Oggi le sfide principali del mercato del lavoro sono rappresentate da fenomeni come Talent shortage, Intelligenza Artificiale (AI) e reskilling, Grandi dimissioni e Quiet quitting. Questi trend si traducono nel crescente malessere e distacco delle persone dal lavoro, in particolare da parte delle giovani generazioni. La Direzione HR è chiamata a rispondere a tali sfide per migliorare i livelli di benessere, engagement e inclusione e per garantire la sostenibilità futura delle imprese.
Queste criticità e le possibili soluzioni sono state approfondite nella ricerca 2023-24 dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, di cui Lifeed è partner. Dalla ricerca è emerso che oggi lo skill mismatch e il malessere sono ampiamente diffusi tra le aziende, che nell’88% dei casi faticano ad attrarre e trattenere i talenti. Solo il 9% delle persone dichiara di stare bene sul lavoro e solo il 5% afferma di essere pienamente ingaggiato e felice in azienda.
In parallelo, il 42% dei dipendenti ha cambiato o intende cambiare lavoro nel prossimo anno (un dato che sale al 65% per i più giovani). Al posto della retribuzione, oggi stare bene al lavoro rappresenta la richiesta fondamentale da parte delle persone (36%), soprattutto quelle appartenenti alla Generazione Z. Investire in iniziative che promuovono il coinvolgimento, il benessere e lo sviluppo di competenze delle persone è quindi urgente e strategico per la competitività delle imprese.
Tra le sfide principali della Direzione HR c’è quella di rispondere alle esigenze delle diverse generazioni che oggi convivono nelle aziende. Come illustrato da Martina Borsato, Responsabile dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, da una parte si sta allungando la vita professionale dei lavoratori più senior, dall’altra cresce il peso delle generazioni più giovani che stanno cambiando le regole del lavoro.
A cambiare è il concetto di carriera, non più esclusivamente legata al successo professionale; cambia anche l’approccio alla gestione del rapporto tra vita lavorativa e vita privata, che diventa più fluido. Azioni per garantire l’occupabilità, flessibilità nel decidere orario e luogo di lavoro e attenzione al benessere fisico e mentale sono i fattori di attrattività emergenti per i più giovani.
In questo scenario, le aziende hanno l’occasione di trasformare il divario tra generazioni in un’opportunità di apprendimento e innovazione per tutti. Ciò è possibile se si superano i pregiudizi legati all’età e se si individuano e valorizzano le aree di sinergia tra le diverse generazioni, come le competenze complementari e quelle nascoste nei ruoli di vita personali.
Proprio nell’ambito delle competenze, un altro trend del mondo del lavoro riguarda il loro sviluppo in azienda. Non si tratta delle cosiddette hard skill, bensì delle competenze trasversali (o soft) che secondo il World Economic Forum rappresentano le competenze-chiave del futuro. Dalle ricerche dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed emerge che il 70% di queste competenze viene allenato nei ruoli di vita personali, fuori dal lavoro. Come non sprecare questo potenziale in azienda?
Solo considerando le persone in tutte le loro dimensioni identitarie, private e professionali, questo potenziale umano può essere trasferito sul lavoro e sviluppato con benefici sia per i singoli individui sia per le aziende in termini di benessere, retention, produttività e coinvolgimento.
Con le sue soluzioni digitali innovative e il suo metodo scientifico proprietario, Lifeed trasforma le esperienze di vita in opportunità di crescita personale e professionale. Vuoi scoprire come sviluppare tutte le competenze trasversali delle persone in azienda? Consulta il whitepaper qui sotto.
Nel mercato del lavoro di oggi, le aziende si trovano di fronte a una realtà unica: 4 generazioni lavorano fianco a fianco, ognuna con caratteristiche, aspettative e prospettive diverse. Questo scenario, caratterizzato da un rapido cambiamento e differenze mai così distinte, presenta sfide significative per la gestione delle risorse umane.
Ne hanno discusso alcuni esponenti del mondo HR durante il digital talk di Lifeed “Generazioni al lavoro: come promuovere la diversità”, con la moderazione di Martina Borsato, Responsabile Osservatorio Vita-Lavoro di Lifeed.
Paolo Staffieri, Head of Human Capital BNL BNP Paribas, e Silvia Vertemara, Senior HR Business Partner Grünenthal Italia, hanno sottolineato l’importanza di gestire in modo strategico le diverse generazioni presenti in azienda, fornendo loro gli strumenti adatti per collaborare in modo efficace e produttivo.
“Per i junior abbiamo una sfida di attraction, guardando al cambiamento generazionale, per questo aggiorniamo costantemente la nostra value proposition. Per i senior la sfida è di ingaggio e reskilling. La sfida principale è l’integrazione tra le generazioni e far sentire tutti inclusi all’interno dell’azienda“
Paolo Staffieri, Head of Human Capital BNL BNP Paribas
“Abbiamo uno stabilimento produttivo in cui l’età media dei reparti varia molto. Utilizziamo l’ascolto attivo con una chiave di lettura anagrafica, diamo spazio ad azioni dinamiche e attente per alimentare nuove idee. Ci impegniamo per una cultura aziendale inclusiva che metta al centro le persone“
Silvia Vertemara, Senior HR Business Partner Grünenthal Italia
I rischi legati a una gestione inadeguata delle generazioni in azienda sono significativi: aumento del turnover, calo della produttività e difficoltà nell’attrarre nuovi talenti.
Tuttavia, trasformare queste sfide in opportunità è possibile. Secondo i dati dell’Impact Report 2024 di Lifeed, presentati da Benedetta Di Cesare, Research & Innovation Analyst di Lifeed, quando le persone vengono valorizzate per tutte le loro dimensioni di vita, si registra un aumento della retention, dell’engagement e della produttività. Un ambiente lavorativo che tiene conto del benessere dei dipendenti ha un’influenza positiva sulla loro permanenza in azienda.
Oggi le persone sono sempre più disconnesse dal lavoro e non stanno bene in azienda. Solo il 5% dei dipendenti italiani si sente ingaggiato e appena il 7% si dichiara felice sul lavoro.
Questa disconnessione impatta tutte le generazioni, in particolare i più giovani, ed è destinata ad ampliare il fenomeno del Talent shortage: una carenza di talenti che entro il 2030 è prevista di 85 milioni di persone a livello globale.
A tutto ciò si aggiunge l’avvento dell’Intelligenza Artificiale (AI) che porterà a una maggiore diversificazione delle competenze richieste nel mercato del lavoro.
Per riconnettere le persone al lavoro, la formazione tradizionale non basta. Occorre guardare le persone a 360 gradi valorizzando tutte le loro dimensioni di vita private e professionali.
Solo in questo modo le organizzazioni possono vedere e attivare il pieno potenziale di ognuno, migliorando così la retention, la crescita e la produttività dei propri collaboratori.
Ma cos’è il potenziale e dove si trova? Si tratta di competenze trasversali che rappresentano le skill del futuro (World Economic Forum) e vengono sviluppate soprattutto fuori dal lavoro.
Per favorire la retention e lo sviluppo dei talenti, le aziende sono chiamate a costruire una strategia di lungo periodo su più livelli. La ricerca di Lifeed ha identificato tre aree-chiave di intervento:
I dati dell’Osservatorio vita-lavoro, basati sulla Survey 2023 che ha coinvolto 1.219 partecipanti ai percorsi Lifeed, dimostrano che valorizzare le persone nella loro interezza permette di ottenere un impatto concreto su tutte queste aree.
In questo Impact Report sono presentati i dati raccolti dalla Survey 2023 di Lifeed che ha analizzato le risposte dei partecipanti ai suoi percorsi di apprendimento e sviluppo. Sono emerse le competenze allenate dalle persone nelle loro transizioni di vita privata e professionale.
L’analisi dei risultati dimostra l’efficacia del Life Based Learning, il metodo ideato da Lifeed che permette alle persone di trasferire le proprie soft skill dalla vita privata al lavoro e viceversa.
Oggi nel mondo del lavoro, fenomeni come Grandi dimissioni e Quiet quitting rappresentano le conseguenze della ‘rottura’ del patto tra persone e aziende. Per far tornare le persone a sentirsi più vicine al loro lavoro, le imprese sono chiamate a incentrare la loro strategia HR su azioni che favoriscono il benessere, la retention, l’inclusione e lo sviluppo di competenze. Ma come è possibile realizzare concretamente la sostenibilità umana in azienda? Ne parliamo con Chiara Bacilieri, Head of Research & Innovation di Lifeed.
Innanzitutto è necessario saper vedere e valorizzare tutto il potenziale delle persone: non solo le competenze che stanno già usando sul lavoro, ma anche i loro talenti “nascosti”. Secondo i risultati dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, le persone usano sul lavoro solo il 30-40% del loro potenziale, in termini di competenze ‘soft’. Il restante 60-70%, sviluppato nelle esperienze e nei ruoli di vita personali, resta spesso nascosto e rischia così di essere sprecato. E quando le persone non si sentono valorizzate per tutto ciò che sono e hanno da dare, è più probabile che vadano via.
Vedendo le persone meglio e di più di quanto sia mai stato fatto prima. Valorizzando sul lavoro le risorse che le persone hanno e usano anche fuori dal lavoro, nei ruoli personali e familiari. Per farlo, abbiamo creato una soluzione rivoluzionaria che permette all’azienda di scoprire, misurare e attivare sul lavoro tutto il potenziale delle persone e dei team: Lifeed Radar.
Lifeed Radar è una soluzione digitale di sviluppo basata sulla metodologia di apprendimento proprietaria di Lifeed, il Life Based Learning, che poggia su teorie e ricerche scientifiche e psicologiche. Questa soluzione unica al mondo rivela e attiva tutto il potenziale delle persone per migliorare il benessere, accrescere le competenze e favorire l’inclusione in azienda.
Grazie a Lifeed Radar, le persone diventano più consapevoli di sé e di tutte le risorse che hanno, dentro e fuori dal lavoro, quindi si sentono più forti e capaci sia nella vita lavorativa sia in quella privata. Tutto ciò ha un impatto diretto sul loro benessere e la loro efficacia. Lifeed Radar consente inoltre alle persone di scoprire quali competenze stanno usando in alcuni ruoli e non ancora in altri, per poi invitarle a trasferirle anche in nuovi ruoli, per esempio dalla sfera familiare a quella lavorativa.
Le aziende ne beneficiano in termini di coinvolgimento, benessere, empowerment e crescita delle persone – perché scoprono come attivare sul lavoro il loro “pieno potenziale”. Dando un messaggio importante di attenzione e di cura, le organizzazioni hanno più leve per motivare e trattenere le persone. Inoltre hanno a disposizione un report che restituisce la mappa completa delle soft skill presenti nei ruoli personali e lavorativi, possono misurare quante sono e dove si trovano e possono attivarle sul lavoro quando serve. Se usato a livello di team, Lifeed Radar diventa un efficace strumento manageriale di conoscenza, team building, engagement e sviluppo della leadership.
I risultati di Lifeed Radar hanno un impatto positivo sulla cultura aziendale e sull’employer branding, sia a livello dell’intera azienda sia a livello di team, e possono essere utilizzati per la misurazione dell’impatto ESG. Ricevendo dati da utilizzare per i report di sostenibilità, gli HR manager e i people manager possono contribuire attivamente alla crescita delle aziende e alla strategia di sviluppo del capitale umano, con vantaggi anche in termini di attrazione dei giovani talenti e di retention di tutte le persone.
La diffusione del lavoro ibrido legato alle conseguenze della pandemia ha allargato le distanze all’interno delle organizzazioni. Per questo, oggi è diventato ancora più importante mantenere saldi i contatti tra le persone. Stimolare l’inclusione e il senso di appartenenza, attraverso un atteggiamento di cura, può aiutare organizzazioni e team di lavoro ad affrontare meglio i cambiamenti. Lo dimostra l’esperienza degli ultimi mesi: venuta meno la barriera che separava la dimensione professionale da quella familiare, le aziende hanno imparato a considerare le persone nella loro interezza, scoprendone nuovi bisogni e differenti fragilità.
Secondo un report della School of Management del Politecnico di Milano (Lifeed è partner della Ricerca 2021/2022 dell’Osservatorio HR Innovation Practice), nonostante otto lavoratori su 10 abbiano ben chiari gli obiettivi da raggiungere e il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione, nel complesso le persone sono meno ingaggiate e coinvolte nelle attività lavorative. Il 79% dichiara di aver raggiunto un buon equilibrio tra vita privata e lavorativa e il 76% considera l’ambiente di lavoro più inclusivo. Eppure, la distanza tra l’organizzazione e le persone si avverte ancora.
Comunicazione interna e gestione del clima aziendale sono i processi considerati più critici. Se nell’ultimo anno è rimasta invariata la proficiency, ovvero l’efficienza e l’accuratezza nell’esecuzione delle attività, è invece calata tra i lavoratori la proactivity, l’indicatore che misura la capacità di introdurre miglioramenti in maniera proattiva a vantaggio dell’organizzazione. Le persone meno ingaggiate e meno coinvolte hanno avuto difficoltà a sviluppare idee utili a migliorare le attività lavorative.
La componente dell’engagement che si è ridotta in misura maggiore è quella del “vigore”, ovvero la condizione psicologica legata all’energia e al desiderio di lavorare. L’impegno che le aziende hanno messo in atto per motivare i propri collaboratori non è bastato a farle sentire oggetto di reale attenzione. È necessario allora intervenire per rendere le nuove modalità di lavoro davvero sostenibili, mettere in campo iniziative che stimolino il coinvolgimento e la motivazione e strutturare forme di leadership più attente e “gentili”.
Come conferma il report del Politecnico, è tempo di delineare un nuovo ruolo della Direzione HR, di “cura” e “guida” delle persone. Recuperare l’impegno dei collaboratori e stimolare in loro una maggiore motivazione significherebbe ‘convertire’ di nuovo alla causa del business e della produttività menti fresche e desiderose di collaborare. Investire nel benessere delle persone, senza perdere di vista le esigenze di business, è possibile: empatia e ascolto fanno bene alle persone e contribuiscono anche ad accrescere la produttività dell’azienda.
Ma come si sviluppa uno stile di leadership improntato alla cura? Essere leader “gentili” non significa dimenticare i propri compiti di guida e organizzazione. Al contrario, la gentilezza nel leader coincide con la capacità di riconoscere i bisogni delle persone e si manifesta nella scelta di permettere a tutti di esprimere in sicurezza emozioni e stati d’animo. Anche a se stessi: la vulnerabilità oggi può essere considerata un sintomo di forza del leader, non solo perché accorcia le distanze con i propri collaboratori, ma anche perché offre un esempio da seguire a quanti temono di mostrarsi deboli condividendo le proprie emozioni. Un leader empatico, ben predisposto all’ascolto e attento alle relazioni umane è un leader inclusivo, che riconosce il valore delle sue persone e lo trasforma in punti di forza al servizio del business.
Come dice Richard Davidson, fondatore del Centro per la Ricerca su Menti Sane dell’Università del Winsconsin, anche la compassione, come le competenze fisiche e accademiche, può essere allenata mediante la formazione e la pratica. La compassione esercitata dall’azienda contribuisce ad alimentare fiducia e collaborazione tra i lavoratori. Per Davidson, “le persone possono effettivamente costruire il loro ‘muscolo’ della compassione e rispondere alle sofferenze degli altri con attenzione e desiderio di aiutare”. Proprio nelle situazioni di forte stress emotivo, è importante prendersi cura del benessere psico-fisico delle persone.
I primi a dover allenare questo nuovo “muscolo” sono i Direttori HR, chiamati a sostenere le persone nel recupero dell’entusiasmo e della motivazione. Va ripristinata anche quella dimensione di socializzazione, venuta a mancare negli ultimi mesi, per ridare nuovo senso all’idea di appartenenza, lasciandosi alle spalle il senso di precarietà dovuto all’emergenza. Proviamo a imparare dall’esperienza vissuta: la sfida è interiorizzare e far tesoro dei cambiamenti portati dal modello di lavoro da remoto nella cultura aziendale e nei comportamenti delle persone, passando da una logica legata al presenzialismo a una basata sull’attenzione ai risultati. E, soprattutto, alle persone che li hanno ottenuti.
L’Onu si è prefissata 17 obiettivi di sviluppo sostenibile nell’Agenda 2030. Anche l’Italia fa la sua parte, attraverso un’apposita Strategia nazionale. Ma per arrivare a una sostenibilità globale, occorre partire da quella dei singoli. Le aziende (e in particolare le Direzioni HR) hanno, in questo senso, un ruolo fondamentale.
Come hanno dimostrato John W. Boudreau e Peter M. Ramstad in uno studio del 2005 intitolato Talentship, talent segmentation, and sustainability: A new HR decision science paradigm for a new strategy definition, comparso nella rivista Human Resource Management, le organizzazioni hanno davanti a sé due sfide importanti: quella di attirare (e trattenere) i talenti e quella di riuscire a rendere coerenti gli obiettivi economici con quelli sociali e ambientali.
Per vincerle, il primo passo è quello di armonizzare ciò che le aziende promuovono e mostrano all’esterno con quello che fanno per (e con) i propri dipendenti. Sono due aspetti che devono necessariamente convivere: l’allineamento tra gli obiettivi interni ed esterni consente il buon funzionamento e, dunque, il successo di un’impresa.
Nelle agende delle aziende, dunque, ha sempre più rilevanza il concetto di Human sustainability, cioè l’insieme di azioni con cui l’azienda, per la sua crescita, punta sulla formazione delle sue persone, sul loro benessere, sull’inclusione e sull’engagement. Per attuarla, gioca un ruolo centrale la Direzione HR, che ha il compito di mantenere ogni giorno la coerenza tra ciò che l’azienda è e ciò che mostra di sé.
Non solo: le aziende possono sviluppare la capacità di vedere le proprie persone nella loro interezza e complessità. Quest’ultima è potenziale che genera valore: è il momento di superare il concetto di equilibrio vita-lavoro, per adottare una visione di sinergia vita-lavoro. Infatti, la vita personale e professionale non confliggono e non si contrappongono: siamo le stesse persone a casa e in ufficio, mentre ci relazioniamo con figli, amici, genitori, capi o colleghi.
Non portiamo con noi, dietro la scrivania, solo un pezzetto di ciò che siamo e delle nostre competenze: non smettiamo di essere madri, padri, figli, fratelli, amici quando chiudiamo la porta dell’ufficio. Anzi, queste nostre diverse sfere di vita si rafforzano a vicenda.
Ecco perché le aziende possono mettere in atto programmi, progetti e iniziative a tutela e valorizzazione delle proprie persone, realizzando concretamente la Human sustainability e mettendo in pratica la nozione di HR footprint, riguardante l’impatto concreto delle aziende sulle risorse umane, l’impronta della Direzione HR sul futuro dell’impresa.
Ma cosa significa oggi progettare processi e pratiche HR nel rispetto dei principi della sostenibilità? Senz’altro occorre valorizzare l’equità, lo sviluppo e il benessere, a partire dal proprio interno, diffondendo i valori della sostenibilità tra la cultura, i comportamenti e le pratiche aziendali. Questo rafforza le competenze, la motivazione e la produttività delle persone (misurabili con un’apposita attività di People Analytics), che sono fondamentali affinché l’impresa possa ottenere buoni risultati economici, sociali e ambientali.
Questo modo nuovo di guardare al capitale umano, richiamato dai concetti di Human Sustainability e HR footprint, ha un forte impatto sul benessere organizzativo e anche sui profitti. Infatti, mettere a frutto le competenze delle persone, il ‘bagaglio’ che si portano dietro nella propria interezza, non limitandolo a quanto emerge nel singolo ruolo, permette una realizzazione professionale e personale che ha ricadute positive su tutto il sistema-impresa.
Sono le transizioni di vita il motore di crescita e sviluppo costante delle persone. Ecco perché non dobbiamo temere i cambiamenti nel tempo: anche le imprese possono a trarne beneficio, capitalizzando le esperienze e i talenti delle loro persone e ottenendo maggiori livelli di motivazione, benessere, coinvolgimento, efficacia. Questi sono gli elementi che contribuiscono alla crescita sostenibile dell’azienda e alla sua creazione di valore.
Nel “now normal” un alto employee engagement contribuisce ad aumentare i livelli di benessere, migliora la salute e diminuisce il rischio di burnout
Dipendenti più ingaggiati generano +21% di redditività, +20% di produttività, +10% di fidelizzazione del cliente (fonte: Gallup)
Scopri come si può migliorare l’employee engagement in 3 step
L’arrivo del mese di settembre con il back to work ha portato a una diffusa urgenza di now normal: sappiamo ormai che non ci si può più aspettare il new normal di cui si è parlato tanto gli scorsi mesi, quanto piuttosto una normalità liquida, in continua evoluzione verso i next normal. Una normalità che, seppur transitoria, offre, tuttavia, qualche reminiscenza della quotidianità pre-Covid.
È in questi scenari che l’attenzione e la vicinanza alle persone è quanto mai fondamentale per aiutarle a riposizionarsi nei nuovi scenari, e diventa elemento determinante per la sopravvivenza dell’azienda. Adottare pratiche di employee engagement ha il vantaggio di incrementare i livelli di produttività, abbassare i livelli di stress e generare benessere organizzativo diffuso.
Secondo William Kahn, lo studioso che per primo ha elaborato una definizione di employee engagement (Psychological conditions of personal engagement and disengagement at work, 1990), sono tre le condizioni psicologiche necessarie affinché un dipendente possa dirsi pienamente coinvolto:
In un recente studio di Gallup, società leader nella relazione tra team engagement e performance sul lavoro, viene confermato che i team dove si riscontrano livelli più alti di engagement ottengono risultati migliori: 21% in più di redditività, 20% in più di produttività, 10% in più di fidelizzazione del cliente. E i benefici non si riflettono soltanto sui conti aziendali: i dipendenti più “engaged” sono anche più sani e meno esposti al rischio di burnout.
Sempre secondo Gallup la crescita dell’employee engagement è da attribuire in via prioritaria ai cambiamenti del modo in cui le organizzazioni si occupano dello sviluppo dei dipendenti. Le realtà capaci di focalizzarsi su una cultura della crescita interna registrano un salto nei livelli di engagement dal 20% al 70%.
Ma c’è di più: la relazione sembra farsi più intensa tanto più difficili sono le condizioni esterne in cui opera l’organizzazione. Durante le crisi una buona predisposizione al lavoro impatta sui risultati aziendali in misura maggiore di quanto non accada in tempi normali. Durante gli ultimi anni di recessione economica si è, infatti, evidenziato un rapporto più stretto tra coinvolgimento dei dipendenti e aumento di indicatori quali redditività, produttività, percezione dei consumatori.
Ciò non significa che, in momenti di crisi, l’engagement cresca spontaneamente. Il distanziamento sociale e le nuove modalità di lavoro imposte dalla pandemia mettono a dura prova i tentativi delle aziende di mantenere coinvolto il personale. Proprio perché l’employee engagement aumenta solo grazie all’adozione di prassi organizzative positive, occorre sviluppare precise strategie per mitigare la distanza e rafforzare la partecipazione in azienda.
Quali sono le buone prassi da adottare per far sentire le proprie persone accolte ed accettate in azienda, e incidere così sul miglioramento dell’engagement? Ecco 3 mosse adatte al periodo di incertezza che ancora vivendo.
Il primo suggerimento è di guardare alle persone nella loro interezza. Uno studio di Deloitte ha rivelato che il 61% dei dipendenti nasconde alcuni aspetti della propria identità per paura di essere discriminato in ufficio o per timore di apparire poco concentrato sul lavoro. In molti casi il Covid ha reso impossibile questo tentativo di celare parti di sé.
In tempi di home working forzato, le persone hanno condiviso con i propri capi e colleghi aspetti inediti della propria vita: davanti agli schermi dei loro computer si sono mostrati non solo come professionisti, ma anche come genitori, compagni, caregiver. Consentire alle persone di portare tutto di sé anche sul lavoro significa creare una “cultura della cura”, in cui ognuno si sente motivato e libero di esprimersi. E ciò aiuta a ridurre le tensioni e aumentare la comprensione reciproca. Oltre a portare più liberamente tutti i propri talenti anche sul lavoro.
Non sono solo i contesti formali a essere fonte di apprendimento. Si impara in ogni momento della vita e la crisi è una grande opportunità di sviluppo per le persone e per le organizzazioni. È possibile riconoscere le crisi come catalizzatore del cambiamento e decidere che tipo di trasformazione vogliamo realizzare.
La letteratura post traumatica individua cinque aree di crescita potenziale:
Sapere di aver superato un momento difficile e averne tratto una lezione importante rende più consapevoli delle proprie capacità e meglio equipaggiati per il futuro. In un’ottica di continuous learning, rielaborare il passato permette di essere autori e attori di una nuova storia di cambiamento: in un mondo in continuo divenire, reagire agli shock vuol dire imparare a ricominciare ogni volta da capo.
La situazione che stiamo vivendo a causa del Covid-19 può essere, infine, una grande occasione per le organizzazioni per trovare risposte personalizzate ai bisogni delle loro persone. Aprire canali di ascolto evita l’isolamento e permette di comprendere le diverse sfide che i dipendenti stanno affrontando, individuando il modo migliore per sostenerli.
Adottare un approccio personalizzato significa promuovere una cultura del cambiamento condivisa all’interno dell’organizzazione. Ecco perché l’employee engagement ha bisogno di un dialogo continuo e corrisposto tra dipendente e azienda, che tenga in considerazione gli specifici bisogni di ognuno, permetta a ciascuno di creare il proprio percorso e lo inviti a condividere con gli altri quanto è stato imparato fino a quel momento per creare insieme un nuovo sense of purpose.
Nelle transizioni come quella causata dal Covid-19 si cresce dunque solo se viene fatto tutti insieme: aziende e dipendenti, visti nella loro duplice veste professionale e privata. Lifeed, già attivo in oltre 80 aziende come Manpower, MSD, Reale Mutua, UniCredit, trasforma le transizioni in palestre di soft skill per l’efficacia professionale e si rivela un valido strumento per migliorare l’engagement delle persone, incidere sul loro benessere e migliorare la produttività sul lavoro.
Il 53% degli utenti Lifeed sente di poter rivelare e usare più cose di sé sul lavoro e il 57% è orgoglioso della propria azienda. Gli effetti sono chiari: il 90% sta meglio e ha più energia e la stessa percentuale di persone si dichiara di più coinvolta e motivata nelle attività lavorative quotidiane.
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