A che età si possiedono (o si diventa) dei talenti? Solo da giovani oppure tutti abbiamo, sempre, molto da dare indipendentemente dall’età senza una ‘scadenza’ precisa? E come è possibile gestire la compresenza di generazioni diverse in azienda?
Sono queste alcune delle domande a cui si è cercato di rispondere nel Caring Company digital talk “Il talento non ha età: generazioni a confronto” promosso da Lifeed, attraverso le testimonianze di esperti del mondo HR, la condivisione dei dati dell’Osservatorio vita-lavoro presentati da Martina Borsato, Research & Innovation Senior Analyst di Lifeed e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.
Oggi, per la prima volta, all’interno delle aziende convivono ben quattro generazioni diverse: Baby Boomers, Generazione X, Millennials e Generazione Z. Una complessità senza precedenti, che può rappresentare un ostacolo oppure una fonte di ricchezza, se gestita in modo corretto.
Secondo la PwC 2015 Annual Global CEO Survey, oggi solo l’8% delle organizzazioni include l’età come parte della propria strategia di Diversity, Equity & Inclusion. Come è possibile, dunque, realizzare quello che l’Harvard Business Review chiama Age Management, cioè la gestione delle diverse generazioni in maniera strategica?
Sempre l’Harvard Business Review, nell’articolo Getting Serious About Diversity, sostiene che l’aumento del numero di persone appartenenti a gruppi diversi nella forza lavoro non basti per produrre automaticamente dei benefici. Ciò che conta è come un’organizzazione lavora sulla diversità.
In particolare sono tre i fattori per rendere la diversità una risorsa: potere (le persone sono in grado di riflettere e discutere il funzionamento del team e del modo di lavorare); parità (gli individui appartenenti a gruppi diversi hanno le stesse possibilità di accedere alle risorse economiche, decisionali, di status) apprendimento (le persone sono abilitate a riconoscere le loro differenze e ad apprendere da esse, anziché minimizzarle o negarle).
Le emozioni, i comportamenti e i talenti delle persone di diverse età funzionano in modo positivo se vengono messi in sinergia, facendo lavorare insieme le generazioni presenti in azienda.
Tra le best practice aziendali in questo ambito, Capgemini lavora sia in modo verticale con strumenti specifici in base alle esigenze delle diverse generazioni (per esempio l’onboarding dei giovani, la figura interna del buddy, il sostegno ai caregiver e ai genitori), sia in modo orizzontale attraverso attività di ascolto, dialogo e feedback per intercettare i bisogni delle persone.
In Capgemini convivono quattro generazioni e il 65% della popolazione aziendale è composto da Generazione Z o Millennials. Come spiega Michelangelo Ceresani, VP of Human Resources & Organization Italy, l’azienda ha deciso di affiancare al board senior un ‘Next Generation Board’ composto da giovani dipendenti della Generazione Z e Millennials per collaborare attivamente su tematiche della vita aziendale come inclusione, spazi di lavoro e nuovi modi di lavorare.
La partecipazione alla vita aziendale e la collaborazione tra diverse generazioni hanno un ritorno positivo in termini di sostenibilità per le organizzazioni che vogliono essere pronte per il futuro.
Secondo Ceresani, è inoltre importante guardare all’aspetto emozionale delle persone nelle organizzazioni. Soprattutto vanno guardate le human skills e bisogna rompere gli stereotipi legati all’età, perché ognuno è portatore di unicità.
Anche in NTT Data convivono quattro generazioni diverse e il 53% della popolazione aziendale è composto da under 35. Per Francesca Oldani, Responsabile Culture, Mindset Change e De&I, l’ascolto è fondamentale per interpretare i diversi punti di vista e capire le aspettative delle persone. Questo permette di migliorare il senso di appartenenza e favorire così la retention dei talenti.
L’azienda, in un settore come l’IT a maggioranza maschile, lavora molto sull’inclusione di profili femminili e promuove webinar per superare i bias legati alle diverse generazioni.
In particolare, secondo Oldani, i giovani hanno il desiderio di attivarsi per migliorare la società, quindi le aziende stesse devono scendere in campo per andare incontro a questa volontà e riscrivere insieme la storia delle organizzazioni, instaurando un rapporto fondato su una comunicazione trasparente, chiara e diretta. Dando ai giovani più spazio di responsabilità, è possibile metterli in condizione di essere ‘architetti’ del proprio futuro, con vantaggi per la retention aziendale.
Nell’ottica di inclusione e sostenibilità umana, risulta importante anche investire negli over 50 e rivedere la funzione dei role model facilitando il dialogo e il confronto tra profili senior e junior, andando oltre gli stereotipi. Per riuscire a valorizzare l’identità dei singoli, secondo Oldani bisogna saper vedere le competenze non solo tecniche, ma anche quelle soft, e serve un approccio agile e flessibile.
Dall’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed emerge che le diverse generazioni, di fronte al grande cambiamento portato dalla pandemia, hanno provato emozioni diverse e hanno espresso anche comportamenti e talenti diversi.
Questa diversità rappresenta una ricchezza se condivisa e se le caratteristiche e competenze di ognuno sono abilitate a essere usate in sinergia, quindi evitando di far lavorare solo giovani con giovani e senior con serior, ma creando gruppi di lavoro eterogenei che portano con sé le unicità.
L’identità generazionale dovrebbe essere sempre una fonte di apprendimento, non di divisione, e in questo senso sarà sempre più centrale la capacità delle aziende di combinare i talenti e le competenze delle persone in maniera strutturata e strategica.