo un’esternalità della sua tendenza naturale ad elevarsi.
Attraverso i secoli, il potere si è sviluppato
distaccandosi dalle cose terrene della vita,
lasciandole indietro intenzionalmente
perché non ne trattenessero la crescita.
…ma perché è così?
Quando abbiamo deciso che il potere avrebbe riguardato la supremazia, la forza e la vittoria sugli altri?
…abbiamo mai avuto un’alternativa?
La fase più antica e più lunga della nostra storia, l’era preistorica:
ecco quando il modello attuale di potere
ha piantato le sue radici
in un istinto primario che ci ha tenuti in vita:
la nostra capacità di cacciare e lottare,
giocando un gioco a somma zero con le altre specie viventi.
Si, la caccia era un gioco a somma zero:
non era possibile finire pari.
Gli uomini potevano solo vincere o perdere,
e la conseguenza era la sopravvivenza o la morte.
Si tratta di un modello potente, che ha “cablato” il cervello degli uomini
al punto che “attacco o fuga” è diventata la sua risposta automatica allo stress
e oggi questo schema governa la maggior parte delle attività umane:
nell’arena politica come in quella economica,
applichiamo senza saperlo una prospettiva a somma zero,
gareggiamo, combattiamo, vinciamo o perdiamo, sempre.
Ma certo!
Come potremmo disobbedire un istinto così profondo e radicato?
Ed è un istinto degli uomini…
La ragione per cui la parola “anthropos” significa sia “essere umano” che “uomo”
non è la mancanza di fantasia dei linguisti:
rivela piuttosto una profonda verità.
Per molti secoli, per millenni
la storia degli uomini è concisa con quella dell’umanità
erano maschi i creatori e i narratori,
i loro istinti e le loro attitudini hanno dato forma al mondo così come lo vediamo oggi:
la specie umana porta l’eredità di millenni di… virilità.
oggi le donne rappresentano solo il 5% del potere economico nel mondo, nonostante siano il 50% della popolazione mondiale
Su un totale di 146 paesi, ci sono solo 15 leader politici donne,
otto dei quali sono il primo caso di donna al potere in quel Paese.
Il “business case” della diversità in realtà è ormai solido,
e le donne sono state invitate ad unirsi al gioco (come vedete).
Le porte del potere sono aperte,
ci sono programmi che ci insegnano come comportarci per essere adeguate,
ci sono quote che liberano posti per noi,
e agli uomini viene chiesto di fare uno sforzo aggiuntivo per non seguire il proprio istinto
nel selezionare pari che gli somiglino e si comportino come loro.
Le donne hanno ricevuto un invito che suona un po’ come:
«Siete le benvenute al nostro gioco: ecco le regole.
Per favore, però, non aspettatevi di poterle cambiare perché si adattino anche al VOSTRO talento alle vostre inclinazioni. »
Così, le donne hanno iniziato a entrare in partita:
hanno potuto indossare uniformi, per adattarsi meglio
e non dare fastidio a chi c’era prima di loro.
Le donne hanno potuto imparare a correre, competere, combattere per la vittoria…
hanno imparato anche a giocare a calcio… e a farselo piacere!
…hanno potuto anche cambiare qualche colore, purché questo non mettesse in discussione la “divisa del potere”– e purché non pretendessero di indossare la cravatta!
Alcune donne sono entrate, in un modo o nell’altro:
hanno dimostrato di saper giocare quel gioco, sedere a quel tavolo, seguire quelle regole…
ma perché così poche?
Perché, nonostante gli evidenti sforzi di trascinare le donne al potere,
le donne non ci stanno arrivando?
Sembra che abbiano bisogno di una ragione dannatamente buona
per decidere di abbandonare le loro comode posizioni di minoranza
e NON la stanno vedendo.
Beh, mi ricordo che quando sono diventata dirigente
il capo HR mi ha comunicato con orgoglio che adesso avrei potuto avere… l’auto più bella!
E io ero un po’ perplessa, perché non condividevo la sua eccitazione:
non ero arrivata fin lì per avere un’auto più grande!
Non si tratta di un dettaglio:
è il narratore a definire chi vince e qual è il premio;
se il premio non ti piace, probabilmente è perché non hai contribuito a scrivere quella storia
e, cosa anche più grave, questo ti rende meno interessata a scriverla anche in futuro.
Perché mai le donne dovrebbero entrare nella ressa per scrivere la definizione di potere?
Il posto di minoranza che hanno occupato negli ultimi 5.000 anni
ha reso loro possibile guardare e protestare,
con le mani libere per aggiustare tutte le piccole cose intorno a loro che non funzionano, giorno dopo giorno.
Libere di non firmare contratti che non le convincono,
e di non seguire strade scomode.
Ci vogliono un enorme sforzo e una grande motivazione
per aspirare a un potere con cui non ti identifichi
…specialmente se la ricompensa è un’automobile!
Sembra che lo sforzo che sta facendo la nostra società
sia quello di lasciare le cose come stanno, chiedendo alle donne di adattarsi ai valori attuali, come la finanza, la tecnologia, la competizione….
Beh, io spero che questo tentativo fallisca, perché ciò che abbiamo oggi
è un’opportunità unica per la nostra specie di evolvere:
se le donne cambiano i valori attuali, invece di esserne cambiate.
Io credo che la nostra chiamata in quanto donne non sia ad UNIRCI al gioco… ma a CAMBIARLO,
non ad adattarci al potere, né a sostituirlo, ma ad arricchirlo.
Fino a 3.000 anni prima di Cristo,
le civiltà pre-europee erano fondate sulla celebrazione della vita
adoravano la dea della fertilità e,
come ha detto la sociologa Riane Eisler,
credevano nel LINKING più che nel RANKING
non c’era una classifica tra uomini e donne:
si completavano a vicenda, e il loro potere congiunto si raddoppiava.
In queste civiltà, come ha detto Merlin Stone: Dio era una donna.
La domanda per noi, donne del terzo millennio, è:
che cosa hanno di diverso le donne?
Qual è il contributo unico che possiamo portare oggi al mondo?
Io credo che le donne abbiano un’eredità speciale, e che oggi abbiamo la possibilità e la responsabilità di portarla al potere.
Il DNA delle donne è cablato con la nascita e la cura:
un tratto che ha consentito la sopravvivenza della nostra specie
tanto quanto la nostra capacità di cacciare, se non di più.
Poiché nessuna specie in Natura ha bisogno di cura alla nascita più a lungo della nostra
e in nessun’altra specie quanto in quella umana, l’essere sociali è una condizione della sopravvivenza
E’ sempre stato così.
E’ un modello estremamente potente,
che le donne possono incarnare e diffondere,
portando una nuova prospettiva nel mondo.
Una ricerca fatta nel 2000 dalla professoressa Shelley Taylor ha rivelato che la reazione delle donne in caso di pericolo non è di “attacco o fuga”.
La Taylor scrive: Da un punto di vista evolutivo, le donne si sono evolute come caregiver;
Nel modello “attacca o scappa”, se le donne combattono e perdono, abbandonano i figli.
Allo stesso modo, è molto difficoltoso scappare se porti con te un bambino e non hai intenzione di abbandonarlo.
Quindi, come reagiscono le donne in caso di minaccia: qual è il loro modello adattivo?
Primo: la ricerca ha scoperto che le donne sotto stress solitamente trascorrono più tempo a prendersi cura dei loro figli. Questo istinto DI CURA è qualcosa di così radicato nelle donne che non hanno bisogno di essere madri biologiche per averlo.
Secondo: in momenti di stress, le donne formano legami sociali stretti per cercare alleati: questo è il cosiddetto istinto DI ALLEANZA.
Significa che in situazioni di stress le donne creano alleanze, evitano scontri, si basano sulle interdipendenze. Questo è un altro istinto primario delle donne.
…quanto pesantemente il modello maschile attacca o scappa ha influenzato il nostro attuale modello di potere?
…che meraviglia sarebbe poterlo arricchire con l’attitudine più femminile del “cura e crea alleanze”?
Questo è il modo in cui le donne possono contagiare il potere, con la cura e le alleanze:
un modello che viene da un modello evolutivo così vicino e facile per noi.
Come gettare le basi di questo potere, dove ne impariamo le pratiche e come possiamo condividerle con il mondo?
Ecco la buona notizia: abbiamo già tutto: tutto a portata di mano, tutto a “casa”.
Ho un lavoro molto impegnativo, e torno a casa tutti i giorni.
A casa, i miei figli mi riportano al significato terrestre di tutto:
Mi forniscono l’ispirazione e la realtà
completano i miei pensieri più profondi con i dettagli concreti della vita
nutrono il mio cuore con l’amore che mi serve per ricaricarmi.
Stare con loro mi connette con l’alto e con il basso,
con il piccolo e con il grande, con l’ora e con il per sempre.
Tutto ciò è impossibile da lasciare indietro per una madre.
Tutto ciò, a disposizione sia degli uomini che delle donne, può riconnettere il potere alla realtà della vita
ridandogli le radici che gli sono mancate per troppo tempo.
Jonh Stuart Mill sostiene che “non ci sono leggi economiche assolute: le scelte che facciamo sono politiche, e alla fine sono scelte umane”.
Quindi… le cose non devono essere come sono sempre state!
Se riconnettiamo il potere alla vita, se lo portiamo più vicino alla realtà, accadranno cose magiche…
– sui giornali, leggeremo di più a proposito dell’educazione dei nostri figli e di meno degli ultimi risultati finanziari
– spetteremo di considerare normale che un calciatore guadagni in un giorno ciò che un insegnante guadagna in un anno
– compariranno dei fan club dove le persone gioiscono per la fine della povertà
con la stessa passione ed energia che vediamo oggi per una finale di Champions League
– non vedo l’ora che sia il giorno in cui smetteremo di considerare la guerra come un’espressione di potere
– e inizieremo a festeggiare un potere che riguarda la vita, di nuovo.
Riportando la vita nel potere:
questo è il modo in cui le donne possono cambiare il mondo.
“Questo” potere risuona nelle donne dalle radici più profonde di chi siamo,
chiamandoci attraverso la nostra responsabilità verso la vita,
che non può più essere limitata solo alle nostre case.
Dobbiamo giocare questo gioco e, dato che non ci adatteremo,
lo renderemo migliore per tutti.
Ancora simile agli uomini e più simile alle donne
Non siamo chiamate a farlo perché è “giusto”,
né perché le donne “dovrebbero essere rappresentate”…
qui non si tratta di aiutare le donne…
…ma di aiutare il mondo attraverso le donne.