Oggi le sfide principali del mercato del lavoro sono rappresentate da fenomeni come Talent shortage, Intelligenza Artificiale (AI) e reskilling, Grandi dimissioni e Quiet quitting. Questi trend si traducono nel crescente malessere e distacco delle persone dal lavoro, in particolare da parte delle giovani generazioni. La Direzione HR è chiamata a rispondere a tali sfide per migliorare i livelli di benessere, engagement e inclusione e per garantire la sostenibilità futura delle imprese.
Queste criticità e le possibili soluzioni sono state approfondite nella ricerca 2023-24 dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, di cui Lifeed è partner. Dalla ricerca è emerso che oggi lo skill mismatch e il malessere sono ampiamente diffusi tra le aziende, che nell’88% dei casi faticano ad attrarre e trattenere i talenti. Solo il 9% delle persone dichiara di stare bene sul lavoro e solo il 5% afferma di essere pienamente ingaggiato e felice in azienda.
In parallelo, il 42% dei dipendenti ha cambiato o intende cambiare lavoro nel prossimo anno (un dato che sale al 65% per i più giovani). Al posto della retribuzione, oggi stare bene al lavoro rappresenta la richiesta fondamentale da parte delle persone (36%), soprattutto quelle appartenenti alla Generazione Z. Investire in iniziative che promuovono il coinvolgimento, il benessere e lo sviluppo di competenze delle persone è quindi urgente e strategico per la competitività delle imprese.
Tra le sfide principali della Direzione HR c’è quella di rispondere alle esigenze delle diverse generazioni che oggi convivono nelle aziende. Come illustrato da Martina Borsato, Responsabile dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, da una parte si sta allungando la vita professionale dei lavoratori più senior, dall’altra cresce il peso delle generazioni più giovani che stanno cambiando le regole del lavoro.
A cambiare è il concetto di carriera, non più esclusivamente legata al successo professionale; cambia anche l’approccio alla gestione del rapporto tra vita lavorativa e vita privata, che diventa più fluido. Azioni per garantire l’occupabilità, flessibilità nel decidere orario e luogo di lavoro e attenzione al benessere fisico e mentale sono i fattori di attrattività emergenti per i più giovani.
In questo scenario, le aziende hanno l’occasione di trasformare il divario tra generazioni in un’opportunità di apprendimento e innovazione per tutti. Ciò è possibile se si superano i pregiudizi legati all’età e se si individuano e valorizzano le aree di sinergia tra le diverse generazioni, come le competenze complementari e quelle nascoste nei ruoli di vita personali.
Proprio nell’ambito delle competenze, un altro trend del mondo del lavoro riguarda il loro sviluppo in azienda. Non si tratta delle cosiddette hard skill, bensì delle competenze trasversali (o soft) che secondo il World Economic Forum rappresentano le competenze-chiave del futuro. Dalle ricerche dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed emerge che il 70% di queste competenze viene allenato nei ruoli di vita personali, fuori dal lavoro. Come non sprecare questo potenziale in azienda?
Solo considerando le persone in tutte le loro dimensioni identitarie, private e professionali, questo potenziale umano può essere trasferito sul lavoro e sviluppato con benefici sia per i singoli individui sia per le aziende in termini di benessere, retention, produttività e coinvolgimento.
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Nel 2019 se ne contavano appena 570mila. Nel periodo più duro del lockdown sono arrivati a superare la soglia di 6 milioni, per poi ridursi nell’arco degli ultimi mesi a poco più di 4 milioni. Secondo le stime dell’Osservatorio sullo Smart working del Politecnico di Milano, nel periodo post pandemia in Italia ci saranno 4 milioni 380mila smart worker, l’8% in più di quanti se ne contano oggi. E la diffusione del modello di lavoro agile farà ancora la differenza in termini di sostenibilità economica, ambientale e sociale.
La stima è basata sui piani elaborati dalle aziende per i prossimi mesi. Le organizzazioni si stanno dividendo tra quante, pur volendo bilanciare presenza in ufficio e lavoro a distanza, stanno cercando di consolidare i modelli sperimentati durante la pandemia e quante sembrano invece voler procedere in senso opposto, cercando un ritorno alle precedenti modalità di lavoro.
Rispetto al picco del 2020, dunque, nei prossimi mesi ci saranno 2,5 milioni di smart worker in meno. “Stiamo diminuendo il benessere e frustrando le aspettative di milioni di lavoratori che hanno compreso che un modo diverso di lavorare è possibile e spesso straordinariamente appagante ed efficace. Stiamo rinunciando a creare un mondo del lavoro, una società e territori più attrattivi e inclusivi”, ha sottolineato Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart working. “Si sono create opposte tifoserie pro e contro lo Smart working, assimilandolo di fatto al lavoro ‘forzato’ da casa e non invece alla ricerca di equilibri più adatti al contesto”.
Dopo il grande esperimento di lavoro a distanza vissuto nei mesi del lockdown, le organizzazioni hanno dovuto adattarsi. Nelle grandi imprese è aumentato il numero di progetti strutturati: l’81% ne ha almeno uno e vede di buon occhio l’adozione di policy ad hoc per definirne i confini. Nove imprese su 10 puntano, così, a proseguire l’esperienza. Nelle Pmi è prevalso, invece, un approccio informale, favorito dalla minor complessità organizzativa. Il 44% delle Piccole e medie imprese si dichiara, però, disinteressata al fenomeno: una Pmi su tre abbandonerà lo Smart working, frenata dalla difficoltà di conciliare attività e remotizzazione e dall’assenza di processi digitalizzati.
Eppure, il lavoro non è un luogo, ma un risultato. Come dice Pierroberto Folgiero, CEO Maire Tecnoimenont, occorre separare il concetto di obiettivo dalla necessità di mostrare il badge. “La vera frontiera dello Smart working non sta tanto nel convincere il collega a cambiare il luogo in cui svolge la sua attività, ma nel cambiare il paradigma manageriale e il mondo in cui i capi sono abituati organizzare il lavoro dei collaboratori”.
Anche il mondo del welfare e del caring del dipendente va ripensato. Secondo Stefano Trombetta, Talent & Organization Lead di Accenture Strategy & Consulting, occorre tenere a mente che non esiste più soltanto un dipendente fisico, ma c’è anche un dipendente digitale. “Il nostro ‘io fisico’ ha alle spalle anni di performance, il ‘gemello digitale’ invece è ancora neonato e va accompagnato nel suo percorso di crescita e miglioramento”. Nella nuova dimensione del lavoro servono leader consapevoli e positivi, che si mostrino coerenti con i valori aziendali nella loro leadership quotidiana. Dentro ogni azienda convivono diversi profili di persone: tenerne conto significa saper leggere e rispondere a bisogni diversi.
In questo senso, l’esperienza vissuta nella pandemia è stata utile per rivalutare i modelli organizzativi di luogo e di orario in modo più coerente con le esigenze dell’organizzazione e delle sue persone. Più della metà delle grandi imprese ha riscontrato una crescita dell’efficienza e dell’efficacia nel lavoro e nove aziende su 10 hanno visto progressi significativi nel work-life balance dei collaboratori.
A risentire dell’introduzione del lavoro da remoto, invece, sono stati soprattutto la comunicazione tra colleghi e i livelli di engagement. Abituati a vivere gli scambi in modo spontaneo e meno strutturato, i lavoratori hanno dovuto fare uno sforzo in più per condividere informazioni e conoscenza anche fuori dall’ufficio. Il contesto pandemico, poi, ha influito negativamente sul coinvolgimento, a prescindere dalla modalità di lavoro adottata.
Confrontando le percezioni di smart worker e lavoratori che hanno continuato a lavorare in sede, l’Osservatorio del Politecnico ha riscontrato un impatto negativo molto simile, con rispettivamente soltanto il 7% e il 6% di persone che si è sentito pienamente ingaggiato. Gli smart worker hanno sofferto di più di overworking (dedicando un’elevata quantità di tempo alle attività lavorative e trascurando i momenti di riposo) e del cosiddetto tecno-stress. Un lavoratore su quattro ha subito un impatto negativo a livello comportamentale o psicologico a causa del frequente ricorso alle tecnologie.
Nonostante le difficoltà, i benefici di lavorare almeno in parte da remoto restano evidenti. Il contesto ibrido ha facilitato l’apprendimento di nuove competenze digitali, sia in chi ha operato da casa sia in chi si è dovuto interfacciare dalla sede di lavoro con i colleghi a distanza. Il 42% degli smart worker ritiene di aver migliorato le proprie digital soft skill e lo stesso vale per il 25% degli altri lavoratori. Tra i benefici del lavoro ibrido, l’Osservatorio evidenzia proprio l’inclusione di persone con diversa propensione e abilità nell’utilizzo delle tecnologie digitali.
Secondo i dati raccolti, lo Smart working si rivela di supporto alla genitorialità e a quanti si prendono cura di persone anziane o non autosufficienti in più di otto casi su 10. Inoltre facilita l’inclusione di persone che vivono lontano dalla sede lavorativa, di neoassunti e persone con disabilità e contribuisce alla valorizzazione dei talenti. Senza dimenticare gli effetti sull’ambiente: applicare lo Smart working per una media di 2,5 giorni alla settimana si traduce in un risparmio annuo di 123 ore di commuting (il tragitto da casa all’ufficio), pari a 1,8 milioni di tonnellate di CO2.
Alla luce dell’esperienza degli ultimi mesi, un lavoratore su tre non vorrebbe tornare a lavorare in ufficio. La maggioranza comprende i benefici della presenza e preferirebbe passare al lavoro ibrido. “Questa eterogeneità è una sfida importante per le imprese”, sottolinea Corso. “Con lo spettro della Great resignation e il 40% dei lavoratori che vorrebbe cambiare lavoro nei prossimi sei mesi, non porsi il problema si rivela una strategia miope. E definire policy uguali per tutti potrebbe non essere una risposta sufficiente”.