“Never let a good crisis go to waste”. Dalla citazione di Wiston Churchill possiamo imparare molto per definire oggi nuovi approcci e nuovi modi di disegnare il futuro.
Si è tenuta il 28 maggio scorso la nostra quinta Life Ready Conference, il ciclo di eventi in live streaming che intende raccogliere idee, riflessioni e buone prassi per attraversare la crisi e affrontare il new normal che ci aspetta dopo il Covid-19. Cosa dobbiamo imparare di nuovo per affrontare il mondo del lavoro che ci aspetterà nei prossimi mesi? Quali sono le competenze soft che ci serviranno per operare con efficacia in una situazione di incertezza e continuo cambiamento? Come possiamo imparare a dis-imparare con flessibilità e rapidità?
“Bisogna disimparare per poter vedere il modello esistente come una sola delle tante possibilità, invece che come l’unica verità possibile”, spiega la nostra CEO Riccarda Zezza. “Dalle nostre survey, il 91% dei dipendenti si aspetta dalle proprie aziende un miglioramento dei processi grazie a quello che abbiamo appreso in questo periodo”.
Abbiamo affrontato questi temi con 6 rappresentanti di grandi associazioni imprenditoriali e manageriali, che oggi più che mai hanno il compito di influenzare la cultura d’impresa e accompagnare le organizzazioni nella transizione.
Video dell’intero live streaming
“Le esigenze di cambiamento non nascono con la crisi”, puntualizza Nicola Spagnuolo, Direttore del Centro di Formazione Management del Terziario (CFMT), associazione in cui confluiscono novemila aziende del settore e circa 24mila manager. “Le aziende che affronteranno in modo più brillante il prossimo futuro sono le realtà che avevano già abbracciato il cambiamento.
La capacità di cambiare va, infatti, allenata nel tempo. Non basta una crisi per decidere di rivoluzionare l’assetto di un’azienda. Il momento attuale richiede non tanto di acquisire nuove competenze, ma di rivederne l’ordine di priorità. “Affinché il nostro approccio possa essere nuovo rispetto al passato, dobbiamo prima rimuovere i retaggi su cui sono fondate e poi ‘reinstallare’ le competenze”.
“Bisogna evitare che ciò che oggi viene chiamato new normal diventi invece un nuovo passato”, dice Elena David, presidente di Aiceo, l’Associazione italiana dei CEO. “Occorre disimparare la falsa retorica che pone l’uomo al centro solo per ragioni di fragilità: al contrario, dev’essere una forma di ricerca per ampliare i propri spazi cognitivi e di relazione. E occorre disimparare anche il potere dell’improvvisazione per ridare valore alle competenze”.
“Dobbiamo disimparare un mondo in cui il potere è affidato a uomini che scelgono altri uomini: come donna, vorrei che si imparasse un sistema basato sul merito e sulle pari competenze. Serve il coraggio di fare cose che non siano solo una reazione al momento di emergenza, ma che consentano un cambiamento vero”.
“Le imprese devono prendersi cura delle persone, non soltanto ascoltarle ma ingaggiarle”, sottolinea Isabella Falautano, componente del Board of Directors di Valore D e Chief Communication&Stakeholder Engagement Officer di Illimity.
“Nelle fasi Vuca, il CEO dev’essere anche un Chief Emotional Officer e saper stare vicino alle persone in maniera autentica. Tra il momento della crisi e quello in cui scatta il cambiamento, non bisogna dimenticarsi di valorizzare l’attesa. Aspettare aiuta a grattare via il superfluo e riscoprire l’essenza dell’organizzazione. Ciò a cui rimanere ancorati quando tutto sembra incerto. Quando si è in una fase di attesa, è importante utilizzare il tempo per la progettualità”.
Ad aver affrontato la sfida più grande sono state forse proprio le piccole organizzazioni. Chiamate a scardinare l’idea che la strada battuta sia la sola percorribile e che l’imprenditore debba prendere le sue decisioni in solitudine. “Le persone per natura si adattano ed evolvono, e le aziende sono fatte da persone. Le Pmi non sono altro che famiglie allargate”. Alessandra Pilia è Responsabile della Comunicazione di Api, l’Associazione Piccole e Medie Industrie che rappresenta circa duemila piccole imprese lombarde, per un totale di 38mila lavoratori. Secondo un’indagine condotta dalla stessa Api, in tempi di crisi sanitaria ed economica il 68% degli associati è preoccupato per il futuro dei propri collaboratori e delle loro famiglie.
“I piccoli imprenditori si sono trovati a essere community manager delle loro organizzazioni, usando chat e strumenti che non erano abituati a utilizzare per dare informazioni che rassicurassero i dipendenti”. Il focus, ancora una volta, è la persona. “L’azienda non nasce e muore con l’imprenditore, ma vive e va oltre le mura e il capannone. Il primo innovation manager dell’azienda è colui che accetta di non sapere e disimpara la cultura che lo ha portato fino a lì, per ingaggiare collaboratori che abbiano il coraggio di dirgli ‘ora facciamo in un altro modo’”.
La crisi degli ultimi mesi ha rallentato molti aspetti della vita personale e lavorativa, ma ne ha anche accelerati tanti altri. A partire dalla decisione di abbandonare schemi e comportamenti non più attuali. “In una situazione di ambiguità non hai conoscenze interpretative da portare avanti e hai bisogno continuamente di formulare domande”, sostiene Paola Previdi, CEO di SFC, Sistemi Formativi Confindustria.
“Oggi ci viene richiesto di reinquadrare i problemi e per farlo servono team misti, che uniscano competenze verticali e orizzontali. Chi gestisce un’azienda deve saper coordinare e tenere a bordo i collaboratori. Alcune imprese hanno attivato in maniera stabile lo smart working, molte hanno usato questo tempo sospeso per formare i loro dipendenti e per riscoprire la capacità di essere resilienti. La normalità in futuro sarà la gestione di situazioni eccezionali e complesse: ci saranno altri possibili cigni neri e bisognerà essere in grado di trarne vantaggio, stuzzicando il nostro cervello con l’innovazione”.
“Si ha la percezione che molti oggi stiano cercando di fare tutto il possibile per tornare al mondo che conoscevano prima, riproponendo schemi del passato che però saranno ancora più indeboliti di prima. Noi professionisti, invece, abbiamo l’obbligo di riflettere sulle chiavi del futuro”, dice Paolo Ravà, Presidente dell’Ordine dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili di Genova. “Dobbiamo abituarci a guardare al tema con occhi nuovi: se i gestori dell’impresa continueranno a dover operare nel sistema organizzativo, legale, finanziario e di governance a cui sono abituati, sarà un fallimento. Il modello di creazione del profitto dev’essere sempre prioritario, ma va inserito in un sistema più allargato”.
“È necessario raccontare ai giovani una professione diversa, anche se a immaginarla non sarà la generazione di mezzo. Dobbiamo arrivare a un patto tra generazioni: essere d’aiuto a chi sa prendere rischi, ma anche imparare a prendere i nostri. E mettersi in gioco per un’economia che si basi sulle competenze e non sulle relazioni”.
Avete presente tutto quello che sapevate sui valori della vostra azienda, sugli obiettivi, sul clima e sulle relazioni interne ed esterne? Se non lo avete già fatto durante la pandemia, allora proviamo a metterlo in discussione proprio adesso.
Ogni azione che viene messa in atto ora avrà probabilmente un impatto determinante sul presente e sul futuro dell’azienda. Quando l’emergenza sarà finita, le persone ricorderanno tutto ciò che l’impresa ha saputo o non ha saputo gestire sul piano organizzativo, culturale, sociale, sanitario. Pensate all’11 settembre 2001. Dove eravate, con chi, cosa stavate facendo nel momento in cui avete appreso la notizia dell’attentato terroristico? Potremmo scommettere che ce lo ricordiamo tutti perfettamente. La nostra mente funziona così: il trauma fissa in essa anche tutto il contesto. La pandemia che ci siamo inaspettatamente trovati ad affrontare, come ogni crisi, ha portato ad una transizione da cui non è più possibile tornare indietro. Tutto quello che ci dava sicurezza, come le relazioni tra i colleghi, la modalità di gestione del personale, i comportamenti dei manager, sono inevitabilmente cambiati. L’emergenza sanitaria ci ha richiesto un rapidissimo mutamento di abitudini: è dimostrato che le realtà con una cultura aziendale ben definita e radicata hanno attutito meglio il colpo.
Ma la crisi obbliga comunque ad uscire dalla propria zona di comfort. Non a caso, il cambiamento spesso viene associato al lutto, dal momento che richiede le stesse risorse per essere elaborato. Se esso, poi, è collettivo, occorre compiere lo sforzo di trovare una strada comune per affrontarlo. Il primo passo è senz’altro comunicativo: sapere che anche gli altri vivono le nostre stesse difficoltà ci aiuta a sentirci meno soli. Sappiamo bene che, ora, la salute dei collaboratori è la priorità. Prendersi cura di sé e degli altri diventa un elemento chiave nella quotidianità aziendale. Ciò non comprende solo lo stato di salute fisica, ma anche quella emotiva. Ansia, stress, disturbi del sonno, difficoltà cognitive sono purtroppo diventati sintomi di un malessere che colpisce forse più del Covid-19.
Nella “fase 1” tante aziende si sono preoccupate in primo luogo del benessere fisico ed economico dei propri dipendenti. Lo sforzo è stato concentrato sul “qui ed ora”: misure di sicurezza, sanificazione degli ambienti, attivazione, ove possibile, del lavoro a distanza, garanzie economiche. È stato tutto talmente improvviso e inaspettato che difficilmente qualcuno avrebbe potuto opporsi alle decisioni. La “fase 2”, però, ha visto aumentare i bisogni e le richieste. Essa ci ha mostrato come l’emergenza si sarebbe protratta a tempo indeterminato. Ci siamo resi conto che alcuni settori continuavano a crescere, altri erano in forte crisi. Abbiamo capito che le scuole sarebbero rimaste chiuse, che lavorare da casa era possibile, che ridurre gli spostamenti ha giovato al tempo per sé e per la famiglia, ma anche all’ambiente.
Abbiamo cominciato a contare meno vittime e, quindi, a scovare qualche aspetto positivo della nuova condizione. L’essere umano è per natura estremamente adattabile alle circostanze: in fondo, è pur sempre un animale, che rientra in un contesto biologicamente evolutivo.
Si sono fatte strada nuove consapevolezze, quelle di chi si sente un po’ un “sopravvissuto”: la leadership, per prima, è stata chiamata ad un cambiamento. I papà e le mamme, per i figli, incarnano “il supereroe”. La stessa cosa accade in azienda nei confronti del leader. Ma di fronte ad un’emergenza sanitaria, non tutti abbiamo la vocazione all’eroismo. Anche perché, a volte, sfocia in avventatezza. La via di mezzo è il coraggio, quel sano atteggiamento di consapevolezza dei rischi, ma anche degli strumenti per superarli in sicurezza. Allora, in questo momento, è più che mai vero che il leader deve agire nell’ottica del “buon padre di famiglia”, come dice addirittura il principio che ispira le nostre leggi civili. Quell’atteggiamento di tutela e, insieme, di apertura e rassicurazione che abbiamo avuto coi nostri figli in questo periodo è senz’altro una competenza trasversale che fa bene anche all’azienda.
La crisi ha enfatizzato alcuni aspetti della cultura aziendale più legati all’impatto sulla società. Un esempio sono i nuovi spot pubblicitari girati in questo periodo: molti mettono l’accento sulla costruzione di una “nuova umanità”. Saremo davvero persone migliori? Difficile a dirsi ora, anche se è auspicabile. Di certo, ci auguriamo che le aziende non torneranno indietro rispetto ai comportamenti virtuosi attuati. Dallo smart working alla digitalizzazione, dal sostegno alle famiglie sino alla sicurezza dei luoghi di lavoro, dalla comunicazione alla condivisione di strategie, si sono compiuti passi enormi a cui, d’ora in poi, difficilmente le persone vorranno rinunciare.
Analizzate queste situazioni, ora bisogna affrontare la “fase 3”. Come si fa a non disperdere tutto questo? Nessuna rivoluzione acquisisce un senso se non la si governa e non si mettono a frutto gli insegnamenti. Siamo certi che la pandemia avrà messo in evidenza talenti inaspettati, nuove competenze trasversali, capacità finora non considerate utili sul luogo di lavoro. Ma nella “fase 3” non c’è più spazio per l’improvvisazione: è il tempo dell’organizzazione. Ci sono aziende che hanno vissuto l’euforia di sentirsi un po’ eroiche: pensiamo a quelle che hanno convertito la produzione o che già prima producevano mascherine, respiratori, medicinali, presidi sanitari e di sicurezza. Al contrario, pensiamo a chi ha perso ogni motivazione per andare avanti: operatori del turismo, dei servizi, che si sono trovati a dover ricorrere agli ammortizzatori sociali, che hanno davanti a sé una lunga salita prima di ritornare ad una parvenza di normalità. Situazioni opposte che rischiano di implodere, per motivi del tutto diversi. Per i dipendenti, è il momento di rivedere obiettivi, engagement, retention, prassi organizzative. Come?
I dati emersi dalla survey che abbiamo sottoposto a circa 1.500 lavoratori e lavoratrici parlano chiaro: il 69% delle persone si aspetta che, per favorire il rientro, la propria azienda dia spazio ai pensieri e agli stati d’animo delle persone. Il 62% dichiara di provare preoccupazione all’idea di “tornare alla normalità”, perché il futuro sembra ancora incerto. Il 68% ritiene fondamentale la dote di ascolto nel proprio manager.
Il programma digitale Lifeed Crisi è in grado di sostenere le aziende nella delicata fase di ripresa. Grazie ai moduli formativi esso permette ai partecipanti non solo di elaborare la crisi, ma anche di interrogarsi sulle life skill che ha fatto emergere. Raggiunta la consapevolezza, grazie a un diario individuale che tiene il passo della formazione vera e propria, si possono condividere idee, sensazioni e stati d’animo in una stanza comune di discussione. Una nuova visione, una rinnovata cultura aziendale possono così andare costruendosi proprio a partire da ciò che i collaboratori esprimono. Ammettere, ad esempio, la paura per il futuro e poi condividerla è il passo per superarla. Le emozioni negative, se non affrontate ed elaborate, possono diffondersi in azienda proprio al pari del virus.
Lifeed Crisi consente di affrontare il cambiamento: mette tutta la popolazione aziendale in condizione di acquisire consapevolezza delle nuove competenze chiave allenate durante la crisi e di co-progettare un processo di rinnovamento della cultura aziendale. Ogni collaboratore si trova al centro e si trasforma in motore di cambiamento. Il percorso formativo è basato sul Life Based Learning: nella transizione le persone tirano fuori competenze ed energie inaspettate e le aziende hanno l’opportunità di migliorare i processi e di innovare. Esso, inoltre, favorisce la riduzione dello stress: le persone si raccontano, condividono e mettono a fuoco paure, incertezze e desideri, trovando nuovi punti di riferimento dentro di sé. Ogni modulo si conclude con l’invito a contribuire alla “narrazione collettiva” insieme ai colleghi, per confrontarsi e arricchirsi reciprocamente, generare contenuti per l’azienda, a partire dai propri bisogni, riflessioni, idee. I partecipanti diventano così anche “autori” del cambiamento, per restituire valore alla propria azienda: se la pandemia ci ha insegnato una cosa, è che “nessuno si salva da solo”.
Se Vasco Rossi si fosse ispirato all’esperienza lavorativa dei nostri nonni, forse anche a quella dei nostri genitori, probabilmente non avrebbe scritto “Vita spericolata”, quanto piuttosto “Vita prudente”. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno conosciuto senz’altro momenti storici difficili, ma la professione, almeno quella, era una certezza. Esisteva il “mito del posto fisso”, quello che, ormai, si studia sui libri di scuola, a cavallo tra la storia e la letteratura. Le tappe della vita erano ben definite, l’approdo al contratto a tempo indeterminato segnava un engagement definitivo. Se avessimo raccontato loro della letteratura scientifica che esiste oggi su questo tema, probabilmente avrebbero sorriso. Eppure, non è affatto scontato che fossero più appagati e realizzati delle nuove generazioni. Oggi le transizioni lavorative sono fisiologiche: anche chi segue un iter tutto sommato lineare, molto difficilmente potrà esimersi dallo sperimentare almeno qualche tirocinio, un contratto di apprendistato, collaborazioni esterne, per poi approdare ad una certa stabilità contrattuale, ma, anche in questo caso, non escludendo diversi cambi di azienda.
Pier Giovanni Bresciani, Docente di Psicologia del Lavoro presso l’Università di Urbino e Presidente della SIPLO – Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, che è uno dei massimi esperti di transizioni in Italia, nei suoi testi fondamentali (cfr. ad es. Biografie in transizione. I progetti lavorativi all’epoca della flessibilità. Franco Angeli, Milano, 2006) osserva giustamente come queste transizioni lavorative avvengano oggi in un contesto sociale molto più “liquido”, per dirla con Bauman. L’incertezza soggettiva, data da una società che ha abdicato al proprio ruolo di accompagnamento alla crescita dell’individuo, difficilmente viene sostenuta dalle contromisure messe in atto nel mondo della formazione e del lavoro. Come fa notare Bresciani, per affrontare la transizione le persone utilizzano e mescolano elementi diversi, che fanno parte della propria dotazione individuale di risorse. Ecco perché ogni cambiamento, anche se positivo, è comunque un momento delicato nella vita. Ogni ‘spostamento’ richiede sempre al soggetto una ridefinizione cognitiva, a volte anche molto complessa: essa evoca sempre ansie, paure, insicurezze, ci pone di fronte alle nostre scelte e al giudizio che abbiamo su noi stessi, ma anche a quello degli altri (o al timore di quello che gli altri vedono in noi). Lasciare il noto per l’ignoto comporta emozioni complesse, la cui elaborazione richiede risorse personali importanti.
Pensiamo alla maternità e alla paternità. Questo è forse il più grande e significativo cambiamento di vita che una persona può vivere. Ebbene, anche la maternità e la paternità sono delle transizioni e per noi, proprio per questo, sono anche delle palestre di efficacia professionale. Qualunque sia il nostro ruolo in azienda, quello che apprendiamo diventando genitori può essere messo a frutto anche sul lavoro. Quasi inevitabilmente il genitore aumenterà la propria capacità di ascolto, di mediazione, di comprensione dei colleghi e collaboratori. Il modello di leadership, di gestione del conflitto, persino quello della gestione del proprio tempo (e, di conseguenza, la produttività) possono cambiare positivamente, se guidati ed accompagnati a riconoscere le abilità che la transizione ha portato con sé.
Pensiamo, più in generale, a quella che definiamo “la nostra esperienza”. È quella che descriviamo sul curriculum, ma anche quella che avanziamo come argomento di conversazione, o per consigliare qualcuno. “Secondo la mia esperienza” è di solito l’incipit che fa sì che il nostro interlocutore difficilmente possa eccepire o ribattere: è un argomento quasi assoluto, insindacabile, perché presenta un aspetto di sé come un fatto, non come opinione. Ma quella condizione di vita che definiamo esperienza la costruiamo proprio transizione dopo transizione. La difficoltà consiste nell’affrontarla, elaborarla, metterla a frutto, anche sul lavoro, perché questo importante bagaglio personale porta con sé l’acquisizione di competenze. Difficilmente, tuttavia, le cosiddette life skills, o anche le soft skills, possono essere riconosciute e trasformate in un punto di forza in autonomia. Non è la scuola che ci insegna a metterle in pratica, nemmeno l’Università. Con Lifeed, la formazione tra digitale e vita reale che valorizza le esperienze di vita e le rende risorse preziose per l’attività lavorativa, abbiamo pensato e strutturato addirittura un master (anzi, più di uno) per apprendere l’enorme potenziale di sviluppo che la transizione porta con sé. Con cinque anni di esperienza alle spalle, sappiamo che le persone che attraversano una transizione possono uscire più deboli o molto più forti: dipende da come la attraversano.
L’esempio che abbiamo fatto (diventare genitori) è riferito ad una cosa bella. Ma non tutte le transizioni derivano da un evento positivo. Pensiamo all’emergenza sanitaria data dal Covid-19. Essa ha portato cambiamenti, in noi e nel mondo del lavoro, da cui sarà difficile tornare indietro. Eppure, anche questa transizione non è positiva o negativa in sé. Dipende da come la si vive. Lifeed Transitions vuole aiutare le aziende e i loro dipendenti a ricavare i frutti positivi di questa esperienza. Rischi ed opportunità sono due facce della medaglia che il destino ha lanciato in aria, ma noi abbiamo la possibilità di condizionare il lato su cui la moneta cadrà. L’uomo è animale sociale: questo lavoro non può essere solo interiore. Deve coinvolgere il contesto in cui siamo inseriti.
Ecco perché Lifeed Transitions permette non solo di apprendere la gestione di questa transizione e farla diventare motivo di crescita personale, ma anche di porla come terreno di confronto e crescita del team. I partecipanti, “dal basso” possono contribuire alla (ri)costruzione di una nuova cultura aziendale, che parta dal riconoscimento e dalla applicazione delle nuove competenze apprese dal singolo. In questo modo, la medaglia cadrà sulla faccia giusta, quella delle opportunità: lo psicologo e politico David Halpern parla di “crescita postraumatica” in contrapposizione alla sindrome da stress postraumatico. Questo esempio ci aiuta a capire come un evento doloroso, cui tendenzialmente assoceremmo esiti negativi, grazie ad un supporto idoneo e competente può non solo essere superato senza traumi, ma addirittura portare ad un miglioramento. Il momento della crisi è un guado: la struttura giusta può aiutarci a superarlo indenne.
Il Bridges’ Transition Model insegna a riconoscere gli stati d’animo che affrontiamo durante la transizione: la fine di qualcosa porta ad essere sotto shock, spaventati, arrabbiati. Ne consegue un disorientamento, una confusione mentale, uno stato di frustrazione o addirittura di apatia. Se abbiamo gli strumenti adatti, possiamo trasformare queste sensazioni negative in un nuovo inizio. Se, al contrario, non è gestita, la transizione può avere ripercussioni molto negative, anche sul benessere dell’azienda. Se non si abilitano nuovi linguaggi, non si esplicita la rottura dei vecchi stereotipi e non si fa spazio all’incertezza e al bisogno delle persone di esprimersi, la ricaduta potrebbe essere un aumento dello stress dalla durata molto lunga e una perdita di senso per molte persone.
Non sono gli individui più forti o più intelligenti a sopravvivere alla crisi, ma coloro che sono capaci di adattarsi al cambiamento. Perché questo avvenga, è necessario capire a fondo i mutamenti cui siamo andati incontro, le competenze che abbiamo sviluppato per affrontarli e comprendere come possono essere applicate con successo nel nostro contesto lavorativo. È solo quando abbiamo attraversato il guado che, un po’ increduli, ci chiediamo come abbiamo fatto ad arrivare indenni dall’altra parte. Allora, dobbiamo guardarci indietro per capire il passato, anche gli errori. Il presente, infatti, serve proprio a rimediare ed essi. Il passato non va visto in ottica profetica: quello che è successo non è destinato a ripetersi, se abbiamo imparato come evitarlo. Lo sguardo al futuro deve rendere generativi gli apprendimenti che ci hanno permesso il passaggio. Creatività, intraprendenza, apertura mentale, gestione del cambiamento, visione: sono queste le capacità che i partecipanti ad una nostra survey si sono attribuiti, mentre attraversavano l’emergenza sanitaria. Si tratta di skills importanti, che possono essere applicate con successo al lavoro.
Il master Lifeed Transitions accompagna non solo nella fase del riconoscimento, grazie allo strumento della narrazione di sé, ma aiuta a condividere in “stanze virtuali” le proprie sensazioni: “nessuno si salva da solo” è un primo, grande apprendimento che ci ha lasciato in eredità il Covid-19. Scoprendo le proprie risorse si può attraversare quel ponte sospeso tra l’incertezza e l’autonomia (If You’re Burning Out, Carve a New Path, Harvard Business Review April 2020), agendo per controbilanciare il “carico allostatico” e lo stress dati dalla crisi. Il termine “allostasi” venne coniato nel 1988 da Peter Sterling e Joseph Eyer (dal greco ‘allo’, che significa variabile e ‘stasis’ che significa stabile), per indicare che la stabilità dell’organismo è il risultato del cambiamento. Questo modello si può definire predittivo, perché cerca di anticipare le domande dell’ambiente agendo sempre sugli stessi sistemi dell’organismo. È alla base, quindi, di un concetto oggi molto utilizzato, quello della ‘resilienza’: anche tale capacità si può apprendere ed allenare, per diventare protagonisti, non spettatori della nostra storia. Non è da confondersi con la resistenza: questa è la semplice presa d’atto delle proprie cicatrici, nonostante le quali proseguire il cammino. La resilienza, invece, è la capacità di imparare da esse, ammettendo e comprendendo i propri errori e trasformandoli in punti di forza: ciò permette non solo di migliorarsi, ma anche di affrontare la paura del cambiamento, che è del tutto naturale. Questo non possiamo impararlo se, semplicemente, ce lo racconta qualcun altro. L’incertezza provocata dalla transizione fa emergere le meta competenze che più servono al mondo del lavoro e che sono più difficili da formare in aula: l’attitudine al cambiamento continuo, la tolleranza dell’errore, lo spirito di iniziativa, l’imprenditorialità, l’agilità mentale, la leadership, la responsabilità, l’autodeterminazione. Sono tutte capacità che vanno rafforzate con un aiuto competente.
Lifeed Transitions fa esattamente questo: grazie al team scientifico che lo ha progettato, altamente esperto di questi temi, sa fare spazio alle riflessioni delle persone, accompagnarle in un percorso attraverso la crisi, mettendo in evidenza come cambiano le loro identità, rassicurandoli e facendoli sentire più forti. A beneficio di tutti, perché, come ci insegna Darwin, ai fini della sopravvivenza non conta solo l’eccellenza del singolo individuo, ma l’intero contesto biologico e sociale in cui è immerso.
Abbiamo reincorniciato la crisi e l’abbiamo studiata a fondo, per capire se, come tutte le altre transizioni di cui siamo già esperti, può essere considerata un vero e proprio percorso di crescita. La risposta è sì! Qui ti spieghiamo perché e ti illustriamo come funziona il nostro nuovo programma Lifeed Transitions che supporta HR e manager per accompagnare i propri collaboratori attraverso questa nuova e delicata fase delle nostre vite (che, per la prima volta, ci riguarda tutti e tutti nello stesso momento!).
Se pensiamo a tutte le ‘transizioni’ che affrontiamo nel corso della nostra vita, ci rendiamo conto di quanto siano numerose: il passaggio dall’istruzione al lavoro, un trasloco, la nascita di un figlio, il matrimonio o l’inizio di una convivenza, un periodo di disoccupazione, un nuovo lavoro, uno lo sviluppo di carriera, un lutto… Anche grazie all’allungamento della vita media e attiva, oggi più che mai, le transizioni sono molto frequenti e, in un certo senso, dovremmo esserci abituati!
Anche la crisi che il Covid-19 ha scatenato è una transizione. Seppur diversa dalle altre, perché si tratta di una transizione collettiva (secondo il World Economic Forum 2,6 miliardi di persone in tutto il mondo stanno sperimentando il lockdown), perché era imprevedibile e perché ci lascia di fronte a un profondo senso di incertezza per il futuro.
Le persone che attraversano una transizione possono uscire più deboli o molto più forti: dipende da come la attraversano. Come ogni altra transizione, anche quella che stiamo vivendo oggi “può essere affrontata con successo se vista come un ‘compito di sviluppo’, per gli individui e per le organizzazioni che li accolgono”, come ci spiega il Prof. Pier Giovanni Bresciani, tra i massimi esperti di transizioni. Questo perché le persone, nelle transizioni, recuperano la propria dotazione di risorse per costruire progressivamente una propria strategia di risposta alla ‘crisi’. Queste risorse sono, ad esempio, le motivazioni, gli interessi, le rappresentazioni di sé, le attitudini, le competenze.
Se non gestita adeguatamente, la crisi causata dal Covid-19 potrebbe generare depressione, stress e burnout: un nuovo contagio, questa volta di emozioni negative, che potrebbe caratterizzare la seconda metà del 2020 per almeno un lavoratore su quattro (sempre secondo i dati del World Economic Forum). Ciò per le aziende si traduce in perdita di produttività e, nei casi estremi, assenteismo. Ecco perché se non si abilitano nuovi linguaggi, non si esplicita la rottura dei vecchi stereotipi e non si fa spazio all’incertezza e al bisogno delle persone di esprimersi, la ricaduta negativa potrà protrarsi per un lungo periodo, anche dopo che sarà finita l’emergenza.
Lifeed Transitions intende:
Da oggi Lifeed Transitions è disponibile su Lifeed, la piattaforma digitale che eroga già il noto master per i neo-genitori e quello lanciato nell’autunno 2019 per i figli caregiver, ampliando il nostro portfolio di percorsi online, a cui hanno partecipato finora più di 10.000 persone.
È un programma adatto a tutta la popolazione aziendale, indipendentemente dal ruolo ricoperto e dal livello professionale.
3 mesi, con un appuntamento settimanale di circa 45 minuti, che le persone scelgono quando svolgere, in autonomia.
Come gli altri percorsi, adotta il metodo del Life Based Learning, l’apprendimento basato sulla vita. Online le persone vengono coinvolte con letture, micro-contenuti multimediali, esercizi di autonarrazione che aumentano la consapevolezza di sé e del sapere dove si è. Nella vita reale sono guidate con delle “missioni” pratiche ad allenare alcune competenze e meta-competenze.
Al termine di ogni modulo individuale, si entra in una stanza collettiva dove è possibile condividere con i propri colleghi riflessioni, idee, suggerimenti per co-costruire dal basso una rinnovata cultura aziendale e trovare insieme nuove modalità per superare la crisi e favorire il ritorno alla “nuova normalità”.
Lifeed Crisi allena alcune competenze soft che è difficile apprendere in un’aula di formazione, ma che rientrano tra quelle che fanno la differenza in ambito lavorativo:
Le aziende hanno accesso a una dashboard aggiornata in tempo reale, per monitorare la partecipazione dei propri dipendenti, nel pieno rispetto della privacy. Ricevono inoltre, regolarmente, report quantitativi e qualitativi elaborati grazie a un sistema di Intelligenza Artificiale che misurano il sentiment e sintetizzano i bisogni espressi dalle persone.
Se stai pensando a Lifeed Transitions per la tua organizzazione, visita la pagina di presentazione e completa il form di contatto. Ci piacerebbe illustrarti tutte le potenzialità di questo nuovo percorso formativo.
Ottimista, inclusivo e gentile. Che sappia coniugare umiltà, collaborazione e cultura e non abbia timore di ammettere le proprie paure. Una persona entusiasta, in grado di ritrovare il senso dello scopo. Dopo la crisi innescata dalla diffusione della pandemia da Covid-19, anche la figura del manager di azienda deve cambiare. Abbiamo provato a tratteggiarne i caratteri, coinvolgendo amministratori e responsabili d’azienda nella nostra terza Life Ready Conference dal titolo Manager in shock: lo stile antifragile ce la farà? che si è tenuta il 28 aprile. In tempi di distanziamento sociale e incertezza economica, il concetto di potere è oggi associato sempre più alla cura piuttosto che alla forza. La leadership del domani richiederà coraggio e visione del futuro.
Che tipo di potere serve oggi? La maggior parte delle persone che lavorano in azienda avverte il bisogno di rassicurazioni (63,4%) e di un piano di azione che li coinvolga (44,4%), ma anche di sentirsi al sicuro (40%). “La sensazione è che in questo momento si stia recuperando fiducia nell’idea che il potere abbia in sé la conoscenza e non sia più qualcosa da cui difendersi. C’è un modello di potere che ha a che vedere con l’adattamento e uno che richiede senso della possibilità”, ha spiegato Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value. “Oggi è prevalente il senso di adattamento, ma nella fase successiva, che si aprirà a breve, le persone vorrebbero veder prevalere all’interno della propria azienda il senso della possibilità: non un potere che intervenga a ripristinare le cose com’erano, ma che riesca a imparare da quanto successo e ad andare oltre”. Il manager ideale dovrebbe fare della condivisione e dell’ascolto i suoi punti di forza. In un periodo di crisi, in cui sarebbe naturale aspettarsi che le persone desiderino cautela, a sorpresa si ricerca un leader capace di assumere dei rischi pur di andare avanti. Un leader, appunto, “antifragile”.
Video dell’intero live streaming
Il concetto di antifragilità, coniato dal matematico e filosofo libanese Nassim Taleb, nasce per trovare il giusto contraltare all’idea di fragilità. Il suo opposto non è, infatti, né la robustezza né la resilienza, due atteggiamenti che conducono entrambi a reagire a uno choc restando uguali a sé stessi. “Chi è antifragile, invece, a fronte di uno stress violento è in grado di migliorare, acquisendo capacità che non aveva prima”, ha sottolineato Raffaele Guerra, Executive Vice President di Capgemini.
“Per questo è interessante il rapporto tra antifragilità e innovazione: sostiene Taleb che, di fronte a un evento esterno, le persone tendano a iper reagire, cioè a mettere in atto una reazione superiore alle effettive necessità dell’evento, creando una ‘provvista emotiva’. Tendono, cioè, ad accumulare in maniera sovrabbondante motivazione e volontà, che sono una molla eccezionale per fare cose nuove”.
È quel che è accaduto oggi nel pieno dell’emergenza, con circa il 70-75% delle imprese italiane entrate, in pochi giorni, in una nuova modalità di lavoro a distanza. Il passaggio è stato reso possibile dall’abbandono di un approccio top down e verticistica, che non poteva funzionare. “Ha funzionato, invece, un approccio antifragile, bottom up e disordinato: chi lavorava in posizione decentrata ha trovato modi nuovi per attivare il lavoro a distanza, poi generalizzati all’interno dell’azienda. Trial and error: si impara per tentativi e commettendo degli errori, purché siano piccoli. Bisogna poterne far tanti prima di arrivare al risultato”.
L’errore, dunque, come learning point per apprendere la lezione e migliorare la ripartenza. La collaborazione non è avvenuta soltanto tra singole persone interne all’organizzazione, ma ha coinvolto in molti casi anche i clienti e i fornitori. Caratteristica tipica di ogni azienda che voglia dirsi innovativa. “La cultura dell’innovazione spinge a gestire l’azienda in maniera non gerarchica, a curare il valore dell’altro, a tollerare l’errore e anzi incoraggiarlo”, ha continuato Guerra.
Il 34% dei CEO delle aziende italiane si spende in prima persona, prendendo parte diretta alla trasformazione già avviata verso la rivoluzione digitale. “Un atteggiamento culturale differente e il diverso modo di ragionare sono caratteristiche fondamentali della leadership del domani. Non sappiamo quale sarà il futuro status quo, sappiamo solo che sarà diverso da quello attuale”.
Una volta superata l’emergenza, i vecchi modelli manageriali potrebbero essere, dunque, superati dalle azioni dei singoli. Quali caratteristiche umane dovranno avere i manager per consentire alle persone di lavorare in un livello di incertezza così alto? E cosa consentirà loro di essere di supporto agli altri senza soccombere a loro volta?
Se oggi la prima reazione alla crisi è disporre licenziamenti e tagli agli stipendi, forse un approccio diverso dovrebbe suggerire di coinvolgere i dipendenti, oltre che nei sacrifici odierni, anche nei futuri successi aziendali. “Bisogna riscoprire la generosità di fare business”. Secondo Maria Elena Cappello, Member of the Board di Tim, Prysmian, MPS, Saipem, Eni Enrico Mattei Foundation, il coronavirus ha accelerato di almeno 15 anni le esigenze di digitalizzazione delle imprese. “Ci vogliono leader coraggiosi, capaci di mettere a terra idee in modo veloce. Una società più imprenditoriale e digitale ha bisogno di essere capace di sbagliare molto, ma di avere processi talmente veloci che permettano di comprendere subito l’errore e di riconvertirsi in fretta. Abbiamo bisogno di digital leader”.
Un approccio di questo tipo permetterebbe di eliminare anche l’elemento fin qui ricorrente della solitudine del manager, dipinto come uomo solo al comando. Al contrario, proprio durante le crisi, il leader dovrebbe essere più trasparente e capace di includere il management nella ricerca delle soluzioni. “Occorre un maggior coinvolgimento dei giovani a vari livelli dell’impresa. Meno gerarchia e più contaminazione di idee, perché la ripartenza sarà basata su un meccanismo largamente diverso da quello che conosciamo”.
I manager dovranno accompagnarsi a persone giovani, capaci e diverse, includendole nella war room con l’obiettivo di concentrarsi su pochi programmi finalizzati a superare l’emergenza. “Il leader dev’essere capace di anticipare l’uscita dalla crisi e ciò è possibile solo stando vicino al proprio team e costruendo una nuova company culture. La leadership di oggi deve fare tutto questo in modo accelerato, focalizzandosi soprattutto su quale sarà l’impresa di domani”.
La gestione dell’emergenza Covid-19 ci ha già dato alcune importanti lezioni di antifragilità, intese come la presa d’atto del fallimento di altrettanti modelli tradizionali di gestione dell’organizzazione. Innanzitutto, è venuto meno il paradigma secondo cui è possibile controllare l’impresa attraverso la pianificazione di comportamenti per il futuro.
“Anche il migliore dei modelli predittivi patisce il limite dell’accadimento di eventi imprevedibili in grado di mettere in discussione lo status quo. Ci siamo resi conto sul campo che siamo stati in grado di resistere meglio alla crisi perché abbiamo potuto contare su manager, supervisori e dipendenti dotati di capacità di mettere in discussione le previsioni grazie alla forza di generare nuove idee”. Fortunato Costantino è People Care & Union Relationship Manager di Q8 ed è convinto che il coronavirus abbia messo in luce l’importanza di costruire relazioni umane e professionali di qualità. Durante l’emergenza, la società ha adottato un approccio fondato sulla comunicazione diretta e trasparente ai propri dipendenti, inaugurando anche un canale di informazione ribattezzato You’ll never work alone.
Secondo Costantino, lo stile del one man company, che distribuisce direttive e ne demanda l’esecuzione, rischia di deprimere la creatività del team. “Invece, ciò che serve è un manager che sappia condividere obiettivi e strategie, valorizzando l’apporto dei collaboratori e spronandoli ad esercitare la loro leadership attraverso un sano confronto dialettico. Non significa favorire l’anarchia o indebolire la struttura organizzativa, ma valorizzare il talento”.
Nel post lockdown, oltre alle competenze tecniche, al manager sarà richiesto di possedere altre abilità: capacità di ascolto, apertura al cambiamento, valorizzazione dell’errore. “Non può essere un esperto arroccato nelle sue competenze tecniche, ma deve avere una visione olistica dell’organizzazione e dev’essere capace di condividere la leadership”. Non più intesa come privilegio di pochi, ma come responsabilità di tutti.
Il primo passo, dunque, è restituire fiducia alle persone, lungo tutta la catena produttiva. Lo sa bene Christophe Poitrineau, Supply Chain Director di Carrefour: nei giorni della diffusione del virus e delle prime misure di contenimento, la Supply chain si è trovata a sostenere le pressioni opposte dei consumatori e dei produttori. “Questa crisi non è uno sprint, ma una maratona”, ha ammesso.
“Abbiamo ancora davanti a noi alcuni mesi in cui dovremo sostenere questo ritmo. Perciò, la prima cosa da fare è ridare fiducia alle persone, garantendo procedure di controllo e sicurezza”. Il secondo passo attiene alla dinamica collettiva: nell’esperienza di Poitrineau, condividere informazioni con tutto il team, con riunioni giornaliere, si sta rivelando fondamentale per assicurare continuità ai processi.
“La cosa più rilevante per un manager è il supporto: andare sul campo, trovare soluzioni e non lasciare le persone in difficoltà, eliminare la distanza strutturale tra chi lavora in ufficio e chi fa un lavoro operativo”. Da qui l’importanza di avere dati condivisi, senza i quali sarebbe difficile avere una visione di insieme e prendere le giuste decisioni. La situazione cambia ogni giorno e un buon leader dev’essere pronto a reagire e ad anticipare gli eventi. “Il rischio è di essere assorbiti dal quotidiano, dimenticandosi dei piani futuri. Al contrario, occorre un ritorno di esperienza per lavorare su progetti nuovi e avere un piano per il futuro condiviso da tutto il gruppo”.
Condivisione come parola d’ordine per la ripartenza. Cristiana Scelza, CEO di Prysmian Russia, si è trovata spesso a pronunciarla, raccontando la sua esperienza nel mercato Oil&Gas prima in Brasile, nel Paese sconvolto dallo scandalo corruzione che ha travolto l’azienda petrolifera nazionale Petrobras, e poi a Mosca, in una realtà dall’altissima presenza femminile, ma dominata ancora da un atteggiamento maschio e aggressivo. “Il manager non è solo: se si crede davvero nella diversità e nell’inclusione, si diventa capaci di affidarsi al team, che può aiutarti e supportarti. Al contempo, il leader ha l’obbligo di filtrare i propri demoni: non si possono trasmettere ansia e paura, senza dare un messaggio costruttivo”.
“La resilienza non basta più”, ha detto Scelza. Non si può pensare di ritornare al mondo come era prima: in una crisi come questa, le antenne devono essere tese ogni giorno e rivolte al futuro. “Le crisi ci sono costantemente in giro per il mondo, accelerano un po’ tutto e ti fanno saltare i preliminari. Però, abbiamo tutti gli strumenti che ci servono per superarle. Non con facilità, ma sicuramente con grandi possibilità”.
Alla fine, dipende tutto da come si reagisce di fronte agli accadimenti. O da come si vuole reagire, perché l’antifragilità è una dote che si può anche apprendere. “Non si tratta di avere adattabilità, perché non si sa neppure a che cosa bisognerà adattarsi. Più che altro parlerei di plasticità: occorre diventare plastici per includere dentro di sé il caso”, ha spiegato Valeria Cantoni, Founder di ArtsFor.
“I contain moltitudes” recita la nuova canzone di Bob Dylan, riprendendo un verso di Walt Whitman: diventare persone consapevoli di contenere una moltitudine di ricchezza e di risorse aiuta a metterle a frutto e anche a concedersi degli spazi vuoti per guardare cosa sta nel mezzo.
“Molte aziende continuano a raccontarsi la stessa storia e vivono di rendita sull’epopea del fondatore, ma il mondo è cambiato e la storia va aggiornata: a raccontarla devono essere le persone che vivono l’azienda tutti i giorni. Bisogna uscire da quella che l’economista Luigino Bruni definisce ‘carestia di capitale narrativo’”, ha continuato Cantoni.
I manager che possono fare la differenza, allora, sono quelli che si concentrano sulla qualità della relazione e del linguaggio all’interno delle organizzazioni. Serve un manager inclusivo e autorevole, che sappia dire “non lo so” e chiedere aiuto, che sperimenti, che favorisca la cultura dell’apprendimento continuo e dell’errore, che sia consapevole dei propri bias interiori e delle proprie risorse, un manager narratore che sappia entrare nella propria vita raccontandola.
“È venuto il momento di assumere l’imperativo di essere tutti una comunità di destino, non solo per una scelta responsabile, ma per una necessità di sopravvivenza all’interno delle organizzazioni. Oggi mettersi a imparare cose nuove permette di allenare la capacità di sperimentare, di tenerne traccia e di condividere quanto appreso con i propri collaboratori”.
Articolo originariamente pubblicato su Parole di Management
Stiamo attraversando una vera e propria transizione. E’ come se tutti stessimo vivendo una forma di “congedo di maternità” forzato. Siamo a casa, continuando a lavorare, tanti dei nostri ruoli si sovrappongono e si accumulano. Come ogni transizione, anche questa causata dall’emergenza sanitaria del Coronavirus, richiede una ridefinizione cognitiva, sia a livello individuale sia a livello sociale, e uno sforzo di ridefinizione.
Per riflettere su questi temi e capire come le aziende si stanno preparando, abbiamo incontrato 4 Direttori delle Risorse Umane di 4 diverse industry che, in totale, gestiscono più di 10.000 persone. Abbiamo chiesto loro come stanno immaginando il ritorno alla “normalità” e come si stanno preparando al dopo Covid-19. Ecco cosa ci hanno raccontato nella nostra nuova Life Ready Conference che si è tenuta lo scorso 2 aprile.
Aggiornamento dell’8 aprile
Leggi l’articolo Un capo del personale su due: l’impatto sarà strutturale che Il Sole 24 Ore Lavoro ha dedicato ai contenuti emersi durante questa Life Ready Conference.
Video dell’intero live streaming
“All’emergere della complessità nelle organizzazioni, la gestione delle risorse umane diventa fondamentale. Inevitabilmente, anche nella situazione di discontinuità che stiamo vivendo, il faro si è acceso sui Direttori HR. Chi di noi ancora non era inserito nei processi decisionali ha iniziato a confrontarsi nei livelli più alti dei leadership team. La crisi è dunque diventata un’occasione per noi HR di giocare un vero e proprio ruolo da Leader.
In termini più ampi, la questione della leadership che proprio dalla crisi è stata messa in discussione, ci sta consentendo di individuare i fattori del leader vero, al di là degli strumenti di valutazione delle performance che tutti noi utilizziamo. La crisi ha messo in luce che il vero leader è colui che riesce a dare una direzione precisa, senza ambiguità, e sa fornire una positività strategica ai propri messaggi. Con queste due caratteristiche è possibile creare un ambiente performante.
Da questa crisi ci portiamo, inoltre, a casa la necessità di garantire flessibilità a tutti i livelli. L’accelerazione tecnologica è stata guidata dal Covid-19 e ci farà tornare in un mondo in cui delega e obiettivi saranno fondamentali: questo telelavoro e, speriamo con continuità successiva, diventi vero e proprio smart working ha bisogno di questi due elementi, senza i quali non sarà possibile lavorare con efficacia”.
“Con la mia azienda e con Life Based Value abbiamo fatto un grande viaggio negli ultimi anni per valorizzare la genitorialità, per mettere la maternità e la paternità nel conto economico delle aziende. 20 anni fa quando ho iniziato la mia carriera professionale la maternità era un tabù; oggi sappiamo che il congedo è una grandissima risorsa e patrimonio anche per le organizzazioni. Il top management ne è consapevole grazie ai dati che siamo in grado oggi di fornire sulla crescita delle competenze e il miglioramento della produttività dopo il congedo di maternità. Grazie a questa crisi siamo riusciti a traslare quello che succede durante il congedo di maternità a tutta l’azienda; è proprio come se fossimo tutti in un grande ‘congedo collettivo’, che al pari della maternità, può diventare una grande opportunità.
Le organizzazioni sono sostenute da 4 pilastri: quello economico, quello organizzativo, quello culturale e quello psico-affettivo. In tutte le situazioni di crisi, non solo in quella attuale, bisogna dare priorità e attenzione al pilastro psico-affettivo dell’organizzazione. Le organizzazioni sono fatte di persone che hanno sentimenti, paure, ansie, reazioni. I leader, dall’Amministratore Delegato a tutta la sua prima linea, sono chiamati a gestire anche la dimensione psico-affettiva, nonostante anche loro siano altrettanto preoccupati del futuro. Noi in Danone abbiamo preso in tutto il mondo un impegno: Danone ha dichiarato che nessuno perderà il proprio posto di lavoro a causa del Coronavirus.
In questo modo abbiamo lasciato spazio alle persone di esprimere la propria creatività, con loro stiamo riscrivendo il nostro Business Model e introducendo nuove modalità lavorative. Ogni persona a qualsiasi livello può avere un’idea creativa, ma la esprime solo se il management crea uno spazio di fiducia e di conforto. Mettiamoci nei panni delle persone, avere cura di loro nella loro interezza, non vederli sono come dei professionisti, solo così possiamo ottenere un grandissimo ritorno.
Credo che questa crisi ci lascerà più ricchi di idee, tutto ciò che abbiamo pensato per far fronte a questa situazione e reinventarci, resterà anche dopo, diventerà patrimonio dell’azienda”.
“Da quanto è scoppiata l’emergenza, abbiamo intrapreso una serie di azioni urgenti e necessarie, dalla salvaguardia delle persone attraverso l’azione dei protocolli sanitari, all’estensione dello smart working a tutta la popolazione impiegatizia, alla salvaguardia sociale e l’adozione di strumenti di integrazione salariale. A ciò si aggiunge la salvaguardia psicologica su cui stiamo lavorando adesso: stiamo per attivare uno sportello di ascolto e alcuni seminari sull’equilibrio personale. Il lavoro è parte integrante della nostra vita e anche la nostra routine oggi viene meno: si è costretti a vivere in casa, spesso in uno spazio fisico ridotto con la propria famiglia, tutto ciò richiede un diverso equilibrio.
I prossimi passi sono quelli più complicati e anche difficili da definire. Perchè non sappiamo la durata delle misure di contenimento attuali, ma anche perchè che siamo consapevoli che “percorrere il metro che ci separa sarà difficile” (citando il responsabile della Protezione Civile Angelo Borrelli). La domanda che ci dobbiamo porre è come possiamo mantenere il distanziamento sociale, che probabilmente continuerà come misura di profilassi a lungo dopo l’emergenza, senza diminuire, anzi, aumentando l’inclusione? Questo è uno dei nostri obiettivi. Pensiamo, ad esempio, al valore della pausa caffè: quando si potrà rifare? E come la sostituiremo?
I punti su cui ci dobbiamo impegnare in azienda sono essenzialmente quattro.
Volendo fare una sintesi, le mie parole d’ordine per il futuro saranno: nuove competenze e condivisione. Dobbiamo reinventarci e chi è stato generoso nella creazione e nell’ascolto del proprio network oggi ne trae un vantaggio competitivo importante”.
“Fino a ieri, quando avevamo la possibilità di sperimentare tante modalità di fare formazione, abbiamo ‘giocato’ sulla formazione di competenze soft, come creatività, apertura, innovazione, intraprendenza, imprenditorialità. Tutte queste competenze, con le quali ci siamo allenati finora sulla carta, oggi sappiamo che domani diventeranno il nostro nuovo modo di lavorare.
Ma non è la formazione non è l’unico aspetto che dobbiamo ripensare. Un altro è la comunicazione interna. Attraverso la nostra intranet, oggi comunichiamo quotidianamente con i nostri dipendenti: stiamo traducendo i decreti, i moduli, le informazioni che arrivano dal governo le stiamo semplificando e spiegando a tutti i nostri dipendenti. Ma non solo… abbiamo anche un’app, che di solito usiamo per gli eventi aziendali e che oggi abbiamo riconvertito per sentirci tutti più vicini: ogni settimana lanciamo un tema per comunicare e confrontarci tutti in maniera continua. Anche per far emergere idee su come gestire il rientro dopo la crisi.
Su questo tema, stiamo cercando di fare rete con altre imprese, soprattutto quelle del nostro settore, per capire cosa stanno facendo, così da raccogliere anche altre idee per elaborare le azioni che possiamo intraprendere.
Alcune delle nostre scelte passate sono state vincenti in questo periodo, altre andranno ripensate. Due anni fa, ad esempio, abbiamo inaugurato la nostra nuova sede. Nella stessa occasione, abbiamo dotato tutti i dipendenti di un PC portatile, avviando una sperimentazione di smart working senza limiti di tempo, affidandoci al buon senso dei nostri collaboratori.
Un altro spunto per noi importante è che oggi possiamo insegnare qualcosa agli altri Paesi. Da essere considerati la piccola Business Unit, che performa bene ma che sta a guardare i grandi del Gruppo, oggi siamo visti come al Business Unit che può insegnare a quelle più grandi. Sia perché abbiamo vissuto con 4 settimane di anticipo questo tzunami, sia perchè la nostra anima ‘latina’ ha tirato fuori iniziative e idee oggi reputate come best practice dagli altri”.