Non hanno certo il blocco dello scrittore i nostri Life Based Learners: fiumi di parole che fanno emergere riflessioni, idee, nuove consapevolezze, valori, capacità. Al cuore di Lifeed, vi è infatti una metodologia di apprendimento che si basa anche (ma non solo!) sull’autonarrazione attraverso domande guidate.
Riflettere e scrivere permette di dare un nome ai segnali delle transizioni che stiamo vivendo, permette di familiarizzare con quello che ci sta accadendo e prendere la giusta distanza per vedere le cose più chiaramente e (ri)costruire il proprio racconto personale.
Sono numerosi gli studi che confermano i benefici dell’autonarrazione sia a livello fisico sia emotivo. Migliora, ad esempio, la regolazione delle emozioni e agisce sul sistema immunitario e sulla salute celebrale (Petrie et al. 2004); scrivere dei propri traumi, riduce lo stress, abbassa la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca (Pennebaker, Hughes e O’Heeron 1987); dedicarsi all’autonarrazione rende più felici, e migliora persino le capacità relazionali (Pennebaker & Graybeal 2001, Baddeley & Pennebaker 2011); migliora il benessere generale e le funzioni cognitive (Barclay & Skarlicki 2009).
Tutti questi benefici si travasano in maniera naturale e immediata dalla vita privata a quella lavorativa. Come dimostra chi si è formato su Lifeed: il 74% sente di conoscersi meglio, è più consapevole di sé e delle proprie risorse, mentre il 64% afferma che il metodo Lifeed “fa sentire bene”.
“L’esperienza è arrivata al momento giusto e quindi ha fatto leva sulle mie emozioni, che di norma sono un mondo chiuso e riservato, ma strabiliante per attivare il cambiamento”, racconta un partecipante. “Lifeed mi ha ‘autorizzata’ a focalizzarmi su me stessa per prima cosa, per poter dare il meglio di me sul lavoro”, dichiara un’altra.
Con la nuova funzionalità Portfolio è possibile rileggere i propri ricordi, rivivere emozioni alla luce del tempo trascorso e delle nuove consapevolezze che le esperienze di vita hanno generato, riscrivere o aggiungere nuove riflessioni.
Nella sezione “Competenze” del Portfolio è possibile verificare quali sono già state allenate grazie al focus offerto dalle unità didattiche o dalle attività pratiche previste per le Missioni Real Life, e quali sono ancora da allenare così da poter scegliere come focalizzare al meglio il proprio percorso formativo.
Genitori, caregivers e tutti coloro che stanno vivendo una forte transizione di vita hanno oggi uno strumento in più per trarre il massimo dalla loro formazione Life Based.
Affrontare i cambiamenti quando le circostanze esterne continuano a essere incerte è un compito ancora più difficile. Che tu sia genitore, caregiver, o ti trovi nel mezzo di una transizione personale o professionale, le competenze soft sono fondamentali poichè rappresentano la tua risorsa più preziosa per reagire (con successo) all’incertezza.
Con la versione mobile di Lifeed alleni tue competenze soft quando e dove vuoi.
Questo perché la formazione Lifeed è…
Lifeed si adatta alle fasi e ai ritmi della tua vita. Con la versione mobile, puoi sfruttare i momenti liberi della tua giornata per lasciarti ispirare da un podcast o da una lettura, riflettere con le domande aperte, o condividere le tue intuizioni nella community. Questo grazie ai moduli progettati in modalità micro-learning e ricchi di contenuti multimediali, per andare lontano, ma a piccoli passi.
Scegli le competenze che ti interessano di più in questo momento della tua vita e allenale con Lifeed. Osserva la tua famiglia, le persone di cui ti prendi cura, oppure te stesso, con più calma rispetto ai soliti impegni e imprevisti della quotidianità. Applica immediatamente nella tua vita quello che apprendi con Lifeed. Hai una missione real-life da compiere? Non perdere tempo: annota subito cosa hai imparato, le emozioni che ti ha generato.
Accedi da più device: PC, smartphone o tablet, quando ti è più comodo. Riprendi la tua formazione da dove l’avevi lasciata, senza perdere i tuoi progressi. Puoi anche riguardare i webinar che ti sono piaciuti di più o quelli che avevi perso, rileggere e aggiornare i tuoi racconti e le tue riflessioni, ricominciare da capo o prendere le scorciatoie per ottenere il tuo attestato più velocemente.
Se è la prima volta che accedi a Lifeed da mobile, è facile, basta cliccare sul link che compare direttamente nella tua home di app.lifeed.io, dopo aver fatto login. Se, invece, hai già navigato Lifeed da mobile ma non l’hai salvata sul tuo smartphone, segui la procedura che ti spieghiamo qui sotto.
Se hai uno smartphone Android, apri il tuo browser di navigazione (come Chrome) e digita app.lifeed.io. Apri il menù a destra (o clicca sui 3 puntini in alto a destra) e scorri in basso, fino a trovare l’opzione “Aggiungi a schermata Home” o simile.
Se usi un device iOS, apri il tuo browser di navigazione (come Safari) e digita app.lifeed.io. Premi sul pulsante per la condivisione (quadrato con la freccia in alto a sinistra) e clicca sull’icona Home che trovi in questa selezione. Lifeed verrà aggiunta sul tuo smarphone.
Dopo averla salvata, potrai spostare Lifeed come qualsiasi altra app, inserirla in una cartella o in un’altra pagina.
Buona formazione con Lifeed!
“Never let a good crisis go to waste”. Dalla citazione di Wiston Churchill possiamo imparare molto per definire oggi nuovi approcci e nuovi modi di disegnare il futuro.
Si è tenuta il 28 maggio scorso la nostra quinta Life Ready Conference, il ciclo di eventi in live streaming che intende raccogliere idee, riflessioni e buone prassi per attraversare la crisi e affrontare il new normal che ci aspetta dopo il Covid-19. Cosa dobbiamo imparare di nuovo per affrontare il mondo del lavoro che ci aspetterà nei prossimi mesi? Quali sono le competenze soft che ci serviranno per operare con efficacia in una situazione di incertezza e continuo cambiamento? Come possiamo imparare a dis-imparare con flessibilità e rapidità?
“Bisogna disimparare per poter vedere il modello esistente come una sola delle tante possibilità, invece che come l’unica verità possibile”, spiega la nostra CEO Riccarda Zezza. “Dalle nostre survey, il 91% dei dipendenti si aspetta dalle proprie aziende un miglioramento dei processi grazie a quello che abbiamo appreso in questo periodo”.
Abbiamo affrontato questi temi con 6 rappresentanti di grandi associazioni imprenditoriali e manageriali, che oggi più che mai hanno il compito di influenzare la cultura d’impresa e accompagnare le organizzazioni nella transizione.
Video dell’intero live streaming
“Le esigenze di cambiamento non nascono con la crisi”, puntualizza Nicola Spagnuolo, Direttore del Centro di Formazione Management del Terziario (CFMT), associazione in cui confluiscono novemila aziende del settore e circa 24mila manager. “Le aziende che affronteranno in modo più brillante il prossimo futuro sono le realtà che avevano già abbracciato il cambiamento.
La capacità di cambiare va, infatti, allenata nel tempo. Non basta una crisi per decidere di rivoluzionare l’assetto di un’azienda. Il momento attuale richiede non tanto di acquisire nuove competenze, ma di rivederne l’ordine di priorità. “Affinché il nostro approccio possa essere nuovo rispetto al passato, dobbiamo prima rimuovere i retaggi su cui sono fondate e poi ‘reinstallare’ le competenze”.
“Bisogna evitare che ciò che oggi viene chiamato new normal diventi invece un nuovo passato”, dice Elena David, presidente di Aiceo, l’Associazione italiana dei CEO. “Occorre disimparare la falsa retorica che pone l’uomo al centro solo per ragioni di fragilità: al contrario, dev’essere una forma di ricerca per ampliare i propri spazi cognitivi e di relazione. E occorre disimparare anche il potere dell’improvvisazione per ridare valore alle competenze”.
“Dobbiamo disimparare un mondo in cui il potere è affidato a uomini che scelgono altri uomini: come donna, vorrei che si imparasse un sistema basato sul merito e sulle pari competenze. Serve il coraggio di fare cose che non siano solo una reazione al momento di emergenza, ma che consentano un cambiamento vero”.
“Le imprese devono prendersi cura delle persone, non soltanto ascoltarle ma ingaggiarle”, sottolinea Isabella Falautano, componente del Board of Directors di Valore D e Chief Communication&Stakeholder Engagement Officer di Illimity.
“Nelle fasi Vuca, il CEO dev’essere anche un Chief Emotional Officer e saper stare vicino alle persone in maniera autentica. Tra il momento della crisi e quello in cui scatta il cambiamento, non bisogna dimenticarsi di valorizzare l’attesa. Aspettare aiuta a grattare via il superfluo e riscoprire l’essenza dell’organizzazione. Ciò a cui rimanere ancorati quando tutto sembra incerto. Quando si è in una fase di attesa, è importante utilizzare il tempo per la progettualità”.
Ad aver affrontato la sfida più grande sono state forse proprio le piccole organizzazioni. Chiamate a scardinare l’idea che la strada battuta sia la sola percorribile e che l’imprenditore debba prendere le sue decisioni in solitudine. “Le persone per natura si adattano ed evolvono, e le aziende sono fatte da persone. Le Pmi non sono altro che famiglie allargate”. Alessandra Pilia è Responsabile della Comunicazione di Api, l’Associazione Piccole e Medie Industrie che rappresenta circa duemila piccole imprese lombarde, per un totale di 38mila lavoratori. Secondo un’indagine condotta dalla stessa Api, in tempi di crisi sanitaria ed economica il 68% degli associati è preoccupato per il futuro dei propri collaboratori e delle loro famiglie.
“I piccoli imprenditori si sono trovati a essere community manager delle loro organizzazioni, usando chat e strumenti che non erano abituati a utilizzare per dare informazioni che rassicurassero i dipendenti”. Il focus, ancora una volta, è la persona. “L’azienda non nasce e muore con l’imprenditore, ma vive e va oltre le mura e il capannone. Il primo innovation manager dell’azienda è colui che accetta di non sapere e disimpara la cultura che lo ha portato fino a lì, per ingaggiare collaboratori che abbiano il coraggio di dirgli ‘ora facciamo in un altro modo’”.
La crisi degli ultimi mesi ha rallentato molti aspetti della vita personale e lavorativa, ma ne ha anche accelerati tanti altri. A partire dalla decisione di abbandonare schemi e comportamenti non più attuali. “In una situazione di ambiguità non hai conoscenze interpretative da portare avanti e hai bisogno continuamente di formulare domande”, sostiene Paola Previdi, CEO di SFC, Sistemi Formativi Confindustria.
“Oggi ci viene richiesto di reinquadrare i problemi e per farlo servono team misti, che uniscano competenze verticali e orizzontali. Chi gestisce un’azienda deve saper coordinare e tenere a bordo i collaboratori. Alcune imprese hanno attivato in maniera stabile lo smart working, molte hanno usato questo tempo sospeso per formare i loro dipendenti e per riscoprire la capacità di essere resilienti. La normalità in futuro sarà la gestione di situazioni eccezionali e complesse: ci saranno altri possibili cigni neri e bisognerà essere in grado di trarne vantaggio, stuzzicando il nostro cervello con l’innovazione”.
“Si ha la percezione che molti oggi stiano cercando di fare tutto il possibile per tornare al mondo che conoscevano prima, riproponendo schemi del passato che però saranno ancora più indeboliti di prima. Noi professionisti, invece, abbiamo l’obbligo di riflettere sulle chiavi del futuro”, dice Paolo Ravà, Presidente dell’Ordine dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili di Genova. “Dobbiamo abituarci a guardare al tema con occhi nuovi: se i gestori dell’impresa continueranno a dover operare nel sistema organizzativo, legale, finanziario e di governance a cui sono abituati, sarà un fallimento. Il modello di creazione del profitto dev’essere sempre prioritario, ma va inserito in un sistema più allargato”.
“È necessario raccontare ai giovani una professione diversa, anche se a immaginarla non sarà la generazione di mezzo. Dobbiamo arrivare a un patto tra generazioni: essere d’aiuto a chi sa prendere rischi, ma anche imparare a prendere i nostri. E mettersi in gioco per un’economia che si basi sulle competenze e non sulle relazioni”.
Abbiamo reincorniciato la crisi e l’abbiamo studiata a fondo, per capire se, come tutte le altre transizioni di cui siamo già esperti, può essere considerata un vero e proprio percorso di crescita. La risposta è sì! Qui ti spieghiamo perché e ti illustriamo come funziona il nostro nuovo programma Lifeed Transitions che supporta HR e manager per accompagnare i propri collaboratori attraverso questa nuova e delicata fase delle nostre vite (che, per la prima volta, ci riguarda tutti e tutti nello stesso momento!).
Se pensiamo a tutte le ‘transizioni’ che affrontiamo nel corso della nostra vita, ci rendiamo conto di quanto siano numerose: il passaggio dall’istruzione al lavoro, un trasloco, la nascita di un figlio, il matrimonio o l’inizio di una convivenza, un periodo di disoccupazione, un nuovo lavoro, uno lo sviluppo di carriera, un lutto… Anche grazie all’allungamento della vita media e attiva, oggi più che mai, le transizioni sono molto frequenti e, in un certo senso, dovremmo esserci abituati!
Anche la crisi che il Covid-19 ha scatenato è una transizione. Seppur diversa dalle altre, perché si tratta di una transizione collettiva (secondo il World Economic Forum 2,6 miliardi di persone in tutto il mondo stanno sperimentando il lockdown), perché era imprevedibile e perché ci lascia di fronte a un profondo senso di incertezza per il futuro.
Le persone che attraversano una transizione possono uscire più deboli o molto più forti: dipende da come la attraversano. Come ogni altra transizione, anche quella che stiamo vivendo oggi “può essere affrontata con successo se vista come un ‘compito di sviluppo’, per gli individui e per le organizzazioni che li accolgono”, come ci spiega il Prof. Pier Giovanni Bresciani, tra i massimi esperti di transizioni. Questo perché le persone, nelle transizioni, recuperano la propria dotazione di risorse per costruire progressivamente una propria strategia di risposta alla ‘crisi’. Queste risorse sono, ad esempio, le motivazioni, gli interessi, le rappresentazioni di sé, le attitudini, le competenze.
Se non gestita adeguatamente, la crisi causata dal Covid-19 potrebbe generare depressione, stress e burnout: un nuovo contagio, questa volta di emozioni negative, che potrebbe caratterizzare la seconda metà del 2020 per almeno un lavoratore su quattro (sempre secondo i dati del World Economic Forum). Ciò per le aziende si traduce in perdita di produttività e, nei casi estremi, assenteismo. Ecco perché se non si abilitano nuovi linguaggi, non si esplicita la rottura dei vecchi stereotipi e non si fa spazio all’incertezza e al bisogno delle persone di esprimersi, la ricaduta negativa potrà protrarsi per un lungo periodo, anche dopo che sarà finita l’emergenza.
Lifeed Transitions intende:
Da oggi Lifeed Transitions è disponibile su Lifeed, la piattaforma digitale che eroga già il noto master per i neo-genitori e quello lanciato nell’autunno 2019 per i figli caregiver, ampliando il nostro portfolio di percorsi online, a cui hanno partecipato finora più di 10.000 persone.
È un programma adatto a tutta la popolazione aziendale, indipendentemente dal ruolo ricoperto e dal livello professionale.
3 mesi, con un appuntamento settimanale di circa 45 minuti, che le persone scelgono quando svolgere, in autonomia.
Come gli altri percorsi, adotta il metodo del Life Based Learning, l’apprendimento basato sulla vita. Online le persone vengono coinvolte con letture, micro-contenuti multimediali, esercizi di autonarrazione che aumentano la consapevolezza di sé e del sapere dove si è. Nella vita reale sono guidate con delle “missioni” pratiche ad allenare alcune competenze e meta-competenze.
Al termine di ogni modulo individuale, si entra in una stanza collettiva dove è possibile condividere con i propri colleghi riflessioni, idee, suggerimenti per co-costruire dal basso una rinnovata cultura aziendale e trovare insieme nuove modalità per superare la crisi e favorire il ritorno alla “nuova normalità”.
Lifeed Crisi allena alcune competenze soft che è difficile apprendere in un’aula di formazione, ma che rientrano tra quelle che fanno la differenza in ambito lavorativo:
Le aziende hanno accesso a una dashboard aggiornata in tempo reale, per monitorare la partecipazione dei propri dipendenti, nel pieno rispetto della privacy. Ricevono inoltre, regolarmente, report quantitativi e qualitativi elaborati grazie a un sistema di Intelligenza Artificiale che misurano il sentiment e sintetizzano i bisogni espressi dalle persone.
Se stai pensando a Lifeed Transitions per la tua organizzazione, visita la pagina di presentazione e completa il form di contatto. Ci piacerebbe illustrarti tutte le potenzialità di questo nuovo percorso formativo.
Ne parliamo anche su ItaliaOggi del 16 dicembre 2019.
Nello specifico – spiega l’articolo – si tratta del primo e unico master per i caregiver lavoratori, che trasforma l’esperienza di cura verso un genitore fragile in palestre di competenze soft. Seguendo un format analogo a quello del Master per i genitori, che in quattro anni è stato utilizzato da oltre 8 mila madri e padri in 70 aziende, con un miglioramento delle competenze fino al 35% e un aumento di ingaggio per l’85% dei partecipanti, il nuovo CARE fa scoprire ai lavoratori caregiver nuove competenze e risorse, aumentando il loro benessere e la competitività delle loro aziende.
Il nuovo Master consente di sfruttare anche in ambito lavorativo il naturale miglioramento di alcune delle competenze legate all’esperienza della cura, tra cui gestione dello stress, gestione del rischio e dell’errore, saper prendere decisioni, empatia, delega, creazione di alleanze nel rapporto con gli altri, leadership, fiducia in sé, autoconsapevolezza nell’autorealizzazione e senso di sé.
CARE applica la metodologia del Life Based Learning, con 9 moduli digitali ricchi di contenuti interattivi e missioni “real life” che usano la vita reale come palestra di formazione esperienziale.
Per maggiori informazioni, contattaci!
Dover badare ai familiare bisognosi di assistenza è sempre stato un freno per la carriera di una donna. Ora un master speciale insegna alle dipendenti delle aziende a sfruttare quel talento. Per diventare leader compassionevoli.
Riccarda Zezza è stata intervistata da Monica Bogliardi di Grazia in occasione del lancio del nuovo master CARE per figli caregiver e ne è nato un articolo pubblicato sul settimanale Grazia del 5 dicembre 2019. Ecco un estratto.
In che senso anche la cura, come la maternità, può essere un master?
Tutta la vita regala momenti di apprendimento, in particolare le fasi di transizione: apprendi qualcosa di necessario, devi abbandonare la vecchia idea di te e attrezzarti per gestire la nuova situazione. Il diventare “caregiver”, il prendersi cura dei genitori, è uno di questi momenti, e può essere sfruttato al massimo.
Quali competenze professionali vengono sviluppate dalla cura?
Ne abbiamo contate 19. Tra queste, quelle di tipo relazionale, la capacità di ascolto, quella di fare alleanze, il saper osservare. Ma anche la pazienza, l’abilità di gestire il rischio e il cambiamento, la flessibilità e l’agilità mentale. Tutte queste qualità formano la cosiddetta leadership compassionevole, una dote preziosa nell’agguerrito mondo del lavoro.
Che cosa penalizza la donna che cura i propri familiar?
Il fatto che i tempi professionali e quelli privati non siano mai armonizzati non aiuta. Come il non valutare i risultati finali, gli obiettivi raggiunti, ma controllare orari e presenze in ufficio. Il “caregiver” non pensa mai a sé come a una risorsa preziosa. Invece con CARE cambia il punto di vista, vince l’idea contraria, e quando lo scopri smetti di sottovalutarti e cambi il modo di vedere te stessa.
Qual è invece il valore aggiunto?
Le “caregiver” sul lavoro sono favorite dall’essere diventate brave ad ascoltare, a fare alleanze, motivare chi lavora con loro. Sanno fare squadra perché l’hanno imparato in un ambiente estremo come quello della malattia e del farsi carico, dove le energie di tutti sono preziose e vanno messe in campo.
Com’è strutturato il percorso del master CARE?
Dura tre mesi. I dipendenti interagiscono con moduli online, che alternano informazioni e domande che punto a mettere a fuoco le proprie reazioni nella vita quotidiana di caregiver. In più entrano in contatto con colleghi di altre aziende che vivono la loro stesso condizione: condividere aiuta a rompere l’isolamento e a trovare consigli preziosi.
Ma questi master funzionano?
Non dovrei essere io a dirlo, ma danno ottimi risultati: il 94 per cento dei nostri clienti ha rinnovato il contratto. Non solo: le persone apprendono più facilmente quando per loro è rilevante. La vita quotidiana è la cosa più rilevante che c’è, dunque impari più velocemente perchè sai di poter usare tutto e subito.
Apre a Napoli il primo innovation hub di Terna nel Sud Italia, il secondo nel Paese dopo Torino. Un laboratorio di idee innovativo, al servizio della rete elettrica. Il progetto fa parte del percorso di innovazione e digitalizzazione per il quale Terna investirà circa 700 milioni di euro nei prossimi cinque anni, in tutta Italia. Anche Life Based Value tra le 6 realtà innovative presenti all’evento di inaugurazione.
L’inaugurazione si è svolta ieri, 7 novembre, a Napoli, alla presenza della Ministra per l’Innovazione Paola Pisano, e dell’AD di Terna Luigi Ferraris.
Attraverso l’interazione e lo scambio con realtà esterne come le università, i centri di ricerca, startup e imprese, l’innovation hub diventerà un laboratorio dove creare, sviluppare e testare concretamente le nuove idee.
L’hub di Napoli è dedicato al “Digital to People”, la trasformazione digitale dei processi aziendali e l’innovazione degli strumenti nell’area risorse umane e dell’organizzazione.
Gli ambiti di progetto sono sei, tutti funzionali al miglioramento dell’employee experience:
Gli investimenti nelle Risorse Umane sono strategici per un’azienda che – come dichiarato durante l’evento di inaugurazione dall’AD Ferraris – “genera un contributo occupazionale in Italia di circa 15 mila unità tra dipendenti diretti e indiretti, considerando l’indotto”.
Ci siamo anche noi tra le 6 startup che ieri erano presenti all’evento di inaguarazione e hanno potuto interagire con la Ministra Pisano e l’AD Ferraris: 6 realtà innovative selezionate dall’azienda per la realizzazione di applicativi volti a ottimizzare la sicurezza e la formazione del personale.
Maurizio Zazzaro, Chief Revenue Officer di Life Based Value, presente all’evento, ha offerto un quadro sulle soluzioni di Life Based Value per i dipendenti: dal master per i neo-genitori, al nuovo master per chi si occupa di un genitore anziano e alle altre soluzioni formative dedicate ai manager e ai caregiver in azienda (che, in media, rappresentano circa il 73% della popolazione di un’azienda), che contribuiranno a rendere anche Terna un’azienda “Life Ready”, dotandola di strumenti per conoscere meglio le proprie persone, di canali per la formazione “tra digitale e vita reale” accessibili da tutti i dipendenti, in ogni momento nel rispetto dei loro ritmi di vita e lavoro, con un metodo di apprendimento – quello del Life Based Learning – motivante perché coinvolge la vita e le emozioni, che consente di migliorare competenze soft, ridurre i livelli di stress e aumentare energia e benessere.
In un Paese che fa pochi figli e che invecchia sempre di più, i cinquantenni sono diventati i ‘nuovi giovani’ che possono portare nelle aziende il loro notevole bagaglio di esperienza. Ma questo cambiamento sociale non è stato ancora codificato a livello organizzativo, e gli over 50 sono spesso ‘tagliati fuori’ dalle nuove sfide e opportunità del mondo del lavoro, senza riuscire a esprimere appieno tutto il loro potenziale.
A fotografare questa situazione è la ricerca Talenti senza Età realizzata da Valore D, in collaborazione con il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica di Milano, che ha coinvolto 36 aziende e oltre 13 mila lavoratori.
Dalla ricerca emerge che quasi la metà delle persone (45,7%) sono molto motivate sul lavoro, ma incontrano momenti di difficoltà, perché affrontano un periodo di vita complesso: la grande maggioranza degli intervistati dichiara di aver attraversato negli ultimi anni cambiamenti profondi, con un coinvolgimento diretto nelle relazioni di cura che ha rivoluzionato il loro assetto di vita (63,6%).
Di fronte a questo scenario, le aziende possono reagire in vari modi. Possono provare a ignorare il fenomeno dei caregiver e cercare di tenerlo fuori dal luogo di lavoro. Oppure attivarsi nel proporre ai dipendenti efficaci servizi di supporto. Meglio ancora, assieme all’erogazione di servizi, possono decidere di valorizzare questi cambiamenti di vita delle persone, ottenendo così un doppio beneficio:
Siamo caregiver naturali? La risposta è sì.
Come segnala uno studio di Michael Brown e Stephanie Brown pubblicato su Social Issues and Policy Review esistono diverse indagini scientifiche che suggeriscono l’ipotesi che le persone siano caregiver naturali. Le teorie evolutive ipotizzano che la nostra particolare sensibilità ai bisogni degli altri, al prendersi cura degli altri, siano fondamentali per la natura umana, perché orientate alla sopravvivenza. D’altronde è difficile immaginare che la specie umana, così fortemente dipendente dall’aiuto dei propri simili, sarebbe sopravvissuta se i costi psicologici e fisici associati all’aiuto e alla cura non fossero stati compensati da conseguenze benefiche.
Alla luce di queste considerazioni, le esperienze di cura possono divenire un driver del benessere organizzativo e, come evidenziato da Kramer (1997), è possibile ricondurre molti effetti positivi del caregiving alle dimensioni del benessere descritte da Ryff, che si identificano con:
Non a caso Daniel Goleman, il papà dell’intelligenza emotiva, ritrova queste stesse attitudini anche in una ricerca pubblicata recentemente su Korn Ferry: nelle interviste a 30 fondatori, amministratori delegati e alti dirigenti di società che si contraddistinguono per “scopi visibili e autentici, dipendenti coinvolti, culture orientate al cliente e forti risultati finanziari”, è emerso che tutte le loro organizzazioni hanno quattro caratteristiche in comune:
Ma veniamo ora alla domanda che apre questo articolo:
La risposta giusta è: dipende.
Dipende dal contesto. L’azienda deve creare un terreno comune d’incontro nella narrazione di sfide e soluzioni che riguardano il 73% dei propri dipendenti.
Dipende dalle risorse a disposizione. Le persone vanno incoraggiate a scoprire le competenze che hanno già e a capire come migliorarle.
Dipende dalla capacità di condivisione dell’esperienza. Una potenziale crisi diventa occasione per fare rete, rivelare talenti inaspettati, migliorare il clima.
Ad approfondire la questione ci aiuta un articolo apparso quest’anno sulla Harvard Business Review: Why business should support employees who are caregivers?.
Nell’articolo si rileva che:
Il caregiving è stata a lungo una questione invisibile per i dirigenti d’azienda, in particolare tra i dirigenti le cui carriere sono iniziate quando gli uomini dominavano la forza lavoro e le donne dovevano affrontare da sole tutte le esigenze di assistenza. Ancora oggi persiste un circolo vizioso: i dipendenti caregiver soffrono in silenzio e evitano benefici potenzialmente utili, e i datori di lavoro presumono che i caregiver stiano affrontando bene la loro situazione e riducono le risorse a loro dedicate. Mancano gli incentivi per raccogliere dati o modificare le politiche aziendali, quindi le prestazioni lavorative dei caregiver peggiorano e continuano i pregiudizi nei loro confronti.
Per uscire da questa spirale negativa le aziende devono sviluppare una nuova cultura della cura, riconoscendo le esigenze dei dipendenti caregiver e supportando le loro ambizioni professionali.
Le aziende devono essere pronte a vedere e utilizzare il potenziale che la vita porta con sé, in modo da valorizzare e sfruttare le risorse che si generano nei loro dipendenti.
Quando il futuro è in continua evoluzione e cresce la complessità, le persone devono sapersi adattare ai cambiamenti, reinventandosi continuamente e acquisendo le giuste attitudini per reagire a situazioni di stress e a scenari in rapida trasformazione.
Nelle aziende è alla funzione HR che viene assegnato il compito di accompagnare le persone verso i nuovi scenari, supportando lo sviluppo di adeguate competenze. Un modo efficace per farlo è strutturare percorsi che si inseriscono in maniera pertinente nelle reali esperienze di vita che le persone stanno attraversando in quel momento: questo le motiva maggiormente, perché sentono che la loro azienda sta offrendo un percorso formativo la cui utilità è reale e immediata.
Secondo una recente ricerca di Harvard Business University “The Caring Company”, nelle aziende 7 dipendenti su 10 sono ‘caregiver’, cioè si prendono regolarmente cura di qualcuno – i figli, i propri genitori, amici, compagni, o svolgono attività di volontariato.
Essere caregiver significa sperimentare sul campo, nella vita di ogni giorno, un enorme laboratorio di soft skill: per esempio una maggiore capacità di problem solving, una maggiore assertività, una maggiore capacità di organizzare i tempi o di reperire risorse, agilità mentale e velocità di giudizio, ma anche empatia, creazione di relazioni positive. Suona familiare? Certo! Si tratta delle stesse competenze soft che le aziende si aspettano di trovare nei propri dipendenti di talento e per le quali si spende più di 1 milione di euro l’anno solo in Italia per formarle in aula. Ma siamo sicuri che queste competenze possono essere apprese in un corso?
La ricerca “Family Caregiving Skill: Development of the Concept”, ad esempio, elaborata da un gruppo di ricercatori della University of Pennsylvania School of Nursing, individua addirittura 63 skill che vengono sviluppate grazie alle attività di cura familiare, e che si ricollegano ai 9 processi della cura:
Ciò significa, ad esempio che cogliere i primi segnali di cambiamento nel corpo o nel comportamento di un proprio caro anziano o malato si traduce nella capacità di osservazione. Pensare alle possibili conseguenze di una terapia, considerando il malato nella sua interezza, è un efficace esercizio di decision making. Individuare modalità per convincere l’anziano a rispondere in un certo modo a uno stimolo o a una richiesta, significa entrare in empatia. E così via. Lo studio, inoltre, evidenzia che le stesse competenze che il lavoratore mette efficacemente in pratica nei contesti professionali o in altri ambiti della vita, rendono le attività di cura più incisive.
Di fronte alla crescita dei caregiver lavoratori, le aziende stanno già attivando servizi di welfare volti a risolvere alcune necessità pratiche (come l’assistenza al malato o all’anziano, il supporto nel reperimento di informazioni e/o nella redazione delle pratiche burocratiche). L’attenzione, in questi casi, risulta spostata completamente sul “care taker”, ovvero chi su ricevere le cure – il malato, l’anziano, il disabile.
Eppure, considerando che le responsabilità di cura aumenteranno sempre di più (tra le cause: l’aumento dell’età media della popolazione), coinvolgendo le persone nel loro tempo extra-lavoro, e che la cura di un proprio caro rientra nelle transizioni della vita più intense in grado di generare sviluppo personale, le aziende non possono permettersi di ignorare questa dimensione, ma anzi, accogliendola, possono trarne importanti vantaggi.
Valorizzare i talenti, aumentare l’ingaggio, migliorare la retention, si generano anche abbattendo i confini tra i vari ambiti e ruoli della vita e consentendo alle persone di dimostrare e di portare tutto di sé anche sul lavoro. Riconoscere i momenti di cura come momenti di crescita e non di depotenziamento della capacità lavorativa, valorizzando anche le competenze che questa esperienza è in grado di allenare, consente alle persone di viverli con minore stress e, addirittura, di provare un senso di benessere. Più le aziende riescono a vedere in maniera strategica queste dimensioni umane, a metterle insieme e a dare una risposta sinergica ai vari fattori, più aumenta la competitività e migliorano i risultati.
Il mondo delle telecomunicazioni sta vivendo oggi una nuova e profonda transizione. L’avvento delle reti 5G, caratterizzato da una tecnologia mista fibra-radio, si preannuncia come una delle più radicali innovazioni nel mondo delle telecomunicazioni, che porterà enormi vantaggi nella trasmissione dei dati con bassissima latenza, in grado di supportare lo sviluppo dell’Internet delle Cose.
Se sul fronte tecnologico è chiaro quali saranno le caratteristiche e le opportunità offerte delle reti 5G, è ancora difficile prevedere come reagirà il mercato – sia dal lato dell’offerta sia da quello della domanda. Pertanto, i player delle telecomunicazioni si stanno preparando a far fronte alle prossime evoluzioni del settore, ancora incerte, seguendo le stesse dinamiche con cui hanno affrontato le precedenti transizioni: prove, supposizioni, osservazione dei competitor, ascolto del mercato.
Quando le evoluzioni di mercato sono così forti da generare un impatto sulla cultura aziendale, l’investimento sui dipendenti, attraverso una strategia di Change Management, è cruciale. Il Change Management (traducibile in “gestione del cambiamento”) riguarda l’introduzione di nuovi processi di un’organizzazione e/o la gestione di persone che stanno vivendo un cambiamento. Attuare una strategia di change management significa investire sul futuro dell’azienda e sulla sua capacità di affrontare e superare con successo il cambiamento.
Il compito della funzione HR di preparare adeguatamente l’azienda e i propri collaboratori ad affrontare nuovi scenari è un percorso articolato e complesso. La resistenza al cambiamento nelle persone è un fenomeno naturale, eppure il sapersi adattare ai rapidi cambiamenti, reinventandosi continuamente, risulta essere una competenza distintiva per avere successo nel nuovo scenario, per raggiungere nuovi obiettivi, adottare nuove abitudini.
In questo contesto, Linkem, tra i principali operatori del mercato italiano e leader nel settore della banda ultralarga wireless con una rete di accesso proprietaria su frequenze in grado di supportare il segnale 5G, ha definito un piano d’azione per la formazione dei dipendenti che fa leva sull’adeguamento delle abilità al fine di creare le condizioni migliori per gestire il cambiamento. E MAAM – il primo e unico master al mondo che trasforma l’esperienza della genitorialità e, più in generale le intense esperienze di cura, in competenze chiave per la crescita professionale – è al centro di questo piano.