Grazie a questo finanziamento, l’azienda co-fondata da Riccarda Zezza aumenta gli investimenti nell’AI generativa e avvia l’espansione all’estero
Milano, 2 ottobre 2024 – Lifeed, azienda di education technology che dal 2015 sta cambiando il mondo del lavoro facendo emergere le competenze soft da tutti i ruoli della vita delle persone, ha concluso con successo un bridge round di investimento, iniziato nel 2023, per un totale di 3,5 milioni di euro.
L’investimento è stato sottoscritto dal Fondo Rilancio Startup, gestito da CDP Venture Capital SGR S.p.A, da Opes Italia Sicaf Euveca, da SEFEA Impact SGR e dall’ungherese Impact Ventures, già investitore in Lifeed.
Il round di investimento consentirà da un lato il rafforzamento dell’offerta, attraverso l’utilizzo dell’AI generativa, dall’altro l’espansione in alcuni mercati esteri ad alto potenziale grazie a partnership con società leader nella human transformation. Inoltre, Lifeed punta al consolidamento del mercato italiano, dove conta già oltre 100 aziende clienti e 70.000 utenti.
Per accompagnare questa nuova fase della vita dell’azienda, entra nel board in qualità di CEO Salvatore Pugliese, già Amministratore Delegato di Brown Editore S.p.A e TF Group S.p.A che porterà importanti competenze manageriali e avvierà una nuova fase di crescita fortemente improntata sull’innovazione tecnologica, sul consolidamento del mercato italiano e sullo sviluppo internazionale.
Riccarda Zezza, che ha co-fondato l’azienda a l’ha guidata nei primi 9 anni, portandola a ottenere investimenti in Italia e all’estero e ad essere citata come una tra le pratiche più innovative e inclusive al mondo per lo sviluppo delle competenze nello studio “The skilling challenge” condotto da Ashoka e McKinsey & Company, assume il ruolo di Chief Science Officer con l’obiettivo di ampliare l’impatto scientifico e definire la strategia di ricerca e sviluppo dell’azienda, con un focus sempre maggiore sui dati e sull’impiego dell’intelligenza artificiale.
Lifeed, grazie alle sue soluzioni basate sul metodo del Life Based Learning, si presenta oggi al mercato delle organizzazioni con una piattaforma di sviluppo digitale che misura e sviluppa il pieno potenziale umano in tutta l’organizzazione: valorizzando tutte le loro competenze di vita, le aziende migliorano le performance, aumentano la retention e potenziano l’engagement delle persone.
Gli algoritmi alla base della piattaforma, permettono di costruire un’esperienza personalizzata per ogni utente, strutturata in tre fasi: scoperta, attivazione e misurazione.
La piattaforma è mobile-first, si avvale dell’intelligenza artificiale per un viaggio formativo immersivo ad alto tasso di completamento (+90%) garantendo alle funzioni HR la misurazione quantitativa dei risultati raggiunti nello sviluppo del potenziale umano, anche ai fini delle certificazioni e dei report ESG.
“Questo bridge round di investimento proietta Lifeed in un piano di sviluppo ambizioso che è stato colto pienamente dai nostri partner e che ci consentirà di proiettarci al 2025 con l’apertura di nuovi mercati, alcuni già identificati come il Messico, il Regno Unito e la Svizzera, altri ancora da identificare. Ho deciso di affrontare questa sfida perché sono convinto che in un mondo sempre più “AI-centrico”, freneticamente improntato alla ricerca di automazione di processi ed operazioni ci siano delle capacità umane che non saranno mai sostituite: empatia, creatività, pensiero critico, ad esempio. Il mio obiettivo è quello di lavorare con Riccarda Zezza e con un team di grande valore per offrire al mercato una piattaforma rivoluzionaria capace di misurare il potenziale dei talenti dando all’AI il giusto ruolo di co-pilota, e non di pilota assoluto” – ha dichiarato Salvatore Pugliese, CEO di Lifeed.
“Sono molto orgogliosa di questo traguardo e so che l’ingresso di Salvatore Pugliese porterà Lifeed in una nuova fase di crescita : si tratta di un “passaggio generazionale”, quello tra i fondatori e un top management qualificato, che solo le startup più fortunate possono permettersi quando puntano alla fase di “scaleup” – e ci riesce meno del 5% delle startup*, quindi abbiamo ragione di festeggiare.
Noi puntiamo tutto sullo sviluppo umano: la parte “soft” su cui sembra meno facile avere un impatto, ma che poi ha a sua volta un impatto su tutto il resto. Lo facciamo con una rivoluzione nella formazione: un’esperienza di apprendimento che si adatta alla vita delle persone, e la trasforma in una palestra di formazione continua di competenze soft. Questo metodo rompe gli stereotipi che limitano le capacità delle cosiddette “minoranze” , arrivando a raddoppiare produttività, coinvolgimento e leadership di donne, giovani, ageing workforce, genitori, caregiver e returner” – ha concluso Riccarda Zezza, Founder di Lifeed.
Il round di investimento e il piano di sviluppo arrivano a 10 anni dall’uscita in libreria di Maam, maternity as a Master, il libro scritto da Riccarda Zezza che ha gettato le basi del modello di Lifeed, avviando l’avventura imprenditoriale e di innovazione del mercato del lavoro dell’autrice, che oggi si rinnova ulteriormente anche grazie al potenziale offerto dall’AI.
Oggi le sfide principali del mercato del lavoro sono rappresentate da fenomeni come Talent shortage, Intelligenza Artificiale (AI) e reskilling, Grandi dimissioni e Quiet quitting. Questi trend si traducono nel crescente malessere e distacco delle persone dal lavoro, in particolare da parte delle giovani generazioni. La Direzione HR è chiamata a rispondere a tali sfide per migliorare i livelli di benessere, engagement e inclusione e per garantire la sostenibilità futura delle imprese.
Queste criticità e le possibili soluzioni sono state approfondite nella ricerca 2023-24 dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, di cui Lifeed è partner. Dalla ricerca è emerso che oggi lo skill mismatch e il malessere sono ampiamente diffusi tra le aziende, che nell’88% dei casi faticano ad attrarre e trattenere i talenti. Solo il 9% delle persone dichiara di stare bene sul lavoro e solo il 5% afferma di essere pienamente ingaggiato e felice in azienda.
In parallelo, il 42% dei dipendenti ha cambiato o intende cambiare lavoro nel prossimo anno (un dato che sale al 65% per i più giovani). Al posto della retribuzione, oggi stare bene al lavoro rappresenta la richiesta fondamentale da parte delle persone (36%), soprattutto quelle appartenenti alla Generazione Z. Investire in iniziative che promuovono il coinvolgimento, il benessere e lo sviluppo di competenze delle persone è quindi urgente e strategico per la competitività delle imprese.
Tra le sfide principali della Direzione HR c’è quella di rispondere alle esigenze delle diverse generazioni che oggi convivono nelle aziende. Come illustrato da Martina Borsato, Responsabile dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, da una parte si sta allungando la vita professionale dei lavoratori più senior, dall’altra cresce il peso delle generazioni più giovani che stanno cambiando le regole del lavoro.
A cambiare è il concetto di carriera, non più esclusivamente legata al successo professionale; cambia anche l’approccio alla gestione del rapporto tra vita lavorativa e vita privata, che diventa più fluido. Azioni per garantire l’occupabilità, flessibilità nel decidere orario e luogo di lavoro e attenzione al benessere fisico e mentale sono i fattori di attrattività emergenti per i più giovani.
In questo scenario, le aziende hanno l’occasione di trasformare il divario tra generazioni in un’opportunità di apprendimento e innovazione per tutti. Ciò è possibile se si superano i pregiudizi legati all’età e se si individuano e valorizzano le aree di sinergia tra le diverse generazioni, come le competenze complementari e quelle nascoste nei ruoli di vita personali.
Proprio nell’ambito delle competenze, un altro trend del mondo del lavoro riguarda il loro sviluppo in azienda. Non si tratta delle cosiddette hard skill, bensì delle competenze trasversali (o soft) che secondo il World Economic Forum rappresentano le competenze-chiave del futuro. Dalle ricerche dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed emerge che il 70% di queste competenze viene allenato nei ruoli di vita personali, fuori dal lavoro. Come non sprecare questo potenziale in azienda?
Solo considerando le persone in tutte le loro dimensioni identitarie, private e professionali, questo potenziale umano può essere trasferito sul lavoro e sviluppato con benefici sia per i singoli individui sia per le aziende in termini di benessere, retention, produttività e coinvolgimento.
Con le sue soluzioni digitali innovative e il suo metodo scientifico proprietario, Lifeed trasforma le esperienze di vita in opportunità di crescita personale e professionale. Vuoi scoprire come sviluppare tutte le competenze trasversali delle persone in azienda? Consulta il whitepaper qui sotto.
Nel 2019 se ne contavano appena 570mila. Nel periodo più duro del lockdown sono arrivati a superare la soglia di 6 milioni, per poi ridursi nell’arco degli ultimi mesi a poco più di 4 milioni. Secondo le stime dell’Osservatorio sullo Smart working del Politecnico di Milano, nel periodo post pandemia in Italia ci saranno 4 milioni 380mila smart worker, l’8% in più di quanti se ne contano oggi. E la diffusione del modello di lavoro agile farà ancora la differenza in termini di sostenibilità economica, ambientale e sociale.
La stima è basata sui piani elaborati dalle aziende per i prossimi mesi. Le organizzazioni si stanno dividendo tra quante, pur volendo bilanciare presenza in ufficio e lavoro a distanza, stanno cercando di consolidare i modelli sperimentati durante la pandemia e quante sembrano invece voler procedere in senso opposto, cercando un ritorno alle precedenti modalità di lavoro.
Rispetto al picco del 2020, dunque, nei prossimi mesi ci saranno 2,5 milioni di smart worker in meno. “Stiamo diminuendo il benessere e frustrando le aspettative di milioni di lavoratori che hanno compreso che un modo diverso di lavorare è possibile e spesso straordinariamente appagante ed efficace. Stiamo rinunciando a creare un mondo del lavoro, una società e territori più attrattivi e inclusivi”, ha sottolineato Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart working. “Si sono create opposte tifoserie pro e contro lo Smart working, assimilandolo di fatto al lavoro ‘forzato’ da casa e non invece alla ricerca di equilibri più adatti al contesto”.
Dopo il grande esperimento di lavoro a distanza vissuto nei mesi del lockdown, le organizzazioni hanno dovuto adattarsi. Nelle grandi imprese è aumentato il numero di progetti strutturati: l’81% ne ha almeno uno e vede di buon occhio l’adozione di policy ad hoc per definirne i confini. Nove imprese su 10 puntano, così, a proseguire l’esperienza. Nelle Pmi è prevalso, invece, un approccio informale, favorito dalla minor complessità organizzativa. Il 44% delle Piccole e medie imprese si dichiara, però, disinteressata al fenomeno: una Pmi su tre abbandonerà lo Smart working, frenata dalla difficoltà di conciliare attività e remotizzazione e dall’assenza di processi digitalizzati.
Eppure, il lavoro non è un luogo, ma un risultato. Come dice Pierroberto Folgiero, CEO Maire Tecnoimenont, occorre separare il concetto di obiettivo dalla necessità di mostrare il badge. “La vera frontiera dello Smart working non sta tanto nel convincere il collega a cambiare il luogo in cui svolge la sua attività, ma nel cambiare il paradigma manageriale e il mondo in cui i capi sono abituati organizzare il lavoro dei collaboratori”.
Anche il mondo del welfare e del caring del dipendente va ripensato. Secondo Stefano Trombetta, Talent & Organization Lead di Accenture Strategy & Consulting, occorre tenere a mente che non esiste più soltanto un dipendente fisico, ma c’è anche un dipendente digitale. “Il nostro ‘io fisico’ ha alle spalle anni di performance, il ‘gemello digitale’ invece è ancora neonato e va accompagnato nel suo percorso di crescita e miglioramento”. Nella nuova dimensione del lavoro servono leader consapevoli e positivi, che si mostrino coerenti con i valori aziendali nella loro leadership quotidiana. Dentro ogni azienda convivono diversi profili di persone: tenerne conto significa saper leggere e rispondere a bisogni diversi.
In questo senso, l’esperienza vissuta nella pandemia è stata utile per rivalutare i modelli organizzativi di luogo e di orario in modo più coerente con le esigenze dell’organizzazione e delle sue persone. Più della metà delle grandi imprese ha riscontrato una crescita dell’efficienza e dell’efficacia nel lavoro e nove aziende su 10 hanno visto progressi significativi nel work-life balance dei collaboratori.
A risentire dell’introduzione del lavoro da remoto, invece, sono stati soprattutto la comunicazione tra colleghi e i livelli di engagement. Abituati a vivere gli scambi in modo spontaneo e meno strutturato, i lavoratori hanno dovuto fare uno sforzo in più per condividere informazioni e conoscenza anche fuori dall’ufficio. Il contesto pandemico, poi, ha influito negativamente sul coinvolgimento, a prescindere dalla modalità di lavoro adottata.
Confrontando le percezioni di smart worker e lavoratori che hanno continuato a lavorare in sede, l’Osservatorio del Politecnico ha riscontrato un impatto negativo molto simile, con rispettivamente soltanto il 7% e il 6% di persone che si è sentito pienamente ingaggiato. Gli smart worker hanno sofferto di più di overworking (dedicando un’elevata quantità di tempo alle attività lavorative e trascurando i momenti di riposo) e del cosiddetto tecno-stress. Un lavoratore su quattro ha subito un impatto negativo a livello comportamentale o psicologico a causa del frequente ricorso alle tecnologie.
Nonostante le difficoltà, i benefici di lavorare almeno in parte da remoto restano evidenti. Il contesto ibrido ha facilitato l’apprendimento di nuove competenze digitali, sia in chi ha operato da casa sia in chi si è dovuto interfacciare dalla sede di lavoro con i colleghi a distanza. Il 42% degli smart worker ritiene di aver migliorato le proprie digital soft skill e lo stesso vale per il 25% degli altri lavoratori. Tra i benefici del lavoro ibrido, l’Osservatorio evidenzia proprio l’inclusione di persone con diversa propensione e abilità nell’utilizzo delle tecnologie digitali.
Secondo i dati raccolti, lo Smart working si rivela di supporto alla genitorialità e a quanti si prendono cura di persone anziane o non autosufficienti in più di otto casi su 10. Inoltre facilita l’inclusione di persone che vivono lontano dalla sede lavorativa, di neoassunti e persone con disabilità e contribuisce alla valorizzazione dei talenti. Senza dimenticare gli effetti sull’ambiente: applicare lo Smart working per una media di 2,5 giorni alla settimana si traduce in un risparmio annuo di 123 ore di commuting (il tragitto da casa all’ufficio), pari a 1,8 milioni di tonnellate di CO2.
Alla luce dell’esperienza degli ultimi mesi, un lavoratore su tre non vorrebbe tornare a lavorare in ufficio. La maggioranza comprende i benefici della presenza e preferirebbe passare al lavoro ibrido. “Questa eterogeneità è una sfida importante per le imprese”, sottolinea Corso. “Con lo spettro della Great resignation e il 40% dei lavoratori che vorrebbe cambiare lavoro nei prossimi sei mesi, non porsi il problema si rivela una strategia miope. E definire policy uguali per tutti potrebbe non essere una risposta sufficiente”.