Nell’attuale scenario macroeconomico e lavorativo segnato dalla complessità e da fenomeni come Great resignation e Quiet quitting, le aziende sono chiamate a mettere la sostenibilità umana al centro delle loro strategie. Per farlo, è fondamentale considerare le persone come individui a 360 gradi, non solo come professionisti. Secondo l’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, in una persona convivono ogni giorno mediamente 5 ruoli di vita, la maggior parte dei quali sono personali o familiari: un’intersezionalità che rende ogni individuo unico, con i talenti che esprime nei suoi diversi ruoli.
L’importanza della diversità è stata al centro del Caring Company digital talk “La ricchezza dell’unicità” promosso da Lifeed, attraverso le testimonianze di esperti del mondo HR, la condivisione dei dati presentati da Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.
Un fattore importante di diversità nelle aziende è quello generazionale. Dalle analisi dell’Osservatorio di Lifeed è emerso che le generazioni hanno espresso emozioni diverse di fronte al cambiamento innescato dalla pandemia: un esempio di come, tra più e meno giovani, possano esserci differenze importanti di cui tenere conto nella gestione delle Risorse Umane.
Proprio sul tema generazionale, Michelangelo Ceresani, Vice President Human Resources & Organization Italy di Capgemini, racconta una best practice dell’azienda che ha un’elevata percentuale di dipendenti Millennials e della Generazione Z. Capgemini ha dato vita a un board di giovani colleghi che ha affiancato il board della società. Tutte le persone interessate hanno lavorato in un’ottica di community sui diversi temi aziendali.
La vera ricchezza – racconta Ceresani – è stata lo scambio tra senior e più giovani, che ha creato una contaminazione positiva. Tutto questo si è concretizzato in workshop trimestrali che hanno portato all’implementazione delle idee proposte dai più giovani. Ascoltare i giovani permette inoltre di intercettare meglio i loro bisogni, per esempio in termini di benessere ed engagement, con vantaggi in termini di retention, specialmente in settori con un alto tasso di turnover.
Saper ascoltare, dunque, è fondamentale per rispondere in modo puntuale ai bisogni delle persone. Ma, ancora prima, bisogna saper vedere chi è poco visibile in azienda, come i caregiver. Questi ultimi rappresentano spesso un ‘mondo sommerso’ nelle aziende, anche se il 73% dei lavoratori ricopre ruoli di cura (Harvard Business University).
Dall’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed emerge che solo l’8% dei caregiver si identifica in questo ruolo, ma la percentuale aumenta notevolmente nelle aziende che hanno adottato percorsi di autoconsapevolezza per i caregiver, come Crédit Agricole Italia che ha registrato un 20% attraverso il master Care di Lifeed. Lo conferma Rosanna Maserati, Responsabile del Servizio Diversity e Inclusion di Crédit Agricole Italia, spiegando che l’azienda ha aperto appositi tavoli di ascolto dei dipendenti per eliminare lo stigma culturale sui caregiver, spesso visti come defocalizzati dal lavoro per dedicarsi alla cura di un familiare.
Successivamente l’azienda ha fatto sì che tutta l’azienda parlasse del caregiving come una transizione di vita che allena competenze utili anche sul lavoro e ha fornito iniziative di supporto psicologico e socio-assistenziale ai suoi dipendenti caregiver. Secondo Maserati, il lavoro di cura unisce tutti, è la tematica di diversità e inclusione meno divisiva perché accompagna chiunque nel corso della vita. L’unicità è la somma delle caratteristiche innate e delle esperienze di vita di ognuno (come quelle di cura) e, in questo senso, la D&I è un vero e proprio motore di innovazione.
Gli stereotipi culturali che creano disparità sul lavoro non riguardano solo i caregiver, ma anche i genitori. Da una parte, per esempio, c’è la fatica delle madri legata al fatto di avere maggiori carichi di cura, che crea una grande pressione sociale sulle loro spalle e genera sensi di colpa che impattano sul loro benessere. Dall’altra, c’è la frustrazione dei padri che non si sentono ‘visti’ come tali, pur avendo talenti di cura da esprimere, perché nella nostra cultura sono considerati ‘genitori di serie B’.
La parità di genere fa bene anche agli uomini, sostiene Lucia Pellino, Diversity & Inclusion Director di Lavazza Group, che racconta come l’azienda dal 2020 abbia avviato un progetto interno chiamato ‘Gap Free’ che punta su quattro goal dell’Agenda 2030 dell’Onu, tra cui il numero 5 sulla Parità di Genere. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di eliminare tutte le barriere che ostacolano la creazione di un ambiente di lavoro inclusivo, nel quale può emergere l’autenticità di ognuno.
La sostenibilità a 360 gradi, compresa quella umana, sta a cuore a Lavazza che (tra le varie attività della sua strategia di inclusione) ha promosso appositi webinar per aumentare la consapevolezza delle persone sui temi di Diversity & Inclusion, ha coinvolto le sue persone nella co-creazione del proprio Manifesto e promuove lo sviluppo di una leadership che sappia valutare le persone oltre ai risultati, considerando importanti anche i loro comportamenti rispetto ai valori aziendali.
Per approfondire questi temi, Lifeed ha realizzato il whitepaper “La cura come leva di inclusione, benessere e sviluppo di talenti” che spiega come il prendersi cura di sé e degli altri faccia emergere le risorse delle persone e le faccia stare meglio, anche sul lavoro: una strategia vincente per le aziende.
Nel contesto incerto di oggi, favorire diversità e inclusione è diventato un motore di competitività per le aziende. Ciò è possibile attraverso una leadership che “fa crescere” le persone, facendo emergere i talenti che esprimono in tutte le loro dimensioni identitarie.
I manager influenzano il coinvolgimento e le performance del team più di qualsiasi altro fattore all’interno delle organizzazioni. Basti pensare che, secondo una ricerca di Gallup, il 70% della variazione dell’engagement dei gruppi di lavoro dipende esclusivamente dai manager.
Proprio per attivare tutto il potenziale delle persone nelle aziende, la soluzione Caring leadership di Lifeed permette ai People Manager di acquisire un nuovo stile di leadership in grado di gestire i cambiamenti e far emergere il meglio dai collaboratori attraverso la cura.
Il percorso unisce il meglio dell’esperienza individuale e di gruppo, sincrona e asincrona, per il massimo dell’engagement e dell’efficacia. La soluzione Caring leadership si distingue per i workshop in presenza, incontri con i nostri Master Trainer per introdurre i partecipanti alla Lifeed experience.
Nella modalità “social” le persone si incontrano e si confrontano, tra loro e col trainer. Nella modalità “individual” i partecipanti effettuano le attività riflessive e le pratiche real-life.
La hybrid classroom è strutturata con un’introduzione da parte del trainer, a cui seguono l’attività riflessiva su piattaforma Lifeed e la pratica real-life. Infine è previsto un momento di confronto e condivisione collettiva col trainer. In questo modo, i partecipanti sviluppano una leadership in grado di gestire i cambiamenti e fare emergere tutto il potenziale delle persone.
La Giornata mondiale della salute mentale (il 10 ottobre di ogni anno) è stata istituita nel 1992, ma è servita una pandemia per dare visibilità globale a questo tema così importante per le singole persone e per le aziende che sono abitate e vissute, appunto, dalle persone.
Basti pensare che, secondo l’ultimo report Gallup sullo “Stato globale del mondo del lavoro”, passiamo in media 81.396 ore della nostra vita al lavoro: una quantità di ore inferiore solo al tempo che passiamo dormendo.
Eppure, quella del benessere rappresenta ancora una sfida da vincere per le organizzazioni. Ciò vale anche in Italia, dove un lavoratore su quattro si è dimesso nel 2021 per preservare la propria salute fisica e mentale, quattro persone su 10 hanno avuto almeno un’assenza per malessere emotivo e solo il 9% dichiara di stare bene sul lavoro (Fonte: Osservatorio HR Innovation Practice, Politecnico di Milano).
Tra le principali cause c’è la difficoltà a conciliare vita privata e professionale, che è legata al conflitto tra le due dimensioni esistente nella nostra cultura. Come emerge dall’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, in ognuno convivono in media cinque ruoli di vita (la maggior parte di essi non lavorativi) che possono creare benessere personale e organizzativo, ma solo se vengono visti in sinergia tra loro.
La consapevolezza di avere molti ruoli aumenta infatti la propensione a prendersi cura di sé. Per dare alle persone un’opportunità concreta per prendersi cura di sé, le aziende possono inserire nella loro strategia di benessere appositi percorsi di self-coaching basati sulla pratica dell’auto-riflessione che permettono di acquisire maggiore consapevolezza di sé e di stare meglio con gli altri.
Tutti questi temi sono stati approfonditi nel Caring Company digital talk “Il benessere mentale attraverso la cura” promosso da Lifeed, attraverso le testimonianze di esperti del mondo HR, la condivisione dei dati presentati da Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.
Innanzitutto è necessario considerare che ogni persona ha delle specialità, che sono legate alle sue esperienze e definiscono il suo stile personale. Ne è convinta Arianna Conca, Global Diversity & Inclusion and Wellbeing Manager di Chiesi, che sottolinea l’importanza di riconoscere questo valore in ambito HR anche nella selezione, valutazione e promozione delle persone in azienda.
Prendersi cura delle persone in tutte le loro componenti, anche emotive e umane, favorisce la salute mentale ed è la chiave per lavorare meglio. Secondo Conca, l’attenzione alla salute mentale deve essere sia una parte del Dna delle aziende, sia una responsabilità diffusa delle persone perché prendersi cura di se stessi e dedicarsi tempo è fondamentale per stare bene e trovare la necessaria armonia tra le varie dimensioni identitarie di ognuno.
Tutto ciò – aggiunge Conca – riguarda direttamente la leadership aziendale: il benessere organizzativo è anche una responsabilità dei capi e le aziende sono chiamate a creare le condizioni per praticare uno stile di leadership umano.
Condivide questo punto di vista sulla leadership Raffaella Maderna, People & Communication Director di Lundbeck Italia, spiegando che chi gestisce persone ha un ruolo critico per facilitare la diffusione di una cultura del people care in azienda.
Prendersi cura delle persone a 360 gradi significa anche considerare l’emotività di ognuno perché, come afferma Maderna, la salute parte dal cervello che è il vero protagonista del nostro benessere psico-fisico. Oggi, infatti, le persone vivono l’azienda come persone nella loro interezza, non più solo come dipendenti, e vanno considerate nella loro molteplicità.
La pandemia, nel bene e nel male, ha abbattuto le barriere tra vita privata e lavorativa e le aziende non possono ignorare questo cambiamento di prospettiva. Il passaggio richiesto alle organizzazioni è quello da ‘preoccuparsi’ del benessere delle persone a ‘occuparsi’ di loro, attraverso l’ascolto e attività che favoriscono la consapevolezza e la responsabilità delle persone.
Come sottolinea Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda, il tema della salute mentale impatta in particolare le donne, che ricoprono più spesso il ruolo di caregiver nella vita privata e che, dopo l’arrivo della pandemia, ne hanno subito maggiormente gli effetti in termini di ansia e depressione.
L’obiettivo di Fondazione Onda è promuovere una cultura della salute di genere a livello istituzionale, sanitario-assistenziale, scientifico-accademico e sociale per garantire alle donne il diritto alla salute secondo principi di equità e pari opportunità.
Infine, secondo Merzagora, nei veloci cambiamenti del mondo di oggi è anche necessario fermarsi e compiere un’auto-riflessione, per dare un senso alla propria esistenza e ritrovare quel benessere mentale e fisico così importante per le persone e per le aziende.
Proprio per approfondire l’importanza dell’auto-riflessione per gli individui e per le organizzazioni, Lifeed ha realizzato il whitepaper “Il potere del self-coaching per le aziende” che raccoglie anche le testimonianze di alcuni manager della funzione HR.
Oggi le aziende mettono a disposizione dei dipendenti numerosi servizi con l’obiettivo di favorire il loro benessere e la produttività, ma spesso questi servizi non vengono utilizzati dalle persone. Perché?
L’Harvard Business School l’ha definito un “circolo vizioso della cura”, spiegando che la motivazione è prima di tutto culturale: le dimensioni della vitalità e della passione restano spesso fuori dai confini dell’ufficio, dove il professionista viene prima del genitore, caregiver, partner e di qualsiasi altro ruolo di vita privata. In questo modo, le aziende non riescono a vedere le persone nei loro molteplici ruoli e non intercettano i loro reali bisogni.
Se viste e valorizzate, invece, queste dimensioni rappresentano una fonte di talenti nascosti utili anche sul lavoro e già a disposizione delle imprese. Secondo i dati dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, il 70% dei talenti si trova nella sfera personale, solo il 30% in quella lavorativa. Come far emergere quel prezioso 70%? Basta saperlo vedere.
Per approfondire i temi legati alla cura delle persone nelle organizzazioni, Lifeed ha realizzato un whitepaper che raccoglie le testimonianze di alcuni manager della funzione HR, i quali raccontano le sfide del mondo del lavoro, condividendo priorità, bisogni e opportunità per il futuro delle Risorse Umane.
Le persone hanno vite complesse: questa può essere una fonte di stress e scarsa produttività, oppure un’occasione per avere più risorse a disposizione in azienda. I molteplici ruoli di ognuno, dalla vita privata a quella professionale, nascondono competenze e talenti utili al business. Ma come è possibile attivare questo potenziale?
La risposta è conoscere meglio le persone, mettendole al centro di percorsi formativi che permettono loro di scoprire i talenti nascosti che esprimono nei diversi ruoli di vita e di trasferirli in modo efficace anche sul lavoro.
Per supportare le aziende nel raggiungimento di questo obiettivo, Lifeed ha lanciato MultiMe® Finder, il nuovo strumento di “self discovery” realizzato in collaborazione con la Kellogg School of Management della Northwestern University di Chicago che consente alle persone di costruire la mappa dei propri ruoli di vita, profili comportamentali e competenze associate.
Grazie a questo strumento, le aziende possono rafforzare la personalizzazione dei percorsi formativi, conoscere meglio le loro persone e mettere al centro l’esperienza dell’utente.
MultiMe® Finder è una soluzione che le imprese possono utilizzare sia in modalità stand-alone, sia come tool complementare e integrato ai programmi Lifeed negli ambiti di Diversity & Inclusion, Talent e Wellbeing. Lo strumento è infatti ideale per la “messa a terra” di azioni e programmi in diversi ambiti:
Sviluppo D&I
Mappatura dei profili comportamentali attraverso la lettura dei ruoli di vita e della diversità di ciascuna persona con l’obiettivo di far emergere l’unicità, i punti di forza e i talenti nascosti delle persone. Spesso l’utilizzo avviene come ice-breaker in occasione di eventi, per esempio il kick-off di avvio dei programmi Lifeed, oppure come strumento di indagine e di ascolto della popolazione aziendale.
Acquisizione di talenti e sviluppo delle persone
Lo strumento è molto adatto anche in fase di talent acquisition e development, perché consente all’azienda di vedere i talenti nascosti delle persone e di valorizzarli all’interno del percorso di crescita aziendale.
Sviluppo del benessere in azienda
Multime® Finder può essere usato come strumento di immediata applicazione di iniziative di welfare volte a migliorare il benessere psicologico perché la scoperta delle risorse nascoste e dei profili comportamentali favorisce la relazione tra l’azienda e le sue persone.
Per approfondire tutti i vantaggi di MultiMe® Finder per le aziende, in particolare in ambito Diversity & Inclusion, Lifeed ha promosso l’evento dal titolo D&I Finder: come far emergere la ricchezza e l’unicità delle persone per portare benessere e inclusione in azienda in programma il 22 febbraio 2022 alle ore 12.
Attraverso questo percorso, i dipendenti scoprono: i propri super-talenti (quali caratteristiche positive li rendono più efficaci nel maggior numero di ruoli); i propri talenti nascosti (i talenti che esprimono in un solo ambito della loro vita e come possono usarli in altri ruoli); lo stile comportamentale (come si comportano in ognuno dei loro ruoli, l’essenza della loro efficacia).
Gli utenti ricevono un report che evidenzia il loro equilibrio tra i ruoli, i super-talenti, i talenti nascosti e il loro stile comportamentale prevalente. L’azienda riceve a sua volta un report con dati in forma anonima e aggregata sui ruoli e le caratteristiche che le persone esprimono, i loro talenti nascosti e i profili comportamentali. Il report indica inoltre il numero di competenze totali provenienti dalla vita che l’azienda aggiunge alle sue persone.
Tutto questo permette alle persone di stare meglio e lavorare meglio, aumentando la propria autoefficacia, mentre l’azienda trae vantaggio da un bacino più ampio di talenti nascosti e diversità già presenti al suo interno, basando le proprie scelte e facendo crescere la propria cultura su una conoscenza più profonda delle sue persone.
Per lavorare e competere in un mondo digitalizzato, servono persone con la giusta formazione. Finora le imprese hanno investito sulla diffusione delle competenze legate all’utilizzo degli strumenti di collaborazione da remoto, ma adattarsi ai cambiamenti già in atto non basta più. È tempo di compiere un passo in avanti e anticipare la trasformazione. Tocca alle Direzioni HR sviluppare nuovi percorsi formativi che abbraccino l’intera cultura organizzativa e che forniscano gli strumenti per fare la differenza nel mercato di domani.
Nell’arco dei prossimi due anni, per effetto delle tecnologie digitali, il 70% dei lavoratori dovrà aggiornare le competenze chiave per svolgere le proprie mansioni. Secondo un rapporto del World Economic Forum, l’84% delle aziende prevede di accelerare la digitalizzazione dei processi e accrescere l’impiego di strumenti digitali per il lavoro. La priorità è riqualificare la forza lavoro attraverso programmi di upskilling e di reskilling. L’impiego del digitale assume così una doppia veste: obiettivo da raggiungere, per avere collaboratori capaci di interfacciarsi con le tecnologie, e al contempo mezzo attraverso il quale offrire i contenuti formativi.
La formazione dei propri collaboratori rappresenta una delle sfide prioritarie per ogni organizzazione. Il trend monitorato dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano suggerisce un aumento del 7,5% degli investimenti in iniziative digitali rispetto al 2020, uno dei valori più alti negli ultimi anni. Più della metà delle Direzioni HR ha riscontrato, negli ultimi mesi di lavoro da remoto, criticità nelle attività di supporto alle persone. La ‘svolta digitale’ è motivata, dunque, non solo dalla necessità di garantire continuità alle attività, ma anche dalla volontà di migliorare i processi.
Oggi il 35% delle organizzazioni prevede di aumentare gli investimenti fino al 15% rispetto a quelli dello scorso anno. L’aumento si concentra soprattutto su formazione, analisi e sviluppo di nuove competenze. In uno scenario sempre più “ibrido” tra fisico e virtuale, occorre far evolvere i ruoli interni all’azienda: le organizzazioni puntano su percorsi di sviluppo delle digital soft skill, competenze trasversali, relazionali e comportamentali delle persone per utilizzare efficacemente i nuovi strumenti digitali.
La Direzione HR ricopre in questo contesto un ruolo centrale. Partner strategico del management, ha il compito di guidare internamente lo sviluppo o operare all’esterno per l’acquisizione di competenze rilevanti per il futuro. Fondamentale resta, quindi, la capacità di trasmettere ai collaboratori i benefici di un approccio improntato al life-long learning, un apprendimento continuo che accompagni tutta la vita lavorativa della persona. È ai Responsabili HR che si richiede l’impegno diretto alla costruzione di percorsi personalizzati, sia in termini di contenuti sia in termini di format, che siano ingaggianti ed efficaci anche in digitale.
La risposta sembra fin qui positiva. Le persone che operano all’interno delle organizzazioni, consapevoli dei cambiamenti in atto, sono ben predisposte ad acquisire nuove competenze e capacità in un’ottica di continuous learning. Gli ultimi mesi, alle prese con la trasformazione tecnologica e le nuove modalità di lavoro a distanza, hanno sviluppato la cosiddetta learning adaptivity di migliaia di lavoratori. È cresciuta, cioè, l’efficacia dell’apprendimento di competenze e capacità che consentono di adattarsi ai cambiamenti richiesti dalla propria professione.
Già oggi più della metà delle organizzazioni utilizza strumenti digitali per il microlearning. Le pillole formative garantiscono continuità nell’aggiornamento professionale e facilitano l’integrazione dell’apprendimento nella quotidianità. Si rivelano utili anche per l’attraction delle generazioni più giovani, interessate a imparare in fretta contenuti brevi e immediatamente spendibili sul lavoro. È il nuovo trend in materia di formazione: apprendimento personalizzato, gestibile in autonomia, flessibile negli orari.
Una scelta resa più facile dagli strumenti digitali. Grazie al loro impiego, le Direzioni HR possono raccogliere ed elaborare i dati per progettare esperienze personalizzate in base alle caratteristiche di candidati e collaboratori. Gli algoritmi di raccomandazione basati su Intelligenza Artificiale sono già oggi in grado di suggerire alle persone contenuti e format in base ai propri interessi ed esigenze. E possono indicare all’organizzazione quali competenze sviluppare per rimanere competitiva.
Il potenziale offerto dai dati è, tuttavia, ancora poco sfruttato: in base ai report dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, solo l’8% delle organizzazioni effettua elaborazioni di tipo predittivo sui trend futuri. In ambito formazione e sviluppo, le Direzioni HR si limitano a elaborare analisi descrittive della situazione attuale, mentre resta basso il numero di informazioni raccolte sui risultati dei percorsi. E, senza un’analisi accurata dei risultati raggiunti, non è possibile verificare l’efficacia della formazione.
L’analisi dei dati a disposizione, l’utilizzo di strumenti digitali a supporto dei processi HR e il coinvolgimento delle persone sono i tre elementi costitutivi del cosiddetto “Connected People Care”, il nuovo ruolo della Direzione HR che si prende cura delle persone, personalizzando i servizi, rimanendo allineata rispetto alle esigenze del mercato e ‘connessa’ con l’intera organizzazione.
La diffusione del lavoro ibrido legato alle conseguenze della pandemia ha allargato le distanze all’interno delle organizzazioni. Per questo, oggi è diventato ancora più importante mantenere saldi i contatti tra le persone. Stimolare l’inclusione e il senso di appartenenza, attraverso un atteggiamento di cura, può aiutare organizzazioni e team di lavoro ad affrontare meglio i cambiamenti. Lo dimostra l’esperienza degli ultimi mesi: venuta meno la barriera che separava la dimensione professionale da quella familiare, le aziende hanno imparato a considerare le persone nella loro interezza, scoprendone nuovi bisogni e differenti fragilità.
Secondo un report della School of Management del Politecnico di Milano (Lifeed è partner della Ricerca 2021/2022 dell’Osservatorio HR Innovation Practice), nonostante otto lavoratori su 10 abbiano ben chiari gli obiettivi da raggiungere e il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione, nel complesso le persone sono meno ingaggiate e coinvolte nelle attività lavorative. Il 79% dichiara di aver raggiunto un buon equilibrio tra vita privata e lavorativa e il 76% considera l’ambiente di lavoro più inclusivo. Eppure, la distanza tra l’organizzazione e le persone si avverte ancora.
Comunicazione interna e gestione del clima aziendale sono i processi considerati più critici. Se nell’ultimo anno è rimasta invariata la proficiency, ovvero l’efficienza e l’accuratezza nell’esecuzione delle attività, è invece calata tra i lavoratori la proactivity, l’indicatore che misura la capacità di introdurre miglioramenti in maniera proattiva a vantaggio dell’organizzazione. Le persone meno ingaggiate e meno coinvolte hanno avuto difficoltà a sviluppare idee utili a migliorare le attività lavorative.
La componente dell’engagement che si è ridotta in misura maggiore è quella del “vigore”, ovvero la condizione psicologica legata all’energia e al desiderio di lavorare. L’impegno che le aziende hanno messo in atto per motivare i propri collaboratori non è bastato a farle sentire oggetto di reale attenzione. È necessario allora intervenire per rendere le nuove modalità di lavoro davvero sostenibili, mettere in campo iniziative che stimolino il coinvolgimento e la motivazione e strutturare forme di leadership più attente e “gentili”.
Come conferma il report del Politecnico, è tempo di delineare un nuovo ruolo della Direzione HR, di “cura” e “guida” delle persone. Recuperare l’impegno dei collaboratori e stimolare in loro una maggiore motivazione significherebbe ‘convertire’ di nuovo alla causa del business e della produttività menti fresche e desiderose di collaborare. Investire nel benessere delle persone, senza perdere di vista le esigenze di business, è possibile: empatia e ascolto fanno bene alle persone e contribuiscono anche ad accrescere la produttività dell’azienda.
Ma come si sviluppa uno stile di leadership improntato alla cura? Essere leader “gentili” non significa dimenticare i propri compiti di guida e organizzazione. Al contrario, la gentilezza nel leader coincide con la capacità di riconoscere i bisogni delle persone e si manifesta nella scelta di permettere a tutti di esprimere in sicurezza emozioni e stati d’animo. Anche a se stessi: la vulnerabilità oggi può essere considerata un sintomo di forza del leader, non solo perché accorcia le distanze con i propri collaboratori, ma anche perché offre un esempio da seguire a quanti temono di mostrarsi deboli condividendo le proprie emozioni. Un leader empatico, ben predisposto all’ascolto e attento alle relazioni umane è un leader inclusivo, che riconosce il valore delle sue persone e lo trasforma in punti di forza al servizio del business.
Come dice Richard Davidson, fondatore del Centro per la Ricerca su Menti Sane dell’Università del Winsconsin, anche la compassione, come le competenze fisiche e accademiche, può essere allenata mediante la formazione e la pratica. La compassione esercitata dall’azienda contribuisce ad alimentare fiducia e collaborazione tra i lavoratori. Per Davidson, “le persone possono effettivamente costruire il loro ‘muscolo’ della compassione e rispondere alle sofferenze degli altri con attenzione e desiderio di aiutare”. Proprio nelle situazioni di forte stress emotivo, è importante prendersi cura del benessere psico-fisico delle persone.
I primi a dover allenare questo nuovo “muscolo” sono i Direttori HR, chiamati a sostenere le persone nel recupero dell’entusiasmo e della motivazione. Va ripristinata anche quella dimensione di socializzazione, venuta a mancare negli ultimi mesi, per ridare nuovo senso all’idea di appartenenza, lasciandosi alle spalle il senso di precarietà dovuto all’emergenza. Proviamo a imparare dall’esperienza vissuta: la sfida è interiorizzare e far tesoro dei cambiamenti portati dal modello di lavoro da remoto nella cultura aziendale e nei comportamenti delle persone, passando da una logica legata al presenzialismo a una basata sull’attenzione ai risultati. E, soprattutto, alle persone che li hanno ottenuti.
Oggi la sostenibilità è sempre più prioritaria nell’agenda delle aziende. Per realizzarla, non possiamo più scegliere tra benessere e sviluppo. Solo se smettiamo di vedere un trade-off tra queste due componenti (che possono invece alimentarsi a vicenda) è possibile consentire davvero alle persone di sentirsi “viste” e “trattate” nella loro interezza dalle loro aziende, farle stare meglio e ‘collegarle’ agli obiettivi aziendali.
Quando si parla di Human sustainability, è necessario riconoscere che gli esseri umani sono diversi, sfaccettati, in continuo cambiamento e quindi potenzialmente in continuo apprendimento, con capacità naturali di adattamento alle trasformazioni nel tempo. Ma queste caratteristiche possono essere valorizzate solo se le aziende sanno allargare le loro mappe e vedere le persone in modo diverso, nella loro interezza, con curiosità, coraggio e cura: tutte parole che hanno alla loro radice “cuore”.
Ne ha parlato Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nell’ambito del Forum Sostenibilità 2021 organizzato da Comunicazione Italiana, a cui hanno partecipato manager di alcune importanti aziende.
Come affermato da Marshall Goldsmith, esperto di fama mondiale nella formazione dei dirigenti d’azienda, ciò che ci portati fin qui non ci porterà nella prossima era. I vecchi sistemi non sono più adeguati ai nuovi modi di lavorare. Non c’è alternativa al fatto di saper guardare le persone in modo diverso, altrimenti si perdono quote di mercato: la scelta tra benessere e sviluppo e tra vita e lavoro non è mai stata sostenibile e la pandemia lo ha reso ancora più evidente.
Tra le attività principali di chi fa HR oggi ci sono quelle di favorire le pari opportunità, la meritocrazia, il work-life balance e il benessere psico-fisico delle persone. Secondo Giovanni Airoldi, HR Manager di Acea Holding, l’ascolto continuo è la capacità che gli HR dovranno avere, nell’ambito di un cambiamento culturale e dei modelli di leadership.
Un nuovo ascolto può essere possibile anche grazie alla potenza del digitale, che permette alle persone di narrare se stesse in modo diverso e alle aziende di ascoltarle in modo più profondo (senza i pregiudizi tipici della sintesi). Così è possibile realizzare l’HR footprint, l’impronta che la Direzione Risorse Umane può lasciare sulla gestione delle persone e sul futuro dell’azienda.
La sostenibilità è anche una questione di innovazione tecnologica legata ai comportamenti delle persone. Per Enrico Martines, Direttore Formazione, Sviluppo e Innovazione Sociale Hewlett Packard Enterprise, ciò si concretizza nel passaggio da un modello di economia lineare a quello di economia circolare, dove l’utilizzo della tecnologia è pay-per-use (a consumo) e permette un importante risparmio di risorse. Martines sottolinea inoltre l’importanza di valorizzare il work-life balance (e in particolare la genitorialità), perché se le persone stanno bene in famiglia ciò viene trasferito anche sul lavoro.
Per Michelangelo Ceresani, VP of Human Resources & Organization Capgemini Italia, oggi è necessario un lavoro profondo sulle competenze di leadership e ascolto delle persone: questa è la chiave di volta per far funzionare le nuove organizzazioni mentre riflettono su come rendere sostenibile un nuovo modello lavorativo basato su una gestione diversa dello spazio e del tempo.
Sugli effetti dei nuovi modelli organizzativi sulla produttività delle aziende si concentra anche Claudio Varani, Head of Compensation System & Benefit Gruppo TIM – Telecom Italia, secondo cui bisogna trovare una sintesi tra il modello normativo e quello lavorativo per garantire la sostenibilità nel tempo.
Quali leader dovranno accompagnare l’esecuzione della strategia di Human sustainability? Secondo Claudio Mennini, Chief Revenue Officer Giunti Psychometrics, le aziende oggi hanno bisogno di una leadership inclusiva e diversificata, che tenga insieme l’umanità e la competitività.
Infine è importante considerare che i lavoratori, specialmente i giovani talenti, si aspettano che le aziende siano responsabili e sceglieranno (a parità di offerta) le aziende portatrici di valori di sostenibilità. Come ricorda Gianluca Bonacchi, Evangelist, Employer Insights Indeed, la felicità sul lavoro è sempre più centrale in questa trasformazione e si fonda su azioni concrete di inclusione e coinvolgimento delle persone.
La pandemia ha innescato una vera e propria rivoluzione nel sistema-lavoro, scardinando certezze manageriali sedimentate nel corso degli anni. Sono emerse così necessità nuove per i leader di oggi: come gestire questa transizione salvaguardando il business e senza tralasciare, allo stesso tempo, le esigenze delle persone?
A questa e ad altre domande si è cercato di trovare risposte attraverso la tavola rotonda La nuova flessibilità e le ricadute sulla leadership. Come guidare il team in una fase di incertezza e quali priorità per agire il cambiamento? organizzata da HRC, a cui hanno partecipato manager e direttori HR di diverse aziende.
Dopo l’arrivo della pandemia, le aziende si sono ritrovate a vivere un cambiamento forzato nei modi di lavorare e a cercare risposte senza seguire schemi prestabiliti. In questo contesto, secondo quanto emerso dall’osservatorio di Lifeed, i dipendenti hanno sviluppato caratteristiche come autoconsapevolezza, problem solving e altre competenze che riguardavano loro stesse, singolarmente, mentre sono calate le competenze legate al lavoro con gli altri. “All’opposto, però, abbiamo visto che collaborazione, supporto verso gli altri e delega sono le competenze più sviluppate nella vita privata”, spiega Emanuela Vignotti, Chief Revenue Officer di Lifeed. “Questo perché le transizioni di vita, compresa la pandemia, sono protagoniste dello sviluppo delle competenze”.
Lo sforzo più grande che dovrà affrontare il leader del futuro sarà quello di “essere flessibile e continuare a far lavorare in maniera produttiva le persone con modalità diverse, puntando proprio sulle competenze soft sviluppate nella vita privata”. Non bisogna infatti dimenticare che il fulcro dell’azienda è sempre la persona: conoscere i dipendenti a 360 gradi e valorizzarne le competenze è la chiave per raggiungere gli obiettivi aziendali nella ‘nuova normalità’.
Un ruolo delicato, quello del leader, soprattutto in questo momento storico. “Empatia, necessità di ascoltare e di costruire rapporti sempre di più basati sulla fiducia, che va oltre la dimensione del controllo” sono le priorità secondo Francesca Fraulini di The Kraft Heinz Company. Quali sono, dunque, le caratteristiche del leader del futuro? La chiave, per Fraulini, è saper ispirare il proprio team e creare connessioni con l’esterno.
Gli HR manager si sono ritrovati ad affrontare una situazione inaspettata a causa della pandemia. La percezione della necessità di come agire sul cambiamento in atto, supportato da un sistema di valori e di cultura aziendale, sono gli spunti offerti da Gianpaolo Corti di The Kraft Heinz Company, che ribadisce come sia “necessario un sistema di soft skills veicolato attraverso network informali per cambiare l’approccio ‘command & control’, con cui spesso le aziende guidano il loro modo di lavorare e che oggi non è il modello più adatto”.
Un cambiamento che deve essere congruente con la propria identità aziendale, secondo Antonio Guarrera di Aboca, che sottolinea come il leader del futuro debba avere tre caratteristiche: competenza (essere tecnicamente preparato), virtù (essere un buon esempio), sollecitudine, ovvero essere al servizio degli altri “perché l’azienda è come un organismo vivente e in quanto tale la fiducia è fondamentale”.
Per Stefania Capelli di Cisco il momento che stiamo vivendo, seppur faticoso, è ricco di opportunità per “riportare in una nuova dimensione la cultura manageriale”. Nuove dimensioni che spingono Capelli a ragionare sul futuro come ‘open source’ in cui il vero leader punterà sull’inclusione per il raggiungimento degli obiettivi, lasciando spazio ad inventiva e iniziativa personale, perché “la carta vincente è la fiducia che si dà”.
Flessibilità e fiducia, concetti alla base di una nuova leadership e di un contesto in cui, secondo Fabio Comba di KPMG, “il network è un punto cardine per un team leader e bisogna creare le condizioni performative anche con il divertimento, perché ogni investimento sul benessere organizzativo è una ricaduta sulla soddisfazione del cliente”.
Dunque una leadership energica e accogliente, non solo per produrre migliori performance, ma anche per far sentire tutti “parte del team, indipendentemente da dove scelgano di lavorare”, sottolinea Massimiliano Sacco di Electronic Arts. Sacco pone l’accento sulla necessità di trovare un equilibrio in una fase ibrida in cui alcuni processi lavorativi, come quelli creativi, necessitano di una presenza e non possono svolgersi da remoto. Il leader dovrà calibrare bene queste fasi per valorizzare e rinforzare il team per centrare gli obiettivi.
Ugo Venier di Snam pone l’accento sulla necessità di creare consapevolezza nei leader su come gestire il team e sulla capacità di ascolto “fondamentale per una leadership in un contesto più incerto, perché se si ascoltano le persone e si capiscono le loro esigenze, si riesce ad essere più efficaci”.
La leadership è stata messa alla prova da un evento inaspettato come la pandemia, da cui però nascono nuove opportunità di cambiamento e di equilibrio vita-lavoro, tassello imprescindibile nella vita delle persone. Lo evidenzia Monica Chiari di Cameo che delinea come la leadership futura si “esplica dentro il cambiamento. Al leader stanno a cuore più le relazioni piuttosto che le performance, la sua è una leadership che mostra la direzione e non è più controllante, nell’indicare la rotta si fa diffusore di fiducia”.
Una leadership della trasformazione per Maurizio Audizi di Ania, che include una ridefinizione dei valori che rispondono a nuovi bisogni “perché il contesto ci ha portato a dare più rilevanza a cose che prima erano meno rilevanti”.
Tante le parole chiave emerse, una tra tutte quella della fiducia, che torna come un mantra per il leader del futuro. Fiducia prima di tutto nei componenti del proprio team, nei valori dell’azienda e nel desiderio di costruire una leadership nuova per un futuro migliore.
Ogni viaggiatore sa che la diversità è una ricchezza. Lo sanno anche i genitori, che nel loro ‘viaggio’ quotidiano colgono i diversi tratti caratteriali dei figli. Lo sa chi ha fratelli o sorelle, chi si prende cura di genitori anziani, chi vive in società multietniche o ha rapporti con generazioni differenti.
Ma nelle aziende come è possibile trasformare la Diversity&Inclusion in un’occasione di crescita?
Lifeed lo ha chiesto ai partecipanti del suo workshop Conosci la D&I attitude della tua azienda? Scoprilo con gli HR Analytics organizzato nell’ambito del 50esimo Congresso Nazionale di Aidp, l’Associazione Italiana per la Direzione del Personale.
La Diversity è un’opportunità che diventa una ricchezza solo se gestita, altrimenti rischia di sfociare in conflitto o di non avere gli effetti sperati. In un team, è un valore aggiunto solo quando c’è consapevolezza di essa: in questo senso, le aziende non possono più limitarsi ad agire con la logica delle quote sui temi di gender equality e work-life balance. Non è sufficiente inserire elementi differenziali al proprio interno (per esempio assumere più donne o persone di etnie diverse) senza far seguire un’opportuna elaborazione, altrimenti la D&I rischia di diventare una ‘moda’. Come osserva l’Harvard Business Review, quando qualcosa diventa di moda, cessiamo di farci domande, arriviamo ad approcci semplicistici e smettiamo di cercare. Ma la D&I è molto di più.
Per il 60% dei manager intervistati nel workshop di Lifeed, la strategia di Diversity&Inclusion è utile per favorire l’attrazione di talenti, ricevere idee diverse e far sentire accolti i collaboratori, ma anche per la brand reputation, per la responsabilità sociale e infine per stimolare l’innovazione. Tuttavia, spesso i manager sono portati ad assumere collaboratori in cui ravvisano similitudini. L’omologazione è, nell’immediato, la via più semplice. Ma solo investire e lavorare sulle differenze porta a cambiamenti culturali significativi e “ricchezza”.
Per conseguire questo importante risultato serve allenamento. Tutte le competenze, anche quelle trasversali, vanno allenate: talvolta, quando pensiamo di non possederne alcune, le stiamo semplicemente cercando nel ruolo sbagliato.
Pensiamo alle numerose transizioni che attraversiamo nell’arco della nostra vita (come la pandemia) che ci rendono diversi persino da noi stessi, anche nel giro di poche settimane. Secondo le analisi di Lifeed, ognuno di noi affronta almeno una transizione ogni 14 mesi. Ciascuna è un’esplosione di energia e un arricchimento di competenze soft che, per essere messe a frutto, vanno guidate. Ciò che ci caratterizza come partner, figli, genitori può essere portato con successo in altri ruoli di vita, come quelli professionali, perché sono caratteristiche che già abbiamo, che già manifestiamo.
Queste caratteristiche vanno però riconosciute consapevolmente e adattate alla propria professionalità: si chiama transilienza, una parola che ci ricorda che non siamo blocchi monolitici, persone che, tornando a casa dal lavoro, dismettono i panni dell’impiegato, del manager, dell’insegnante e diventano madri, padri, figli, fratelli, amici. Siamo le stesse persone, nella propria complessità e interezza: dobbiamo solo imparare a trasferire le caratteristiche di un ruolo a un altro, dai contesti personali a quelli professionali e viceversa.
La diversità è una ricchezza solo per le organizzazioni che imparano da essa. La parola chiave è, dunque, ‘apprendimento’: occorre lavorare sulle diversità, senza negarle, omologarle ed appiattirle, per renderle ricchezza. La diversità va vista, riconosciuta, sottolineata e ripensata: non impariamo dall’esperienza in sé, ma dalla riflessione sull’esperienza.
Storicamente, nelle aziende la dimensione HR è quella approcciata in modo meno analitico. Ma partire da dati reali è importante quando si vuole analizzare la situazione aziendale, per apportare cambiamenti migliorativi. L’aspetto più delicato è fare le domande giuste, perché la raccolta e l’analisi dei dati non diventino limitative e controproducenti. La People Analytics di Lifeed, a partire dalle domande poste, si rivolge alle persone nella propria interezza, non solo come dipendenti. Promuove l’autonarrazione, che sostituisce stringati questionari strutturati con contenuti top-down, e analizza i dati in modo continuativo, non in momenti predefiniti della vita aziendale.
Accanto ai cosiddetti “Big data”, quelli oggettivi solitamente preferiti dalle aziende, la People Analytics di Lifeed indaga anche i dati soggettivi, detti “Small data”. Immaginiamo un iceberg, in cui i Big data sono la punta, quello che emerge. Ma, sotto il pelo dell’acqua, c’è tutto il mondo personale del professionista, tutte le competenze soft, le aspirazioni, i talenti, le dimensioni identitarie, i valori, le emozioni. Produttività, engagement, benessere aziendale, persino i comportamenti adottati sul lavoro non possono prescindere da questi aspetti. Solo prendendo consapevolezza di tutto questo è possibile valorizzare la Diversity come ricchezza, che conduce al benessere delle persone e al successo delle loro aziende.