“Dopo 8 anni di applicazione della policy che supporta la genitorialità il 100%, delle mamme di Danone rientrano in azienda e sul totale delle promozioni il 40% è rappresentato da donne rientrate dal congedo maternità. Senza contare il tasso di natalità, pari al 7%, 11 punti percentuali sopra la media nazionale (che si attesta al -4%)”. Sono queste le parole di Sonia Malaspina, HR director South Europe Danone Specialized Nutrition per spiegare gli impatti di una parental policy avviata nel 2011 e che, dal 2017 ha visto l’introduzione del master LBV per future mamme, neo-mamme e neo-papà con bambini fino a 3 anni.
“Grazie al master per i neo-genitori abbiamo avuto degli accrescimenti davvero interessanti e soprattutto misurabili. Sono migliorate l’abilità di lavorare per priorità (+35%), di prendere decisioni (+15%), di delegare (+35%) e di gestire la complessità (+10%) ma anche l’empatia (+35%) e l’agilità mentale (+20%)” – continua Sonia Malaspina.
Forte di questi numeri e di questa esperienza che ha permesso di scoprire come la fase dell’accudimento possa migliorare anche le capacità manageriali, Danone ha quindi deciso di rivolgere l’attenzione anche verso un altro tipo di cura: quello dei caregiver, che si prendono cura di genitori anziani o di parenti con disabilità e malattia.
In un Paese che fa pochi figli e che invecchia sempre di più, i cinquantenni sono diventati i ‘nuovi giovani’ che possono portare nelle aziende il loro notevole bagaglio di esperienza. Ma questo cambiamento sociale non è stato ancora codificato a livello organizzativo, e gli over 50 sono spesso ‘tagliati fuori’ dalle nuove sfide e opportunità del mondo del lavoro, senza riuscire a esprimere appieno tutto il loro potenziale.
A fotografare questa situazione è la ricerca Talenti senza Età realizzata da Valore D, in collaborazione con il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica di Milano, che ha coinvolto 36 aziende e oltre 13 mila lavoratori.
Dalla ricerca emerge che quasi la metà delle persone (45,7%) sono molto motivate sul lavoro, ma incontrano momenti di difficoltà, perché affrontano un periodo di vita complesso: la grande maggioranza degli intervistati dichiara di aver attraversato negli ultimi anni cambiamenti profondi, con un coinvolgimento diretto nelle relazioni di cura che ha rivoluzionato il loro assetto di vita (63,6%).
Di fronte a questo scenario, le aziende possono reagire in vari modi. Possono provare a ignorare il fenomeno dei caregiver e cercare di tenerlo fuori dal luogo di lavoro. Oppure attivarsi nel proporre ai dipendenti efficaci servizi di supporto. Meglio ancora, assieme all’erogazione di servizi, possono decidere di valorizzare questi cambiamenti di vita delle persone, ottenendo così un doppio beneficio:
Siamo caregiver naturali? La risposta è sì.
Come segnala uno studio di Michael Brown e Stephanie Brown pubblicato su Social Issues and Policy Review esistono diverse indagini scientifiche che suggeriscono l’ipotesi che le persone siano caregiver naturali. Le teorie evolutive ipotizzano che la nostra particolare sensibilità ai bisogni degli altri, al prendersi cura degli altri, siano fondamentali per la natura umana, perché orientate alla sopravvivenza. D’altronde è difficile immaginare che la specie umana, così fortemente dipendente dall’aiuto dei propri simili, sarebbe sopravvissuta se i costi psicologici e fisici associati all’aiuto e alla cura non fossero stati compensati da conseguenze benefiche.
Alla luce di queste considerazioni, le esperienze di cura possono divenire un driver del benessere organizzativo e, come evidenziato da Kramer (1997), è possibile ricondurre molti effetti positivi del caregiving alle dimensioni del benessere descritte da Ryff, che si identificano con:
Non a caso Daniel Goleman, il papà dell’intelligenza emotiva, ritrova queste stesse attitudini anche in una ricerca pubblicata recentemente su Korn Ferry: nelle interviste a 30 fondatori, amministratori delegati e alti dirigenti di società che si contraddistinguono per “scopi visibili e autentici, dipendenti coinvolti, culture orientate al cliente e forti risultati finanziari”, è emerso che tutte le loro organizzazioni hanno quattro caratteristiche in comune:
Ma veniamo ora alla domanda che apre questo articolo:
La risposta giusta è: dipende.
Dipende dal contesto. L’azienda deve creare un terreno comune d’incontro nella narrazione di sfide e soluzioni che riguardano il 73% dei propri dipendenti.
Dipende dalle risorse a disposizione. Le persone vanno incoraggiate a scoprire le competenze che hanno già e a capire come migliorarle.
Dipende dalla capacità di condivisione dell’esperienza. Una potenziale crisi diventa occasione per fare rete, rivelare talenti inaspettati, migliorare il clima.
Ad approfondire la questione ci aiuta un articolo apparso quest’anno sulla Harvard Business Review: Why business should support employees who are caregivers?.
Nell’articolo si rileva che:
Il caregiving è stata a lungo una questione invisibile per i dirigenti d’azienda, in particolare tra i dirigenti le cui carriere sono iniziate quando gli uomini dominavano la forza lavoro e le donne dovevano affrontare da sole tutte le esigenze di assistenza. Ancora oggi persiste un circolo vizioso: i dipendenti caregiver soffrono in silenzio e evitano benefici potenzialmente utili, e i datori di lavoro presumono che i caregiver stiano affrontando bene la loro situazione e riducono le risorse a loro dedicate. Mancano gli incentivi per raccogliere dati o modificare le politiche aziendali, quindi le prestazioni lavorative dei caregiver peggiorano e continuano i pregiudizi nei loro confronti.
Per uscire da questa spirale negativa le aziende devono sviluppare una nuova cultura della cura, riconoscendo le esigenze dei dipendenti caregiver e supportando le loro ambizioni professionali.
Le aziende devono essere pronte a vedere e utilizzare il potenziale che la vita porta con sé, in modo da valorizzare e sfruttare le risorse che si generano nei loro dipendenti.
Quando il futuro è in continua evoluzione e cresce la complessità, le persone devono sapersi adattare ai cambiamenti, reinventandosi continuamente e acquisendo le giuste attitudini per reagire a situazioni di stress e a scenari in rapida trasformazione.
Nelle aziende è alla funzione HR che viene assegnato il compito di accompagnare le persone verso i nuovi scenari, supportando lo sviluppo di adeguate competenze. Un modo efficace per farlo è strutturare percorsi che si inseriscono in maniera pertinente nelle reali esperienze di vita che le persone stanno attraversando in quel momento: questo le motiva maggiormente, perché sentono che la loro azienda sta offrendo un percorso formativo la cui utilità è reale e immediata.
Secondo una recente ricerca di Harvard Business University “The Caring Company”, nelle aziende 7 dipendenti su 10 sono ‘caregiver’, cioè si prendono regolarmente cura di qualcuno – i figli, i propri genitori, amici, compagni, o svolgono attività di volontariato.
Essere caregiver significa sperimentare sul campo, nella vita di ogni giorno, un enorme laboratorio di soft skill: per esempio una maggiore capacità di problem solving, una maggiore assertività, una maggiore capacità di organizzare i tempi o di reperire risorse, agilità mentale e velocità di giudizio, ma anche empatia, creazione di relazioni positive. Suona familiare? Certo! Si tratta delle stesse competenze soft che le aziende si aspettano di trovare nei propri dipendenti di talento e per le quali si spende più di 1 milione di euro l’anno solo in Italia per formarle in aula. Ma siamo sicuri che queste competenze possono essere apprese in un corso?
La ricerca “Family Caregiving Skill: Development of the Concept”, ad esempio, elaborata da un gruppo di ricercatori della University of Pennsylvania School of Nursing, individua addirittura 63 skill che vengono sviluppate grazie alle attività di cura familiare, e che si ricollegano ai 9 processi della cura:
Ciò significa, ad esempio che cogliere i primi segnali di cambiamento nel corpo o nel comportamento di un proprio caro anziano o malato si traduce nella capacità di osservazione. Pensare alle possibili conseguenze di una terapia, considerando il malato nella sua interezza, è un efficace esercizio di decision making. Individuare modalità per convincere l’anziano a rispondere in un certo modo a uno stimolo o a una richiesta, significa entrare in empatia. E così via. Lo studio, inoltre, evidenzia che le stesse competenze che il lavoratore mette efficacemente in pratica nei contesti professionali o in altri ambiti della vita, rendono le attività di cura più incisive.
Di fronte alla crescita dei caregiver lavoratori, le aziende stanno già attivando servizi di welfare volti a risolvere alcune necessità pratiche (come l’assistenza al malato o all’anziano, il supporto nel reperimento di informazioni e/o nella redazione delle pratiche burocratiche). L’attenzione, in questi casi, risulta spostata completamente sul “care taker”, ovvero chi su ricevere le cure – il malato, l’anziano, il disabile.
Eppure, considerando che le responsabilità di cura aumenteranno sempre di più (tra le cause: l’aumento dell’età media della popolazione), coinvolgendo le persone nel loro tempo extra-lavoro, e che la cura di un proprio caro rientra nelle transizioni della vita più intense in grado di generare sviluppo personale, le aziende non possono permettersi di ignorare questa dimensione, ma anzi, accogliendola, possono trarne importanti vantaggi.
Valorizzare i talenti, aumentare l’ingaggio, migliorare la retention, si generano anche abbattendo i confini tra i vari ambiti e ruoli della vita e consentendo alle persone di dimostrare e di portare tutto di sé anche sul lavoro. Riconoscere i momenti di cura come momenti di crescita e non di depotenziamento della capacità lavorativa, valorizzando anche le competenze che questa esperienza è in grado di allenare, consente alle persone di viverli con minore stress e, addirittura, di provare un senso di benessere. Più le aziende riescono a vedere in maniera strategica queste dimensioni umane, a metterle insieme e a dare una risposta sinergica ai vari fattori, più aumenta la competitività e migliorano i risultati.
Generali Country Italia è l’assicuratore più conosciuto in Italia e leader del mercato assicurativo con 13 mila dipendenti. Con l’obiettivo globale di diventare “il partner di vita dei propri clienti”, l’azienda è stata in grado di trasformare il proprio posizionamento, da semplice venditore di prodotti a fornitore di soluzioni integrate che aggiungono vero valore alla vita delle persone, alla loro salute, alla loro casa, al loro modo di spostarsi e al loro lavoro.
Anche verso le proprie persone, l’azienda mantiene lo stesso impegno: porre attenzione alla vita dei colleghi significa comprendere le loro esigenze nelle varie fasi della vita e offrire il proprio contributo affinché l’azienda sia riconosciuta come un ambiente accogliente per tutti. Da queste premesse, prende il via il progetto “Genitorialità in azienda” che si rivolge ai genitori con figli piccoli e adolescenti, ma anche a coloro che diventano “genitori dei propri genitori”, ovvero i figli caregiver. Non solo la cura di un figlio, ma anche quella di un genitore fragile possono arricchire di competenze soft il profilo professionale e diventare dei veri e propri asset per la crescita del business.
“Attraverso le soluzioni di Life Based Value per genitori e figli caregiver vogliamo dare ai nostri colleghi la consapevolezza che questo periodo della vita che richiede tante energie può sviluppare in loro delle competenze soft molto utili nel lavoro. È uno strumento semplice che spinge alla consapevolezza ma anche all’autoriflessione ed essendo online ci permette di raggiungere le persone in diverse sedi geografiche, scegliendo ognuno i propri tempi di utilizzo conciliandoli con le esigenze personali e lavorative” spiega Isabella Agosto, Responsabile del Learning di Generali Italia.