Non hanno certo il blocco dello scrittore i nostri Life Based Learners: fiumi di parole che fanno emergere riflessioni, idee, nuove consapevolezze, valori, capacità. Al cuore di Lifeed, vi è infatti una metodologia di apprendimento che si basa anche (ma non solo!) sull’autonarrazione attraverso domande guidate.
Riflettere e scrivere permette di dare un nome ai segnali delle transizioni che stiamo vivendo, permette di familiarizzare con quello che ci sta accadendo e prendere la giusta distanza per vedere le cose più chiaramente e (ri)costruire il proprio racconto personale.
Sono numerosi gli studi che confermano i benefici dell’autonarrazione sia a livello fisico sia emotivo. Migliora, ad esempio, la regolazione delle emozioni e agisce sul sistema immunitario e sulla salute celebrale (Petrie et al. 2004); scrivere dei propri traumi, riduce lo stress, abbassa la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca (Pennebaker, Hughes e O’Heeron 1987); dedicarsi all’autonarrazione rende più felici, e migliora persino le capacità relazionali (Pennebaker & Graybeal 2001, Baddeley & Pennebaker 2011); migliora il benessere generale e le funzioni cognitive (Barclay & Skarlicki 2009).
Tutti questi benefici si travasano in maniera naturale e immediata dalla vita privata a quella lavorativa. Come dimostra chi si è formato su Lifeed: il 74% sente di conoscersi meglio, è più consapevole di sé e delle proprie risorse, mentre il 64% afferma che il metodo Lifeed “fa sentire bene”.
“L’esperienza è arrivata al momento giusto e quindi ha fatto leva sulle mie emozioni, che di norma sono un mondo chiuso e riservato, ma strabiliante per attivare il cambiamento”, racconta un partecipante. “Lifeed mi ha ‘autorizzata’ a focalizzarmi su me stessa per prima cosa, per poter dare il meglio di me sul lavoro”, dichiara un’altra.
Con la nuova funzionalità Portfolio è possibile rileggere i propri ricordi, rivivere emozioni alla luce del tempo trascorso e delle nuove consapevolezze che le esperienze di vita hanno generato, riscrivere o aggiungere nuove riflessioni.
Nella sezione “Competenze” del Portfolio è possibile verificare quali sono già state allenate grazie al focus offerto dalle unità didattiche o dalle attività pratiche previste per le Missioni Real Life, e quali sono ancora da allenare così da poter scegliere come focalizzare al meglio il proprio percorso formativo.
Genitori, caregivers e tutti coloro che stanno vivendo una forte transizione di vita hanno oggi uno strumento in più per trarre il massimo dalla loro formazione Life Based.
Affrontare i cambiamenti quando le circostanze esterne continuano a essere incerte è un compito ancora più difficile. Che tu sia genitore, caregiver, o ti trovi nel mezzo di una transizione personale o professionale, le competenze soft sono fondamentali poichè rappresentano la tua risorsa più preziosa per reagire (con successo) all’incertezza.
Con la versione mobile di Lifeed alleni tue competenze soft quando e dove vuoi.
Questo perché la formazione Lifeed è…
Lifeed si adatta alle fasi e ai ritmi della tua vita. Con la versione mobile, puoi sfruttare i momenti liberi della tua giornata per lasciarti ispirare da un podcast o da una lettura, riflettere con le domande aperte, o condividere le tue intuizioni nella community. Questo grazie ai moduli progettati in modalità micro-learning e ricchi di contenuti multimediali, per andare lontano, ma a piccoli passi.
Scegli le competenze che ti interessano di più in questo momento della tua vita e allenale con Lifeed. Osserva la tua famiglia, le persone di cui ti prendi cura, oppure te stesso, con più calma rispetto ai soliti impegni e imprevisti della quotidianità. Applica immediatamente nella tua vita quello che apprendi con Lifeed. Hai una missione real-life da compiere? Non perdere tempo: annota subito cosa hai imparato, le emozioni che ti ha generato.
Accedi da più device: PC, smartphone o tablet, quando ti è più comodo. Riprendi la tua formazione da dove l’avevi lasciata, senza perdere i tuoi progressi. Puoi anche riguardare i webinar che ti sono piaciuti di più o quelli che avevi perso, rileggere e aggiornare i tuoi racconti e le tue riflessioni, ricominciare da capo o prendere le scorciatoie per ottenere il tuo attestato più velocemente.
Se è la prima volta che accedi a Lifeed da mobile, è facile, basta cliccare sul link che compare direttamente nella tua home di app.lifeed.io, dopo aver fatto login. Se, invece, hai già navigato Lifeed da mobile ma non l’hai salvata sul tuo smartphone, segui la procedura che ti spieghiamo qui sotto.
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Dopo averla salvata, potrai spostare Lifeed come qualsiasi altra app, inserirla in una cartella o in un’altra pagina.
Buona formazione con Lifeed!
Nel “now normal” un alto employee engagement contribuisce ad aumentare i livelli di benessere, migliora la salute e diminuisce il rischio di burnout
Dipendenti più ingaggiati generano +21% di redditività, +20% di produttività, +10% di fidelizzazione del cliente (fonte: Gallup)
Scopri come si può migliorare l’employee engagement in 3 step
L’arrivo del mese di settembre con il back to work ha portato a una diffusa urgenza di now normal: sappiamo ormai che non ci si può più aspettare il new normal di cui si è parlato tanto gli scorsi mesi, quanto piuttosto una normalità liquida, in continua evoluzione verso i next normal. Una normalità che, seppur transitoria, offre, tuttavia, qualche reminiscenza della quotidianità pre-Covid.
È in questi scenari che l’attenzione e la vicinanza alle persone è quanto mai fondamentale per aiutarle a riposizionarsi nei nuovi scenari, e diventa elemento determinante per la sopravvivenza dell’azienda. Adottare pratiche di employee engagement ha il vantaggio di incrementare i livelli di produttività, abbassare i livelli di stress e generare benessere organizzativo diffuso.
Secondo William Kahn, lo studioso che per primo ha elaborato una definizione di employee engagement (Psychological conditions of personal engagement and disengagement at work, 1990), sono tre le condizioni psicologiche necessarie affinché un dipendente possa dirsi pienamente coinvolto:
In un recente studio di Gallup, società leader nella relazione tra team engagement e performance sul lavoro, viene confermato che i team dove si riscontrano livelli più alti di engagement ottengono risultati migliori: 21% in più di redditività, 20% in più di produttività, 10% in più di fidelizzazione del cliente. E i benefici non si riflettono soltanto sui conti aziendali: i dipendenti più “engaged” sono anche più sani e meno esposti al rischio di burnout.
Sempre secondo Gallup la crescita dell’employee engagement è da attribuire in via prioritaria ai cambiamenti del modo in cui le organizzazioni si occupano dello sviluppo dei dipendenti. Le realtà capaci di focalizzarsi su una cultura della crescita interna registrano un salto nei livelli di engagement dal 20% al 70%.
Ma c’è di più: la relazione sembra farsi più intensa tanto più difficili sono le condizioni esterne in cui opera l’organizzazione. Durante le crisi una buona predisposizione al lavoro impatta sui risultati aziendali in misura maggiore di quanto non accada in tempi normali. Durante gli ultimi anni di recessione economica si è, infatti, evidenziato un rapporto più stretto tra coinvolgimento dei dipendenti e aumento di indicatori quali redditività, produttività, percezione dei consumatori.
Ciò non significa che, in momenti di crisi, l’engagement cresca spontaneamente. Il distanziamento sociale e le nuove modalità di lavoro imposte dalla pandemia mettono a dura prova i tentativi delle aziende di mantenere coinvolto il personale. Proprio perché l’employee engagement aumenta solo grazie all’adozione di prassi organizzative positive, occorre sviluppare precise strategie per mitigare la distanza e rafforzare la partecipazione in azienda.
Quali sono le buone prassi da adottare per far sentire le proprie persone accolte ed accettate in azienda, e incidere così sul miglioramento dell’engagement? Ecco 3 mosse adatte al periodo di incertezza che ancora vivendo.
Il primo suggerimento è di guardare alle persone nella loro interezza. Uno studio di Deloitte ha rivelato che il 61% dei dipendenti nasconde alcuni aspetti della propria identità per paura di essere discriminato in ufficio o per timore di apparire poco concentrato sul lavoro. In molti casi il Covid ha reso impossibile questo tentativo di celare parti di sé.
In tempi di home working forzato, le persone hanno condiviso con i propri capi e colleghi aspetti inediti della propria vita: davanti agli schermi dei loro computer si sono mostrati non solo come professionisti, ma anche come genitori, compagni, caregiver. Consentire alle persone di portare tutto di sé anche sul lavoro significa creare una “cultura della cura”, in cui ognuno si sente motivato e libero di esprimersi. E ciò aiuta a ridurre le tensioni e aumentare la comprensione reciproca. Oltre a portare più liberamente tutti i propri talenti anche sul lavoro.
Non sono solo i contesti formali a essere fonte di apprendimento. Si impara in ogni momento della vita e la crisi è una grande opportunità di sviluppo per le persone e per le organizzazioni. È possibile riconoscere le crisi come catalizzatore del cambiamento e decidere che tipo di trasformazione vogliamo realizzare.
La letteratura post traumatica individua cinque aree di crescita potenziale:
Sapere di aver superato un momento difficile e averne tratto una lezione importante rende più consapevoli delle proprie capacità e meglio equipaggiati per il futuro. In un’ottica di continuous learning, rielaborare il passato permette di essere autori e attori di una nuova storia di cambiamento: in un mondo in continuo divenire, reagire agli shock vuol dire imparare a ricominciare ogni volta da capo.
La situazione che stiamo vivendo a causa del Covid-19 può essere, infine, una grande occasione per le organizzazioni per trovare risposte personalizzate ai bisogni delle loro persone. Aprire canali di ascolto evita l’isolamento e permette di comprendere le diverse sfide che i dipendenti stanno affrontando, individuando il modo migliore per sostenerli.
Adottare un approccio personalizzato significa promuovere una cultura del cambiamento condivisa all’interno dell’organizzazione. Ecco perché l’employee engagement ha bisogno di un dialogo continuo e corrisposto tra dipendente e azienda, che tenga in considerazione gli specifici bisogni di ognuno, permetta a ciascuno di creare il proprio percorso e lo inviti a condividere con gli altri quanto è stato imparato fino a quel momento per creare insieme un nuovo sense of purpose.
Nelle transizioni come quella causata dal Covid-19 si cresce dunque solo se viene fatto tutti insieme: aziende e dipendenti, visti nella loro duplice veste professionale e privata. Lifeed, già attivo in oltre 80 aziende come Manpower, MSD, Reale Mutua, UniCredit, trasforma le transizioni in palestre di soft skill per l’efficacia professionale e si rivela un valido strumento per migliorare l’engagement delle persone, incidere sul loro benessere e migliorare la produttività sul lavoro.
Il 53% degli utenti Lifeed sente di poter rivelare e usare più cose di sé sul lavoro e il 57% è orgoglioso della propria azienda. Gli effetti sono chiari: il 90% sta meglio e ha più energia e la stessa percentuale di persone si dichiara di più coinvolta e motivata nelle attività lavorative quotidiane.
Vuoi conoscere tutti i vantaggi di Lifeed per la tua azienda? Contattaci oggi stesso per una live demo o accedi all’area trial.
Abbiamo cambiato nome. Ma non la modalità con cui portiamo avanti la nostra azienda: con la stessa passione e lo stesso entusiasmo con cui nel 2015 abbiamo lanciato MAAM La maternità è un master, oggi inizia il nostro impegno per dimostrare che tutta la vita è un master!
Crediamo che la realtà sia meglio delle sue attuali definizioni: proponiamo nuove connessioni, nuove cornici per far stare insieme vita e lavoro, generando energia e sostenibilità.
Ecco perché nasce Lifeed, per aiutare le persone a vedersi riconosciute nella loro interezza, anche sul lavoro, e per affiancare le aziende affinché questo accada.
Crediamo che migliorare le proprie competenze soft sia alla portata di tutti: divulghiamo un metodo di apprendimento che fa emergere il potenziale di ciascuno dagli eventi della vita.
Non è solo la maternità, o la paternità, e nemmeno la cura intensa di un proprio caro, ma tutta la vita ci da’ la possibilità di mettere in campo numerose competenze soft. Le ricerche scientifiche e lo sguardo attento ai cambiamenti sociali ci hanno consentito di ampliare la nostra attenzione a tutte le transizioni della vita, che oggi accadono sempre più spesso, e che, se considerate dei “compiti di sviluppo”, permettono alle persone di uscirne più forti, con maggiori competenze ed energie, da riportare efficacemente anche sul lavoro.
MAAM non bastava più per esprimere questo enorme potenziale, ecco perché ci siamo dati un nuovo nome. In questi anni abbiamo creato tanti neologismi e tanti nuovi concetti, che sono diventati di uso comune. Con lo stesso augurio, oggi lanciamo Lifeed, acronimo di Life Feeds Education: la vita entra nella formazione aziendale e la arricchisce di una inedita modalità di apprendimento, impossibile da riprodurre in aula con la formazione tradizionale.
Crediamo che il momento migliore per ascoltare le persone sia mentre vivono: se dedicherai loro la giusta attenzione, emergerà la meraviglia dentro.
Ecco in pochi secondi cos’è Lifeed:
Se Vasco Rossi si fosse ispirato all’esperienza lavorativa dei nostri nonni, forse anche a quella dei nostri genitori, probabilmente non avrebbe scritto “Vita spericolata”, quanto piuttosto “Vita prudente”. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno conosciuto senz’altro momenti storici difficili, ma la professione, almeno quella, era una certezza. Esisteva il “mito del posto fisso”, quello che, ormai, si studia sui libri di scuola, a cavallo tra la storia e la letteratura. Le tappe della vita erano ben definite, l’approdo al contratto a tempo indeterminato segnava un engagement definitivo. Se avessimo raccontato loro della letteratura scientifica che esiste oggi su questo tema, probabilmente avrebbero sorriso. Eppure, non è affatto scontato che fossero più appagati e realizzati delle nuove generazioni. Oggi le transizioni lavorative sono fisiologiche: anche chi segue un iter tutto sommato lineare, molto difficilmente potrà esimersi dallo sperimentare almeno qualche tirocinio, un contratto di apprendistato, collaborazioni esterne, per poi approdare ad una certa stabilità contrattuale, ma, anche in questo caso, non escludendo diversi cambi di azienda.
Pier Giovanni Bresciani, Docente di Psicologia del Lavoro presso l’Università di Urbino e Presidente della SIPLO – Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, che è uno dei massimi esperti di transizioni in Italia, nei suoi testi fondamentali (cfr. ad es. Biografie in transizione. I progetti lavorativi all’epoca della flessibilità. Franco Angeli, Milano, 2006) osserva giustamente come queste transizioni lavorative avvengano oggi in un contesto sociale molto più “liquido”, per dirla con Bauman. L’incertezza soggettiva, data da una società che ha abdicato al proprio ruolo di accompagnamento alla crescita dell’individuo, difficilmente viene sostenuta dalle contromisure messe in atto nel mondo della formazione e del lavoro. Come fa notare Bresciani, per affrontare la transizione le persone utilizzano e mescolano elementi diversi, che fanno parte della propria dotazione individuale di risorse. Ecco perché ogni cambiamento, anche se positivo, è comunque un momento delicato nella vita. Ogni ‘spostamento’ richiede sempre al soggetto una ridefinizione cognitiva, a volte anche molto complessa: essa evoca sempre ansie, paure, insicurezze, ci pone di fronte alle nostre scelte e al giudizio che abbiamo su noi stessi, ma anche a quello degli altri (o al timore di quello che gli altri vedono in noi). Lasciare il noto per l’ignoto comporta emozioni complesse, la cui elaborazione richiede risorse personali importanti.
Pensiamo alla maternità e alla paternità. Questo è forse il più grande e significativo cambiamento di vita che una persona può vivere. Ebbene, anche la maternità e la paternità sono delle transizioni e per noi, proprio per questo, sono anche delle palestre di efficacia professionale. Qualunque sia il nostro ruolo in azienda, quello che apprendiamo diventando genitori può essere messo a frutto anche sul lavoro. Quasi inevitabilmente il genitore aumenterà la propria capacità di ascolto, di mediazione, di comprensione dei colleghi e collaboratori. Il modello di leadership, di gestione del conflitto, persino quello della gestione del proprio tempo (e, di conseguenza, la produttività) possono cambiare positivamente, se guidati ed accompagnati a riconoscere le abilità che la transizione ha portato con sé.
Pensiamo, più in generale, a quella che definiamo “la nostra esperienza”. È quella che descriviamo sul curriculum, ma anche quella che avanziamo come argomento di conversazione, o per consigliare qualcuno. “Secondo la mia esperienza” è di solito l’incipit che fa sì che il nostro interlocutore difficilmente possa eccepire o ribattere: è un argomento quasi assoluto, insindacabile, perché presenta un aspetto di sé come un fatto, non come opinione. Ma quella condizione di vita che definiamo esperienza la costruiamo proprio transizione dopo transizione. La difficoltà consiste nell’affrontarla, elaborarla, metterla a frutto, anche sul lavoro, perché questo importante bagaglio personale porta con sé l’acquisizione di competenze. Difficilmente, tuttavia, le cosiddette life skills, o anche le soft skills, possono essere riconosciute e trasformate in un punto di forza in autonomia. Non è la scuola che ci insegna a metterle in pratica, nemmeno l’Università. Con Lifeed, la formazione tra digitale e vita reale che valorizza le esperienze di vita e le rende risorse preziose per l’attività lavorativa, abbiamo pensato e strutturato addirittura un master (anzi, più di uno) per apprendere l’enorme potenziale di sviluppo che la transizione porta con sé. Con cinque anni di esperienza alle spalle, sappiamo che le persone che attraversano una transizione possono uscire più deboli o molto più forti: dipende da come la attraversano.
L’esempio che abbiamo fatto (diventare genitori) è riferito ad una cosa bella. Ma non tutte le transizioni derivano da un evento positivo. Pensiamo all’emergenza sanitaria data dal Covid-19. Essa ha portato cambiamenti, in noi e nel mondo del lavoro, da cui sarà difficile tornare indietro. Eppure, anche questa transizione non è positiva o negativa in sé. Dipende da come la si vive. Lifeed Transitions vuole aiutare le aziende e i loro dipendenti a ricavare i frutti positivi di questa esperienza. Rischi ed opportunità sono due facce della medaglia che il destino ha lanciato in aria, ma noi abbiamo la possibilità di condizionare il lato su cui la moneta cadrà. L’uomo è animale sociale: questo lavoro non può essere solo interiore. Deve coinvolgere il contesto in cui siamo inseriti.
Ecco perché Lifeed Transitions permette non solo di apprendere la gestione di questa transizione e farla diventare motivo di crescita personale, ma anche di porla come terreno di confronto e crescita del team. I partecipanti, “dal basso” possono contribuire alla (ri)costruzione di una nuova cultura aziendale, che parta dal riconoscimento e dalla applicazione delle nuove competenze apprese dal singolo. In questo modo, la medaglia cadrà sulla faccia giusta, quella delle opportunità: lo psicologo e politico David Halpern parla di “crescita postraumatica” in contrapposizione alla sindrome da stress postraumatico. Questo esempio ci aiuta a capire come un evento doloroso, cui tendenzialmente assoceremmo esiti negativi, grazie ad un supporto idoneo e competente può non solo essere superato senza traumi, ma addirittura portare ad un miglioramento. Il momento della crisi è un guado: la struttura giusta può aiutarci a superarlo indenne.
Il Bridges’ Transition Model insegna a riconoscere gli stati d’animo che affrontiamo durante la transizione: la fine di qualcosa porta ad essere sotto shock, spaventati, arrabbiati. Ne consegue un disorientamento, una confusione mentale, uno stato di frustrazione o addirittura di apatia. Se abbiamo gli strumenti adatti, possiamo trasformare queste sensazioni negative in un nuovo inizio. Se, al contrario, non è gestita, la transizione può avere ripercussioni molto negative, anche sul benessere dell’azienda. Se non si abilitano nuovi linguaggi, non si esplicita la rottura dei vecchi stereotipi e non si fa spazio all’incertezza e al bisogno delle persone di esprimersi, la ricaduta potrebbe essere un aumento dello stress dalla durata molto lunga e una perdita di senso per molte persone.
Non sono gli individui più forti o più intelligenti a sopravvivere alla crisi, ma coloro che sono capaci di adattarsi al cambiamento. Perché questo avvenga, è necessario capire a fondo i mutamenti cui siamo andati incontro, le competenze che abbiamo sviluppato per affrontarli e comprendere come possono essere applicate con successo nel nostro contesto lavorativo. È solo quando abbiamo attraversato il guado che, un po’ increduli, ci chiediamo come abbiamo fatto ad arrivare indenni dall’altra parte. Allora, dobbiamo guardarci indietro per capire il passato, anche gli errori. Il presente, infatti, serve proprio a rimediare ed essi. Il passato non va visto in ottica profetica: quello che è successo non è destinato a ripetersi, se abbiamo imparato come evitarlo. Lo sguardo al futuro deve rendere generativi gli apprendimenti che ci hanno permesso il passaggio. Creatività, intraprendenza, apertura mentale, gestione del cambiamento, visione: sono queste le capacità che i partecipanti ad una nostra survey si sono attribuiti, mentre attraversavano l’emergenza sanitaria. Si tratta di skills importanti, che possono essere applicate con successo al lavoro.
Il master Lifeed Transitions accompagna non solo nella fase del riconoscimento, grazie allo strumento della narrazione di sé, ma aiuta a condividere in “stanze virtuali” le proprie sensazioni: “nessuno si salva da solo” è un primo, grande apprendimento che ci ha lasciato in eredità il Covid-19. Scoprendo le proprie risorse si può attraversare quel ponte sospeso tra l’incertezza e l’autonomia (If You’re Burning Out, Carve a New Path, Harvard Business Review April 2020), agendo per controbilanciare il “carico allostatico” e lo stress dati dalla crisi. Il termine “allostasi” venne coniato nel 1988 da Peter Sterling e Joseph Eyer (dal greco ‘allo’, che significa variabile e ‘stasis’ che significa stabile), per indicare che la stabilità dell’organismo è il risultato del cambiamento. Questo modello si può definire predittivo, perché cerca di anticipare le domande dell’ambiente agendo sempre sugli stessi sistemi dell’organismo. È alla base, quindi, di un concetto oggi molto utilizzato, quello della ‘resilienza’: anche tale capacità si può apprendere ed allenare, per diventare protagonisti, non spettatori della nostra storia. Non è da confondersi con la resistenza: questa è la semplice presa d’atto delle proprie cicatrici, nonostante le quali proseguire il cammino. La resilienza, invece, è la capacità di imparare da esse, ammettendo e comprendendo i propri errori e trasformandoli in punti di forza: ciò permette non solo di migliorarsi, ma anche di affrontare la paura del cambiamento, che è del tutto naturale. Questo non possiamo impararlo se, semplicemente, ce lo racconta qualcun altro. L’incertezza provocata dalla transizione fa emergere le meta competenze che più servono al mondo del lavoro e che sono più difficili da formare in aula: l’attitudine al cambiamento continuo, la tolleranza dell’errore, lo spirito di iniziativa, l’imprenditorialità, l’agilità mentale, la leadership, la responsabilità, l’autodeterminazione. Sono tutte capacità che vanno rafforzate con un aiuto competente.
Lifeed Transitions fa esattamente questo: grazie al team scientifico che lo ha progettato, altamente esperto di questi temi, sa fare spazio alle riflessioni delle persone, accompagnarle in un percorso attraverso la crisi, mettendo in evidenza come cambiano le loro identità, rassicurandoli e facendoli sentire più forti. A beneficio di tutti, perché, come ci insegna Darwin, ai fini della sopravvivenza non conta solo l’eccellenza del singolo individuo, ma l’intero contesto biologico e sociale in cui è immerso.
di Riccarda Zezza
Sensibili guerriere: sono le mamme che in questi giorni si stanno trovando davanti all’impossibile scelta tra figli e lavoro, pagando in prima persona il prezzo di una società che ancora poggia, per mantenere il proprio precario equilibrio, sulla loro resistenza e il loro spirito di sacrificio. E’ proprio così: oggi più che mai è alle madri che si chiede di fare un passo indietro, ed è alla loro forza accudente e resiliente che si chiede di sostenere quella parte di Italia che forse non vota, ma dà un volto al nostro futuro: i figli.
Sensibili guerriere è il titolo di un saggio sulla forza femminile a cura di Federica Giardini, ed è anche il titolo preso in prestito dalla conferenza digitale organizzata il 7 maggio da Alley Oop – Il Sole 24 Ore e dalla società HR-tech Life Based Value di cui sono amministratrice delegata: mantenendo una promessa fatta durante una conferenza analoga organizzata con sette “CEO papà” in occasione della Festa del papà, eccoci a festeggiare la Festa della mamma del prossimo 10 maggio insieme a sei “CEO mamme”.
Le CEO mamme, questa era la provocazione lanciata dalla conferenza, combattono forse un doppio stigma: troppo CEO a casa e troppo mamme sul lavoro? La storia che ci hanno raccontato è stata molto più luminosa, tanto che non pochi dei 500 partecipanti hanno commentato ringraziando per aver aperto la loro giornata in modo positivo.
Video dell’intero live streaming della conference
Ma partiamo dai dati: sulla base un sondaggio tra 1.500 partecipanti ai webinar di Life Based Value, sappiamo che il 63% delle persone oggi ha bisogno di rassicurazioni sul futuro e che il 44,5% vuole anche essere coinvolto di più nella definizione delle soluzioni. Il modello di potere desiderato è un misto di collaborazione (26%), conoscenza (26%), rispetto (17%) ed empatia (13,5%), e dai manager della fase 2 ci si attende che sappiano soprattutto condividere (70%) e ascoltare (68%), ma anche, forse sorprendentemente, che sappiano prendersi dei rischi (60%).
Quasi l’unanimità dei partecipanti (l’89,8%) ritiene poi che in questi tempi di emergenza sia possibile e necessario usare un potere di tipo “generativo”: un potere che sappia disegnare oggi il futuro, seminando idee e progetti che gli sopravvivranno.
Che cosa c’entra la maternità? Molto, anche se, come ha detto lo psicanalista Erikson nel descrivere la generatività: “La semplice messa al mondo di figli non garantisce che il genitore svilupperà un senso di generatività. I prerequisiti per lo sviluppo in questo stadio sono fede nel futuro, fiducia nella specie e abilità a occuparsi degli altri. Invece che allevare figli, si può lavorare allo stesso modo per creare un mondo migliore per i bambini degli altri”. Ecco quindi cinque pillole di potere generativo emerse nella conferenza del 7 maggio:
Livia Cevolini, amministratrice delegata di Energica Spa, casa costruttrice di moto elettriche ad elevate prestazioni, e mamma di una bimba di due anni: diventare madre le ha dato un nuovo scopo, tanto che adesso punta tutto sull’energia verde “Perché voglio far sì che lei viva in un mondo migliore”. Oltre a ricevere un’energia meravigliosa da questa nuova dimensione personale, ritiene che migliori la sua capacità di comprensione degli altri e di valorizzazione dei talenti.
Isabella Fumagalli, amministratrice delegata di BNP Paribas Cardif, diventando mamma di due ragazze ha “ingranato una marcia in più”, sentendo la responsabilità di disegnare un futuro per le sue figlie; e dalle conversazioni con loro, dalle loro “domande autentiche” ha imparato che cosa vuol dire la faticosa ma essenziale ricerca di un senso di verità. In questa fase di quarantena, poi, Isabella sta scoprendo che anche le persone della sua azienda sono molto più che professionisti: ognuno e ognuna di loro ha molteplici dimensioni, che aprono prospettive nuove anche sul modo di lavorare insieme, sulle possibilità di vicinanza tra persone e azienda (mentre non sta parlando ma è comunque inquadrata, Isabella viene abbracciata e baciata da una figlia di passaggio).
Roberta La Selva, CEO di Ogilvy Italia, diventando mamma di Michele e Arianna ha scoperto come ri-bilanciare tutto con la leggerezza che avere molti “campi da gioco” dà, redistribuendo i pesi e imparando mentre insegna, affinando l’empatia e soprattutto l’agilità mentale richiesta dal continuo adattamento a situazioni nuove, “Come per esempio fare conferenze come questa dal balcone di casa, visto che tutte le altre stanze sono occupate!”.
Elena Riva, co-proprietaria e Presidente di Panino Giusto SpA, ha tre figli insieme al loro papà, con cui è anche socia in affari, e questo “insieme ” ci tiene a sottolinearlo, perché l’azienda è un quarto figlio che da sola non avrebbe mai potuto fare. Con i tre figli – e con i 450 dipendenti della sua azienda – ha scoperto il valore della diversità come effetto moltiplicatore. Come leader e come madre, riconosce nei propri figli così come nei propri dipendenti il senso di indipendenza, che la porta a definirsi una “custode”: una custode molto paziente, che semina, insiste e persevera con fiducia, sapendo che il momento del raccolto arriverà.
Susanna Zucchelli, infine, Direttrice Generale di Heratech, non abbiamo scoperto quanti figli abbia, ma ha ben chiaro che la maternità le ha fatto portare anche nel suo ruolo di leader di un’azienda molto “hard” (ha la responsabilità della Direzione Ingegneria, delle strutture di Telecontrollo e Laboratori e della gestione dei processi e servizi) un atteggiamento materno e “avvolgente”, che sa far emergere una “bio-resilienza” nelle sue persone particolarmente utile in questa fase. Avere dei figli, aggiunge, le ha dato una visione a lungo termine e la capacità di chiedere aiuto quando serve. “E, se non te lo danno, alla fine li obblighi!” ha concluso con quel senso pratico e terrestre che hanno le persone che gestiscono tutti i giorni le sfide concrete della vita.
Auguri dunque alle sensibili guerriere: a tutte le donne che lavorano e si prendono cura di qualcuno. Fortunate se trovano la sinergia tra questi equilibrismi, avvantaggiate se lasciano per strada i sensi di colpa e di inadeguatezza che la nostra società elargisce loro in abbondanza, sono comunque sempre capaci di esprimere un potere che è fatto di forza ma, come ha detto la prima ministra neo zelandese Jacinta Ardern, anche di gentilezza e di capacità di stare insieme.
Post originariamente pubblicato su Alley Oop Blog de Il Sole 24Ore
Abbiamo reincorniciato la crisi e l’abbiamo studiata a fondo, per capire se, come tutte le altre transizioni di cui siamo già esperti, può essere considerata un vero e proprio percorso di crescita. La risposta è sì! Qui ti spieghiamo perché e ti illustriamo come funziona il nostro nuovo programma Lifeed Transitions che supporta HR e manager per accompagnare i propri collaboratori attraverso questa nuova e delicata fase delle nostre vite (che, per la prima volta, ci riguarda tutti e tutti nello stesso momento!).
Se pensiamo a tutte le ‘transizioni’ che affrontiamo nel corso della nostra vita, ci rendiamo conto di quanto siano numerose: il passaggio dall’istruzione al lavoro, un trasloco, la nascita di un figlio, il matrimonio o l’inizio di una convivenza, un periodo di disoccupazione, un nuovo lavoro, uno lo sviluppo di carriera, un lutto… Anche grazie all’allungamento della vita media e attiva, oggi più che mai, le transizioni sono molto frequenti e, in un certo senso, dovremmo esserci abituati!
Anche la crisi che il Covid-19 ha scatenato è una transizione. Seppur diversa dalle altre, perché si tratta di una transizione collettiva (secondo il World Economic Forum 2,6 miliardi di persone in tutto il mondo stanno sperimentando il lockdown), perché era imprevedibile e perché ci lascia di fronte a un profondo senso di incertezza per il futuro.
Le persone che attraversano una transizione possono uscire più deboli o molto più forti: dipende da come la attraversano. Come ogni altra transizione, anche quella che stiamo vivendo oggi “può essere affrontata con successo se vista come un ‘compito di sviluppo’, per gli individui e per le organizzazioni che li accolgono”, come ci spiega il Prof. Pier Giovanni Bresciani, tra i massimi esperti di transizioni. Questo perché le persone, nelle transizioni, recuperano la propria dotazione di risorse per costruire progressivamente una propria strategia di risposta alla ‘crisi’. Queste risorse sono, ad esempio, le motivazioni, gli interessi, le rappresentazioni di sé, le attitudini, le competenze.
Se non gestita adeguatamente, la crisi causata dal Covid-19 potrebbe generare depressione, stress e burnout: un nuovo contagio, questa volta di emozioni negative, che potrebbe caratterizzare la seconda metà del 2020 per almeno un lavoratore su quattro (sempre secondo i dati del World Economic Forum). Ciò per le aziende si traduce in perdita di produttività e, nei casi estremi, assenteismo. Ecco perché se non si abilitano nuovi linguaggi, non si esplicita la rottura dei vecchi stereotipi e non si fa spazio all’incertezza e al bisogno delle persone di esprimersi, la ricaduta negativa potrà protrarsi per un lungo periodo, anche dopo che sarà finita l’emergenza.
Lifeed Transitions intende:
Da oggi Lifeed Transitions è disponibile su Lifeed, la piattaforma digitale che eroga già il noto master per i neo-genitori e quello lanciato nell’autunno 2019 per i figli caregiver, ampliando il nostro portfolio di percorsi online, a cui hanno partecipato finora più di 10.000 persone.
È un programma adatto a tutta la popolazione aziendale, indipendentemente dal ruolo ricoperto e dal livello professionale.
3 mesi, con un appuntamento settimanale di circa 45 minuti, che le persone scelgono quando svolgere, in autonomia.
Come gli altri percorsi, adotta il metodo del Life Based Learning, l’apprendimento basato sulla vita. Online le persone vengono coinvolte con letture, micro-contenuti multimediali, esercizi di autonarrazione che aumentano la consapevolezza di sé e del sapere dove si è. Nella vita reale sono guidate con delle “missioni” pratiche ad allenare alcune competenze e meta-competenze.
Al termine di ogni modulo individuale, si entra in una stanza collettiva dove è possibile condividere con i propri colleghi riflessioni, idee, suggerimenti per co-costruire dal basso una rinnovata cultura aziendale e trovare insieme nuove modalità per superare la crisi e favorire il ritorno alla “nuova normalità”.
Lifeed Crisi allena alcune competenze soft che è difficile apprendere in un’aula di formazione, ma che rientrano tra quelle che fanno la differenza in ambito lavorativo:
Le aziende hanno accesso a una dashboard aggiornata in tempo reale, per monitorare la partecipazione dei propri dipendenti, nel pieno rispetto della privacy. Ricevono inoltre, regolarmente, report quantitativi e qualitativi elaborati grazie a un sistema di Intelligenza Artificiale che misurano il sentiment e sintetizzano i bisogni espressi dalle persone.
Se stai pensando a Lifeed Transitions per la tua organizzazione, visita la pagina di presentazione e completa il form di contatto. Ci piacerebbe illustrarti tutte le potenzialità di questo nuovo percorso formativo.
Abbiamo messo insieme 7 key opinion leader, uomini, padri e capi di grandi aziende. Li abbiamo fatti parlare per più di 1 ora in live streaming, direttamente dai salotti delle loro abitazioni, e ci hanno spiegato, con grande trasparenza e umanità, come l’esperienza della paternità abbia influito sul loro modo di agire la leadership. E abbiamo scoperto che proprio i loro figli, 19 in tutto, sono stati la migliore palestra di competenze professionali. Ecco cosa ci hanno detto.
Video dell’intero live streaming
“Il mio modo di lavorare è cambiato da quando sono padre. Con i figli riscopriamo alcuni valori, come la responsabilità sociale, la sostenibilità verso le nuove generazioni. La situazione che tutti noi stiamo vivendo oggi, a causa del coronavirus, ci fa capire che questi stessi valori vanno riportati nelle aziende, affinché si crei nel medio lungo termine un’osmosi con i valori materiali, quelli tipici di un bilancio aziendale, rendendoli degli elementi strategici per le stesse aziende.
Nelle aziende il clima è fondamentale, devi fare in modo che i collaboratori stiano bene, partecipino, va cercata l’armonia e lo devi fare con pazienza, convincimento. Proprio come con i figli. Siamo tutti padri e madri ma quando entriamo in azienda sembriamo dimenticarcelo. Eppure se cominciassimo ad agire gli stessi comportamenti virtuosi, anche gli altri colleghi cominceranno a farlo”.
“La paternità mi ha insegnato almeno 3 cose importanti.
La prima: ho 3 figli e proprio da loro ho scoperto che sul lavoro, così come in famiglia, non ci sono ricette standard, servono approcci diversi in base a carattere, età. Lo stesso vale con i dipendenti, capita spesso che in azienda utilizziamo approcci standardizzati.
La seconda (suggerita da mia moglie!): la paternità fa bene al CEO perchè tiene a bada il suo ego, mantiene i piedi per terra, lo costringe a bagni di realtà quotidiana. Ho imparato, ad esempio, che con i miei figli ho solo 5 secondi per catturare la loro attenzione, prima che gli sguardi ritornino a fissare lo schermo di un telefono. In famiglia i ruoli si conquistano e cambiano ogni giorno con la crescita di tutti.
Infine: la situazione che stiamo vivendo dovuta all’emergenza coronavirus mi ha fatto capire che bisogna avere fiducia gli uni degli altri, i figli cercano rassicurazioni per evitare lo smarrimento, così come i collaboratori”.
“Faccio una prima distinzione: i figli sono per sempre, mentre i lavori cambiano. Superata la soglia dei 1.000 pannolini cambiati, ho capito che il lavoro non doveva più essere la scusa per spendermi poco nel mio nuovo ruolo famigliare, allora ho deciso di ridimensionare il mio tempo, ricalibrare sforzi ed energie. Ho smesso, ad esempio, di lavorare nei weekend, imparando a prioritizzare di più. E questa consapevolezza è stata per me un grande elemento di crescita.
Un’altra riflessione nella correlazione tra dimensione parentale e professionale è la ricerca di linee guida per la leadership che nel mio team sono: dare la direzione per creare un’unità d’intenti, saper incanalare l’energia per essere efficaci, celebrare successi e fallimenti. Sono tre elementi che ritrovo anche nella genitorialità.
Insomma, i parallelismi sono tanti. Con una differenza, però: il leader è solo, il modello di leadership aziendale classico lavora al singolare. In famiglia si è in due: questa dualità è estremamente proficua e importante, e andrebbe portata anche in azienda”.
“Sono un papà di lunga data, ho avuto il primo figlio a 26 anni. Il fatto di essere diventato padre molto prima di aver ricoperto i primi ruoli di responsabilità sul lavoro ha avuto un forte impatto nel mio modo di vivere l’azienda. Con la prima figlia ci sono stati problemi di ospedalizzazione e dopo di lei avevamo fatto fatica ad averne altri: queste vicende mi hanno insegnato che non si può avere tutto sotto controllo, neanche sul lavoro, ci sarà sempre l’imprevisto. Mi hanno insegnato che nella vita devi fare tutto il possibile come se tutto dipendesse da te, ma sapendo che l’esito non lo determini tu.
Un altro aspetto della paternità riguarda il tema della libertà, lo chiamo “freedom management”, stimolare la libertà altrui porta a risultati molto superiori. È evidente con i figli, ma anche in azienda: come CEO penso che saremo ricordati per ciò che di più grande lasceremo in azienda, non per i margini più o meno alti”.
“Essere padre è una scelta, e non sempre facile. Diventare padre mi ha esposto a delle esperienze che hanno notevolmente cambiato il mio modo di essere. Io sono un manager con un background tecnico e poco umanistico, ed entrare in contatto con il carico di emotività di un bambino è stato un impatto immenso. Mi ha portato, ad esempio, ottimismo, fiducia nel futuro – che serve tantissimo soprattutto in azienda dove c’è molta incertezza.
Quando arrivano i figli ti sbattono in faccia la loro emotività, la loro ingenuità e questo ti cambia tutto: il feedback diretto alla Jobs, non funziona nè con loro nè con i collaboratori, nei quali vedo gli stessi occhi. Se sbaglio oggi chiedo più scusa di un tempo.
Anche alzare continuamente l’asticella non funziona: quando insegni a tuo figlio a tuffarti, viene automatico continuare a correggerlo per perfezionismo, ma lui probabilmente perderà a un certo punto entusiasmo. In azienda funziona allo stesso modo, servono obiettivi raggiungibili e motivanti, ma anche una diversa cultura dell’errore”.
“C’è un’altissima contaminazione tra essere leader e genitore, imparo tutti i giorni da questi due ruoli: ho imparato a sfruttare meglio il tempo, spesso poco per la famiglia, oppure mantenere maggiore distacco rispetto ai problemi e sviluppare empatia, mettendosi nei panni dell’altro. Non esiste palestra migliore per l’intelligenza emotiva della paternità!
In questi anni poi ho sviluppato anche la capacità di pensiero laterale: evitare quindi di guardare solo al rapporto causa-effetto ma spostare il punto di osservazione dal problema alla soluzione, come quando un figlio ha una difficoltà con una data materia scolastica.
Infine, c’è il tema dell’apprendimento continuo, che vale per vita privata e professionale”.
“Il mio ruolo da padre è arrivato dopo quello da General Manager, ma mi ha insegnato veramente molte cose. Innanzitutto ho scoperto che il più bravo negoziatore al mondo è un bambino di 5 anni: continuerà a chiedere una cosa fino allo sfinimento finché non l’avrà ottenuta. Da ciò ho appreso che spesso bisogna passare dal comandare al negoziare.
Ho dovuto imparare a dire tantissimi sì anziché tantissimi no, anche quando sono stanco e non vorrei giocare per la milionesima volta a quel gioco, ma ci si rende conto che la singola occasione di quel momento non tornerà.
Ho imparato a passare dal dare la regola al dare l’esempio, che è la cosa che ci rende più credibili sia a casa che sul lavoro. In ultimo, ma non per importanza, il tema della delega: se continuiamo a fare le cose al posto dei nostri figli anziché insegnargliele, proprio come i nostri dipendenti, non impareranno mai”.
Il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità, nonché l’inclusione di tutti i dipendenti sono parte dei valori fondanti dell’azienda farmaceutica MSD Italia che ha scelto di adottare i master per i neo-genitori e per i figli caregiver che trasformano le esperienze di vita (in particolare, quelle di cura familiare) in soft skill preziose anche sul lavoro. “Un terzo circa della nostra popolazione ha più di 50 anni e sappiamo che molti di loro dedicano parte del loro tempo alla cura dei propri familiari anziani o disabili”, spiega Michele Ceresani, HR Executive Director di MSD Italia.
Con il master di LBV per i figli caregiver, in primis, e con il tradizionale master per i neo-genitori “intendiamo migliorare alcuni comportamenti focalizzandoci in particolar modo su inclusività, capacità di sperimentare, lavorare in una modalità a rete al di là dei silos organizzativi. A questo scopo crediamo che questi percorsi formativi possano aiutarci a rafforzare tutta una serie di competenze, quali ad esempio empatia ed ascolto, allenarci nella gestione del rischio e dell’errore, aumentare la nostra capacità di collaborare e creare di alleanze. Inoltre, siamo certi possa essere fondamentale per migliorare ancora le nostre abilità nel gestire dinamiche di cambiamento, lavorando sulla nostra capacità di dare e ricevere feedback e sulla nostra flessibilità”. Si tratta spesso di “un patrimonio di competenze già presenti e solo da mettere a fuoco”, continua Ceresani.
Anche per MSD Italia la possibilità di attingere in via quanto più possibile diretta ad esperienze concrete maturate nella quotidianità – opportunamente rielaborate attraverso le modalità proposte dalla metodologia del Life Based Learning – è un potente fattore di accelerazione e potenziamento di queste competenze.
“In Siram Veolia – azienda che offre servizi di gestione ottimizzata delle risorse ambientali – sono tante le persone che hanno una famiglia, considerando che l’età media dei lavoratori è di 45 anni” spiega Emanuela Trentin, Amministratore Delegato. “Nella vita quotidiana come genitori o figli siamo messi continuamente alla prova: dobbiamo negoziare, scendere a compromessi, gestire situazioni complicate. Con i master di LBV per neo-genitori e caregiver sarà evidente come queste capacità possano essere messe a disposizione anche in azienda, migliorando la perseveranza, l’autostima e la performance, fondamentali per il nostro lavoro e per quello dei colleghi. Così come, viceversa, molto spesso ci troviamo a mettere in atto a casa meccanismi che solitamente applichiamo in ufficio. Questo dimostra come la vita privata e lavorativa possano essere complementari”.
I master di LBV si basano infatti sul Life Based Learning e aiutano i lavoratori a capire come le esperienze della vita privata possono conciliarsi con il lavoro o migliorare gli aspetti
lavorativi. Siram Veolia è un’azienda presente su tutto il territorio italiano con oltre 3.000 collaboratori. I master digitali di LBV, tra cui il nuovo CARE per figli caregiver, possono offrire a colleghi di sedi diverse di partecipare a un progetto di formazione inedito ed entrare in contatto attraverso una community in cui scambiare riflessioni ed esperienze, “cosa che con i canali lavorativi ‘classici’ non potrebbe avvenire facilmente” – spiega Trentin.
“Collaborare e condividere gli obiettivi per il bene comune favorisce la sinergia e il clima lavorativo. Abbiamo scelto di proporre il master CARE poiché lo spirito di Life Based Value è proprio quello di unire mondi diversi e modi di vivere, per trarne il meglio”.