La Diversity & Inclusion (D&I) non riguarda solo il management e la gestione HR, ma l’intera società che vogliamo abitare. Costruire un’impresa inclusiva significa infatti contribuire alla creazione di una società più inclusiva, con la consapevolezza che siamo tutti diversi e ognuno può portare il suo contributo unico a questa missione collettiva.
La pandemia ha avuto un impatto sulle strategie di D&I delle aziende che, soprattutto in tempo di crisi, sono chiamate a prendersi cura dei propri dipendenti. In che modo le imprese hanno mantenuto il loro impegno su questo versante, nonostante l’effetto covid e le nuove priorità che questo ha comportato? Quali nuove iniziative sono state messe in piedi? Se ne è discusso nel digital talk Promuovere la diversità nella nuova normalità organizzato da Comunicazione Italiana in collaborazione con Lifeed.
Innanzitutto è importante considerare l’approccio che le aziende hanno alla D&I. “Per valorizzare le differenze è necessario prima vederle: riconoscere cioè le peculiarità che rendono unica ogni persona, in virtù delle esperienze, dei cambiamenti e dei ruoli che sperimenta in ogni dimensione di vita, privata e professionale“, spiega Chiara Bacilieri, Head of Data di Lifeed. Diversità è quindi valorizzazione delle caratteristiche uniche del singolo all’interno di un team eterogeneo che “può essere più efficace se le persone sanno apprendere dalle reciproche differenze e peculiarità”.
Tutto ciò si traduce nel “role enrichment” delle persone che possono trasferire competenze soft tra ruoli ed esperienze di vita e lavoro (la genitorialità, il caregiving, la pandemia, un divorzio, un trasloco, un cambiamento professionale). Inoltre, da un’analisi di Lifeed sulle emozioni e i desideri legati ai nostri spazi di vita sono emersi i principali valori in cui le persone si rispecchiano e a cui aspirano per il futuro, che toccano anche le nuove modalità di lavoro e di conciliazione tra vita privata e vita lavorativa: il rispetto, l’inclusione e la valorizzazione del singolo. Indicazioni, queste, fondamentali per le strategie di D&I delle aziende.
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La D&I si può anche considerare come “un ingrediente della ricetta’ del benessere organizzativo”, sostiene Alessandra Benevolo, HR Director Italy & HR Cluster Head South Europe di Ipsen, azienda farmaceutica certificata dal Winning Women Institute e dal Forum della meritocrazia. Nel considerare il dipendente come un unicum, senza distinzioni tra vita privata e lavorativa, è importante maturare la consapevolezza che “tutti hanno un talento per portare valore aggiunto all’azienda”. Secondo Benevolo, “bisogna saper far parlare tra loro in modo efficace la Diversity e l’Inclusion” che si declinano non solo nelle politiche di gender e nelle percentuali, ma in tutte le diversità e nella pratica quotidiana.
La pandemia ha anche accelerato le iniziative di D&I delle aziende. Nell’esperienza di Lina Donnarumma, Human Capital and Organization Manager dell’Istituto Italiano di Tecnologia, l’inclusione durante l’emergenza covid si è tradotta nella “capacità di mantenere attivo l’engagement a distanza delle persone, le quali hanno manifestato la necessità di sentirsi coinvolte”. L’azienda si è quindi dotata di una strategia D&I fondata su quattro pilastri: benessere (prendersi cura delle persone, anche con un supporto psicologico); parità di genere (gender equality plan, parità salariale, wellbeing); cultura della D&I come valore aggiunto (mettere al centro l’autenticità di ognuno); impatto sociale delle politiche sui territori in cui l’azienda è presente.
L’attenzione all’ascolto delle persone in ottica di inclusione è un aspetto sottolineato da Lavinia Lenti, Direttrice Risorse Umane di Sace, secondo cui “la coesione del team è fondamentale per raggiungere gli obiettivi”. Infatti, la D&I è anche un elemento di performance: “Se le persone si sentono accolte, lavorano meglio”. Oltre ai numeri e KPI, l’azienda ha puntato sull’aspetto culturale per sensibilizzare i manager sulle tematiche D&I e sulla collaborazione tra generazioni diverse, avviando un progetto di reverse mentoring tra personale junior e senior, oltre a un progetto di sostegno alla genitorialità in collaborazione con Lifeed.
In un certo senso, la pandemia ha anche ‘aiutato’ i manager a capire meglio le necessità delle persone, come sottolinea Raffaella Maderna, People & Communication Director di Lundbeck Italia, dove la diversità di genere è sintetizzata dai numeri, con il 58% della popolazione aziendale rappresentato da donne. “Lavoriamo per promuovere comportamenti virtuosi su aspetti come la violenza sulle donne e la salute mentale. Con la crisi abbiamo accelerato le nostre azioni di People care per comprendere le problematiche delle persone e favorire la loro salute mentale, perché la persona va ascoltata e capita”.
Sull’importanza dell’ascolto come leva delle iniziative di D&I concorda Gessica Perego, Global HRBP Information Services & Regional HR Director South Europe, Middle East & Africa di Coface Assicurazioni. “La D&I non va divisa in ‘silos’, ma significa ascoltare di più i bisogni delle persone”. Perego sottolinea poi l’aspetto della multiculturalità: “Lavoriamo con tante culture diverse e, nel periodo della pandemia e del remote working, abbiamo imparato ad ascoltare di più le persone, capendo per esempio che in certe culture le persone preferivano stare in ufficio invece di lavorare da casa”. Un concetto più ampio legato alla D&I riguarda quindi il rispetto degli altri nelle loro culture e situazioni.
Con la pandemia e lo Smart working sono venute meno alcune barriere tradizionali, per esempio quelle tra uomini e donne nella sfera familiare. Per Luca Miglierina, HR Business Partner e D&I Lead di Sanofi, “l’emergenza in cui ci siamo trovati ha anche dato slancio a iniziative di maggiore inclusione”, che nell’azienda farmaceutica si concentrano su quattro aree principali: gender balance, disabilità, LGBT, Ageing. “A livello global, abbiamo lanciato la strategia ‘All in’ basata su tre pillar: reflect, per riflettere sulle diversità delle comunità in cui operiamo; unleash, per intendere Sanofi come il contesto per sprigionare il proprio potenziale e sentirsi accolti; transform, per avere un’influenza positiva sulla società in cui siamo presenti”.
Infine, ci si può chiedere se sia necessario mettere in campo iniziative ad hoc di D&I. La questione viene posta da Antonella Zaghini, Responsabile CSR, Peace Manager di Guna: “Non abbiamo avuto bisogno di policy, non viviamo la Diversity perché abbiamo sempre un’attenzione all’essere umano senza bisogno di bilanciare le varie componenti della D&I, come il gender o la parità salariale. Con la pandemia, sulle reti esterne abbiamo aiutato chi si è trovato a lavorare da remoto sia a livello psicologico sia organizzativo. Internamente, abbiamo favorito l’uso di device portatili per mantenere il senso di inclusione anche a distanza. L’etica è il nostro punto forte di riferimento”.
In un mercato sempre più competitivo, i temi di engagement, retention e benessere acquisiscono una rilevanza strategica per le aziende. Tuttavia, non sempre c’è piena consapevolezza di come si ottengano risultati ottimali in questi ambiti. Secondo quanto scrive l’Harvard Business Review, per trattenere i propri talenti, la maggior parte delle organizzazioni offre aumenti salariali, benefit economici o formativi e misure di welfare.
Sono aspetti certamente importanti, ma è dimostrato come niente di tutto questo basti per un dipendente che non si sente a suo agio nell’ambiente di lavoro. Il primo e fondamentale elemento per essere competitivi è il riconoscimento di tutte le dimensioni identitarie dei lavoratori. Non solo come professionisti, ma anche (e prima di tutto) come persone a 360 gradi.
I dipendenti che differiscono dalla maggior parte dei loro colleghi per religione, genere, background socio-economico o età spesso nascondono aspetti importanti di se stessi, per paura di conseguenze negative. Ciò rende difficile per le aziende essere veramente attrattive, con quanto ne consegue in termini di reputazione, produttività e vantaggio competitivo. Per i dipendenti, risulta pressoché impossibile sentirsi effettivamente legati all’impresa per cui operano. La chiave per un vera inclusione è capire chi sono veramente i propri dipendenti.
Molte organizzazioni conducono sondaggi sul coinvolgimento delle loro persone, ma la maggior parte trascura di analizzare in maniera profonda i dati raccolti attraverso l’ascolto delle persone, perdendo così molte opportunità di identificare eventuali problemi alla base di un’inefficace strategia di Diversity&Inclusion.
Per questa ragione, la Diversity è un’opportunità che diventa una ricchezza solo se gestita, altrimenti rischia di sfociare in conflitto. In un team, essa è un valore aggiunto solo quando c’è consapevolezza: in questo senso, le aziende non possono più limitarsi ad agire con la logica delle quote sui temi di gender equality e work-life balance.
Non è sufficiente inserire elementi differenziali al proprio interno (per esempio assumere più donne o persone di etnie diverse) senza far seguire un’opportuna elaborazione, altrimenti la D&I rischia di diventare una ‘moda’, qualcosa che non stimola più ricerca, domande, attenzione, ma una sorta di ‘dovere da adempiere’. È fondamentale, dunque, che le aziende investano su una vera valorizzazione delle differenze, agendo sulla formazione dei manager in un’ottica di caring leadership e lavorando sul riconoscimento delle competenze trasversali dei collaboratori, partendo da quelle acquisite grazie alle loro esperienze di vita.
Basti pensare quanto sia contraddittorio basare le valutazioni di carriera su un classico ‘curriculum vitae’ che, a dispetto del nome stesso, contiene indicazioni solo sulla vita lavorativa della persona. Se ne è accorto anche LinkedIn, che, fino alla ‘denuncia’ di una giovane madre, Heather Bolan, non permetteva di scegliere, dal menù a tendina, altre professioni che non fossero quelle codificate. Così, coloro che avevano ‘preso una pausa’ dal lavoro, tradizionalmente inteso, magari per viaggiare, per assistere un famigliare, per curarsi, si ritrovavano con imbarazzanti ‘buchi’ nel proprio CV, generando sospetto e diffidenza tra i recruiter.
Eppure, durante le transizioni di vita e le attività di cura sono tante le competenze soft che si apprendono e che possono essere valorizzate in termini professionali. Persino LinkedIn, dunque, è diventato più flessibile e ora consente di esplicitare scelte di vita che, sebbene non strettamente lavorative, evidenziano fortemente il valore anche professionale di una persona.
Riconoscere la diversità e valorizzarla è la chiave, dunque, per renderla ricchezza: perché ciò avvenga, bisogna essere in grado, in primo luogo, di leggere i dati che vengono raccolti in azienda. Occorre imparare a fare le domande giuste, rivolgendosi alle persone nella propria interezza, per scongiurare il rischio di generalizzazione. L’attività di People Analytics non deve fermarsi alla punta dell’iceberg, ma deve estendersi a tutte le dimensioni della persona.
Accanto ai cosiddetti Big Data (prendendo in prestito dal Marketing questa espressione), a cui i più si limitano, troviamo tutto un mondo sommerso di Small Data. L’autonarrazione delle persone può essere uno strumento di emersione della parte sottostante dell’iceberg: occorre, però, che i manager siamo formati nel modo giusto per ascoltare ‘mentre’ le persone si formano.
La diversità è innovazione se le aziende (a partire dai leader) sono capaci di mettere in luce l’elemento di diversità che c’è in ognuno e la sua portata positiva in termini di capacità di visione laterale, creatività e azione.
Anche la pratica del feedback deve tenere conto dell’insieme delle caratteristiche della persona che si ha di fronte. Altrimenti, questo sistema di valutazione, invece che essere di stimolo al miglioramento, può far precipitare la produttività dei dipendenti e, con essa, la brand reputation (che parte proprio dall’interno delle aziende).
L’ascolto richiede impegno ed è faticoso, certo. Ma è un investimento: i manager possono dedicare tempo all’ascolto per vederne i benefici futuri. Non si deve temere il cambiamento che questo può generare in azienda: ogni transizione, di vita o professionale, porta con sé una ricchezza, se gestita. Occorre solo imparare a farlo.