Oggi nel mondo del lavoro i livelli di coinvolgimento e soddisfazione sono ai minimi storici, mentre quelli relativi a stress e burnout sono in costante aumento.
Dopo la pandemia, il ‘sistema’ basato su regole, dinamiche e stereotipi del passato ha definitivamente smesso di funzionare. Le persone oggi cercano un nuovo senso del lavoro nel quale tornare a mettere la propria passione, il proprio cuore.
In un mondo sempre più dipendente dalla tecnologia, dagli algoritmi e dall’Intelligenza Artificiale (AI), la sfida è quella di riumanizzare il lavoro per migliorare i livelli di benessere e coinvolgimento e far tornare le persone ad “amare” quello che fanno.
Per raggiungere questo obiettivo, la leadership delle aziende è chiamata ad ampliare la mappa con cui cui guarda alle persone: ciò significa valorizzare tutti i ruoli di vita e di lavoro, tutti i talenti che rendono uniche le persone.
Solo con questo sguardo innovativo, le imprese riusciranno a creare le condizioni per far prosperare le persone e per liberare tutto il loro potenziale, con benefici per la sostenibilità umana dell’intera organizzazione.
Di tutto questo si è discusso nel Caring Company Summit 2023 promosso da Lifeed, dal titolo La sfida dell’umano, che ha riunito manager ed esperti delle organizzazioni per condividere visioni ed esperienze sul mondo del lavoro.
In particolare, dal dialogo tra Riccarda Zezza, CEO di Lifeed e autrice di Cuore Business. Per una nuova storia d’amore tra persone e lavoro, e Tomas Chamorro-Premuzic, psicologo, professore e autore di I, Human: AI, Automation, and the Quest to Reclaim What Makes Us Unique è emerso che oggi ci troviamo di fronte a una sfida epocale: l’AI sta condizionando sempre di più le persone, i loro comportamenti, il loro modo di pensare e di vivere le relazioni con gli altri.
In un contesto in cui la maggior parte delle decisioni è influenzata dagli algoritmi (con notevoli rischi di superficialità e prevedibilità), tornare a essere umani significa fare spazio alla creatività, alla capacità critica, alla curiosità e all’unicità di ognuno.
Nel corso dell’evento Lucia Monaci, Head of Development Italy and DE&I Manager Italy di UniCredit ha spiegato come è possibile valorizzare l’identità delle persone raccontando il caso concreto dell’azienda attraverso il progetto Talento Diffuso.
Riccarda Zezza, CEO e fondatrice di Lifeed, torna in libreria con C(u)ore business. Per una nuova storia d’amore tra persone e lavoro (edito da Il Sole 24 Ore), per proporre una rivoluzione culturale nel mondo del lavoro e nel rapporto tra persone e organizzazioni.
Un potente manifesto per riflettere su come i ruoli delle persone, dalla vita privata al lavoro, influenzino le carriere, i modelli di leadership e l’intera società. Al centro di questa ridefinizione della relazione tra persone e lavoro c’è la cura, nella quale portiamo amore, emozioni e visione a lungo termine: non solo nelle esperienze di vita privata, ma anche in quelle professionali.
Portare nel lavoro solo una delle nostre dimensioni, quella produttiva, non basta più. Oggi il mondo del lavoro ha bisogno di cura, sostenibilità, nuove relazioni: una dimensione d’amore che viviamo già in altri ambiti della nostra vita.
“Scientificamente, si è scoperto da tempo che ricoprire ruoli diversi genera un arricchimento del sé, non un conflitto. Avere più ruoli (genitore, figlio, marito, manager, volontario, collega, ecc), aumenta la quantità complessiva delle risorse a disposizione delle persone, in un insieme che è maggiore della somma delle parti. Di questo però non si parla molto, e infatti non capita mai che ci chiedano quali parti di noi portiamo sul lavoro“, dichiara Riccarda Zezza.
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Secondo l’analisi condotta dall’Osservatorio Vita-Lavoro di Lifeed “gli uomini non percepiscono più il ruolo lavorativo come preponderante nella loro vita: si sentono infatti in primis padri (71%) e solo dopo professionisti (42%). Genitorialità, relazione, cura, sono gli aspetti ora maggiormente rilevanti per il mondo maschile. Questi elementi sono ormai intorno a noi, permeano la società. Estendere il congedo di paternità vuol dire riconoscere queste mutazioni sociali e dargli un nome. Tuttavia non bisogna illudersi. La strada verso il diritto alla parità nell’esercizio della genitorialità è ancora lunga e i padri lo sanno quanto le madri”.
È questo il commento di Riccarda Zezza, CEO e co-fondatrice di Lifeed, intervenuta alla conferenza stampa presso la Camera dei Deputati sul congedo di paternità alla quale hanno preso parte i deputati Alessandro Fusacchia, Erasmo Palazzotto, Rossella Muroni e Lia Quartapelle, Valeria Ronzitti del direttivo Movimenta, Maura Latini (AD COOP), Silvio Petta (founder di Superpapà), Veronica Benini (imprenditrice e attivista) e Paola Mascaro (Presidente Valore D).
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Riccarda Zezza nel corso del suo intervento ha potuto illustrare alcune evidenze emerse dall’analisi delle riflessioni dei partecipanti ai percorsi di Lifeed da cui emerge anche come la ridefinizione dei propri ruoli sociali, delle proprie priorità e delle proprie capacità è stata amplificata e velocizzata dal lockdown e dalla pandemia.
“Questi eventi hanno fatto progredire la percezione di ciò che siamo e di ciò che ci circonda. Un cambiamento che ha toccato anche l’universo maschile. Per il 40% dei padri coinvolti nella piattaforma Lifeed la pratica di ruoli di cura sviluppa soprattutto due importanti capacità: la paternità ha migliorato in più del 60% creatività e capacità di innovare; la cura dei genitori anziani, invece, li ha portati a sviluppare e applicare maggiormente responsabilità ed empatia”, ha concluso Zezza.
Ogni essere umano, per sua natura, vuole apprendere. L’etimologia stessa della parola rimanda all’idea di movimento, a una tensione al servizio di un desiderio. Quando impariamo qualcosa di nuovo, trasformiamo ciò che riceviamo sotto forma di input esterno in conoscenza. La nostra mente non è un contenitore vuoto, pronto a ricevere nozioni, ma un meccanismo in continuo movimento, che crea legami significativi fra concetti. Apprendiamo soltanto ciò che è significativo per la nostra vita, qui e adesso.
Ecco perché l’apprendimento non può esser concepito soltanto come una preparazione per il futuro, ma va calato nella realtà del nostro presente. Fare dell’ascolto e dell’osservazione delle esperienze di vita un’occasione di apprendimento significa mettersi alla ricerca di un senso in ciò che facciamo ogni giorno. E la formazione ci aiuta in questo, a partire dalla scuola e fino ad arrivare al mondo dell’impresa, offrendoci la grande opportunità di diventare non dipendenti, ma costruttori di senso.
Ne ha parlato Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, in occasione del CEO Meeting, l’evento di presentazione dei progetti per il nuovo semestre del Consorzio Elis, organizzazione che riunisce aziende e CEO per realizzare iniziative di innovazione tecnologica e di interesse pubblico con lo scopo di facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro e promuovere una cultura professionale attenta alla persona e al bene comune. Alle scuole come alle startup, secondo Zezza, servono “coraggio, cuore e testa per creare l’innovazione di cui c’è bisogno. Oggi, non nel futuro”.
In base allo European Skill Index, nel 2020 l’Italia si è posizionata ultima in Europa per capacità di formare competenze per il mercato professionale. Tre indicatori, in particolare, penalizzano il nostro Paese: lo sviluppo delle skill, la transizione dal mondo della formazione a quello del lavoro e lo skill mismatching. La formazione del capitale umano in Italia conserva ancora un’impronta quasi esclusivamente culturale: nasce con l’obiettivo di diffondere conoscenze e competenze, ma non riesce a coniugare l’eccellenza culturale con un’impronta professionalizzante.
Anche nel mondo della formazione, va superata la dicotomia tra cuore e mente ormai rinnegata dalle neuroscienze. Come spiega Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dell’Educazione e dello Sviluppo all’Università di Padova, ogni persona è in realtà un grande radar che apprende non solo con la mente, ma anche con lo sguardo, la voce e il tocco. Dobbiamo passare dall’idea di cura, intesa come momento legato a una patologia o a una difficoltà, a quella di cura nel senso del verbo inglese care, ovvero come ‘stare a cuore’. Va superato il bias che guarda alla mente di chi si predispone all’apprendimento come a un frigorifero da riempire: una volta inserita l’informazione, ci si aspetta che questa rimanga immutata e venga restituita così come è stata trasmessa. Ciò preclude la possibilità di sviluppare il pensiero divergente ed elimina la capacità co-costruttiva delle persone.
Al contrario, sono questi gli aspetti che vanno stimolati. Secondo Marco Alverà, CEO di Snam e presidente della Comunità Consortile Elis per il nuovo semestre, il capitale umano è l’asset più prezioso su cui costruire il futuro. Chi fa impresa si occupa di futuro per definizione e deve quindi investire sul capitale umano, costruendo nuovi modelli educativi. L’80% dei mestieri del futuro saranno diversi da quelli che conosciamo oggi e per svolgerli serviranno competenze nuove, tecniche, soft e trasversali. Per Silvia Candiani, Country General Manager di Microsoft Italia, la capacità chiave oggi è il problem solving: per gestire un problema, occorre non solo aver appreso le giuste nozioni di base, ma saperle anche applicare per risolvere le situazioni.
Anche dentro le imprese bisogna, quindi, tornare a fare le domande giuste. Perché la transizione tanto evocata nel presente ci accompagnerà ancora a lungo: come ricorda Marco Sesana, Country Manager & CEO di Generali Italia e Global Business Lines, per ogni euro speso dalle aziende nel progetto di formazione Mindset revolution, promosso dal Consorzio Elis, si sono prodotti 3,08 euro di valore aggiunto. La formazione, dunque, triplica i risultati, ma insegna anche che coltivare le relazioni significa creare valore per le proprie imprese.
Esiste, d’altronde, una nuova generazione di imprenditori che non guarda soltanto ai risultati finanziari, ma misura anche il valore di ciò che mette in atto e l’impatto ambientale e sociale delle proprie azioni. Secondo Leonardo Becchetti, Economista e docente all’Università Tor Vergata di Roma, oggi la vera rivoluzione sta nei concetti di generatività e impatto. Esistono quattro variabili che fanno la differenza all’interno delle aziende, anche da un punto di vista economico: team working, capacità di coinvolgere gli stakeholder, attenzione al welfare aziendale e abilità nel relazionarsi con il territorio attribuiscono un valore aggiuntivo stimato in 22mila euro per addetto.
Nel corso del CEO Meeting si sono collegati, dalle sette palestre relazionali in cinque diverse città italiane, i 300 pionieri di “Smart Alliance”, il progetto di semestre guidato da Walter Ruffinoni, CEO di NTT DATA Italia, che in queste settimane è entrato nel vivo e sta sperimentando una “terza via” tra ufficio e lavoro da casa, condividendo spazi di lavoro diffusi e accrescendo competenze e relazioni personali.
“Siamo partiti da tre settimane – ha detto Ruffinoni – e i feedback sono decisamente positivi: le persone apprezzano tantissimo la possibilità di tornare a tessere relazioni, di contaminarsi con culture ed esperienze diverse e dialogare con il territorio in cui vivono”.
La relazione, dunque, è un valore in sé, ma ha anche un risvolto in termini di benefici economici. Scambiare conoscenza e costruire legami di qualità è il modo migliore per generare nuovo valore, per sé e per la propria impresa. Oggi il driver di cambiamento è la generatività. Questa conosce quattro verbi: desiderare, far nascere, accompagnare e lasciar andare. Per trasformare davvero le persone in creatori di senso, la strada migliore da intraprendere è far nascere in loro il desiderio di fare e – ancora prima – di apprendere.
Come è possibile lanciare un’impresa di successo? Non c’è una risposta unica a questa domanda e le variabili, si sa, sono moltissime. Ma ci sono alcuni consigli che si possono tenere a mente per iniziare un’avventura imprenditoriale che, metaforicamente, è come mettere al mondo un figlio.
“Desiderare, concepire, prendersi cura, lasciar andare”. Con queste parole chiave Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, ha ispirato i partecipanti dell’evento di Welcome di Switch2Product PoliHub, il programma di innovazione del Politecnico di Milano per supportare i giovani startupper. Ecco il testo integrale dello speech:
Desiderare
Tra sentire una mancanza
E sognare
“De-sidera” vuol dire senza stelle
Vuol dire accorgersi che nel cielo manca qualcosa
E che potremmo mettercelo proprio noi
Desiderare richiede Coraggio:
il desiderio guarda sempre lontano,
E’ nutrito dal senso della possibilità
Ma anche dalla conoscenza, dalla costanza, dalla passione
Concepire
Vuol dire mettersi in gioco
Creare occasioni
Spargere semi in modo generoso e non casuale
Non ogni seme andrà a frutto
E fioriranno forse i più inaspettati
Molti semi andranno perduti
Occorre errare molto, per poter concepire
Essere generosi di sé in modo quasi irragionevole
Non avere paura
Quanti errori fatti: ma sono stati davvero errori? E i prossimi, grandi che mi attendono: quali saranno?
Prendersi cura
Quel che nasce è fragilissimo
Richiede cura
Richiede attenzione, costanza, alleanze
Una cura che cambia e cresce con l’azienda, con le persone
Che non è mai uguale
Ma che alla base resta “cor-urat” – dal sanscrito “scalda il cuore” perché è vicino, prossimo, terrestre, quotidiano
Cuore
E rispondere ogni mattina alla domanda: sono dove voglio essere? Sto facendo quel che mi viene bene? So perché lo faccio?
Lasciar andare
È il movimento più difficile, ma tutto il resto deve prevederlo sin da subito, dal primo giorno
Crescere persone o progetti perché siano più forti di noi
Perché ci sopravvivano
Per fondare il mondo che sarà, e perché sia un mondo migliore
Lasciar andare: rendersi dispensabili
E scoprire la forza che un ego più piccolo, meno vulnerabile
Sa dare
Le aziende sono sempre più attive nella promozione di iniziative di Diversity&Inclusion, che hanno benefici sia per le singole persone sia per il business delle imprese stesse. Ma, per una volta, ci si può soffermare sull’etimologia della parola “inclusione” e riflettere su di essa.
“Inclusione” rimanda alla chiusura dentro uno spazio predefinito. Oggi però, soprattutto a causa degli effetti della pandemia sulle nostre vite, è evidente l’ampiezza delle nostre dimensioni identitarie. Questa multidimensionalità ha abbattuto i confini spazio-temporali e i muri di uffici e case nel periodo di lavoro da remoto ed è ormai realtà: per questo motivo, è il momento di provare a sostituire la parola “inclusione” con “apertura”.
Attraverso la scoperta e il racconto agli altri di sé, e rompendo i tabù del passato, le persone diventano più consapevoli delle proprie dimensioni identitarie e tratti caratteriali. Questo le rende più bravi sul lavoro, oltre che ingaggiate e felici. E le aziende possono avere a disposizione mappe più ampie riguardo alle loro persone. Solo allargando lo sguardo a ciò che è diverso e complesso, infatti, le imprese possono beneficiare di questa “apertura” sia a livello individuale sia di performance collettiva.
Lo ha raccontato Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nel corso della tavola rotonda Organizzazioni per le persone o persone per le organizzazioni? nell’ambito del 50esimo Congresso Nazionale di Aidp, a cui hanno partecipato anche Michele Viale, Direttore Generale di Alstom Italia e Svizzera, Marco Piccolo CEO di Reynaldi, Delegato CSR Confindustria Piemonte ed Elena Caffarena Senior Partner di Praxi.
Dal confronto è emerso inoltre come, oggi più che mai, ci sia una forte convergenza di interessi tra persone e aziende. Per questo, non bisognerebbe mettere in antitesi le architetture organizzative e le persone che ne fanno parte. Proprio facendo emergere le differenze delle persone (e cambiando il nostro comportamento in relazione al nostro interlocutore) è possibile ottenere migliori risultati.
D’altra parte, il modello taylorista non ha più senso nella nostra società. Il tempo di lavoro va valorizzato in relazione al tempo di vita e le aziende sono chiamate ad avere una vocazione di responsabilità verso il proprio territorio, supportando le persone e guardandole nella loro interezza, oltre ai ruoli lavorativi. In una parola: con umanità.
La pandemia ha accelerato l’evoluzione dei modelli organizzativi attraverso tre spinte principali: digitalizzazione, sostenibilità, potere dei consumatori e dei giovani talenti sulle scelte e le azioni delle aziende. In questa fase di svolta, al centro dell’attenzione delle aziende ci sono dimensioni ‘nuove’ come benessere, fiducia, collaborazione, rispetto, leadership diffusa e scopo condiviso, sulla scia del modello d’impresa olivettiano.
Fu proprio Adriano Olivetti a sostenere che la vita delle persone dovesse entrare maggiormente nella fabbrica. “Oggi viviamo ancora un paradosso nel mondo del lavoro, che vede le persone divise tra vita privata e attività professionale, ma abbiamo l’occasione di estendere le mappe delle aziende per comprendere al loro interno le nostre vite”, ha spiegato Riccarda Zezza CEO di Lifeed nell’ambito dell’incontro Organizzazioni per le persone o Persone per le organizzazioni? del 50esimo Congresso Nazionale Aidp, in cui ha dialogato con Isaac Getz, professore alla ESCP Business School, saggista e tra i protagonisti del movimento globale di liberazione aziendale.
Non dovrebbe essere strano parlare di aziende altruiste oggi, ma fino all’inizio della pandemia e del remote working forzato la vita delle persone è stata lasciata fuori dagli uffici. “Solo adesso la complessità delle nostre vite (che in realtà era già esistente) è diventata visibile”, ha sottolineato Riccarda Zezza. “In passato ci sembrava ovvio ‘conciliare’ vita e lavoro, ma prenderci cura degli altri fa parte della nostra natura umana, è un istinto primario della nostra specie che fa emergere in noi responsabilità e ci rende agenti del cambiamento”.
Le aziende ‘egoiste’ lasciano tutto questo fuori dai loro ‘recinti’. Ma le risorse delle persone sono già presenti all’interno delle imprese. “Per scardinare le vecchie cornici, il movimento da fare non è aggiungere nuove forme alle persone in direzione top-down, bensì dare spazio alle loro dimensioni identitarie. Portando la vita nel lavoro, dunque, è possibile costruire economie e società altruiste”.
Come può tradursi tutto questo, concretamente, nelle aziende oggi? Secondo Isaac Getz, le imprese altruiste hanno tre caratteristiche principali: “Si prendono cura di tutti i membri dell’ecosistema di business, agiscono in modo incondizionato e lo fanno attraverso tutti i loro processi di core business. Così raggiungono performance economiche elevate”. Con le loro azioni etiche nei confronti degli stakeholder, puntando sulla sostenibilità e su valori umani, queste imprese ottengono risultati di business positivi.
D’altra parte, secondo recenti studi, oggi l’87% dei Millennials crede che il successo di un’azienda non sia misurabile solo in termini finanziari e l’89% dei consumatori sarebbe disposto a lasciare un brand per un altro con una missione sociale.
Focalizzarsi sul valore sociale è dunque la chiave. “Persone, clienti, fornitori, comunità: il mix di questi ‘ingredienti’ porta alla ‘ciliegina sulla torta’, cioè il risultato economico, che è una conseguenza dell’approccio basato sulla cura del proprio ecosistema di business”.
I manager e i Direttori HR, secondo Getz, sono chiamati a cambiare le organizzazioni abbandonando l’approccio top-down e il proprio ego, abbracciando invece la visione altruista attraverso la spinta ai processi di core business con un valore sociale per i propri clienti, fornitori e comunità in cui operano, migliorando la vita degli ‘abitanti’ del loro ecosistema.
Ripensare, ridisegnare, trasformare: sono alcune delle parole chiave del percorso delle aziende verso il cosiddetto new normal post pandemia. In questo scenario, le competenze richieste dal mercato sono in continua evoluzione e la Direzione HR gioca un ruolo determinante per valorizzare il potenziale delle persone.
Oggi qualunque planning rischia di diventare obsoleto in poco tempo. Le competenze trasversali, legate alla capacità di apprendere e di pensare, sono le uniche su cui è possibile pianificare e servono in tutte le professioni, anche quelle tecniche. Ma la capacità di sapere quali competenze saranno utili in futuro non può essere attribuita solo in direzione top-down: è invece possibile utilizzare l’intelligenza collettiva, perché le persone stesse possono scoprire le proprie attitudini.
Per farlo è necessario “allargare la mappa”, come ha sostenuto Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nell’ambito dell’incontro Strategic workforce planning organizzato da HRC. Ciò significa capire che cambieranno il ‘cosa’ e il ‘come’ legati all’attività delle aziende, ma soprattutto significa tornare sul ‘perché’ ciò accade. Qui entrano in gioco i dati: oltre ai comportamenti, attraverso i People Analytics è possibile valorizzare le dimensioni identitarie sommerse e i tratti caratteriali delle persone. Ampliando la visione a queste dimensioni e attitudini in relazione alle esperienze di vita (lavorando non solo sui Big data, ma anche sugli Small data), l’HR può diventare “l’esperto delle mappe” per valorizzare tutto il potenziale dei dipendenti.
D’altra parte, oggi l’HR “non è più solo business partner, ma è il business stesso”, ha spiegato Alessandro Agosti, Direttore Risorse Umane di Findomestic. “L’HR accompagna le trasformazioni e può dare un’accelerazione decisiva al cambiamento anticipando i bisogni di nuove competenze”.
Secondo Andrea Bellina Head of Talent & Organization di Engie, la strategia è guidata dal business, ma a stretto contatto con l’HR che contribuisce a rendere concreta la strategia attraverso percorsi di formazione e riqualificazione. La tendenza oggi riguarda la ricerca di competenze legate alla gestione dei dati per comprendere gli scenari attuali e prevedere i trend del futuro.
Gli input di business e quelli dell’HR possono far trovare un equilibrio tra la ricerca di risorse sul mercato e la valorizzazione di competenze interne. In questo senso, “un approccio ‘plug-and-play’ non funziona, ma serve tempo per trasferire e sviluppare nuove competenze, anche in ottica generazionale”, ha affermato Alessandra Rizzi Group HR & Organization Director di BFF Banking Group. “La Direzione HR non basta da sola per anticipare le competenze, è un lavoro di squadra con il top management, serve un forte mandato di vertice per riuscire a non disperdere competenze e per garantire l’employability delle persone in questo periodo delicato”.
Oggi il tempo è un fattore chiave. “Dobbiamo prepararci al momento in cui il business cambierà per far fronte alla trasformazione dei consumi”, ha sottolineato Silvia Sulpizi, Senior HR manager Global Supply Chain di Baker Hughes, secondo cui è utile analizzare i comportamenti (non solo le hard skill) che serviranno nella transizione futura, per capire chi sarà pronto a mettersi in discussione.
Il workforce planning è fortemente legato alla strategia aziendale: per Luca Barbera, Head of Planning & Organization Global Power Generation di Enel Group, “capire i principali driver del business permette di pianificare l’evoluzione delle risorse interne. L’HR rappresenta una leva di creazione di valore all’interno della strategia dell’azienda, con l’obiettivo di riuscire a prevedere il futuro del lavoro”.
In questo contesto, non bastano competenze tecniche, ma servono anche “attitudini, startup mentality e approccio data-driven”. Sulla base delle attitudini, le persone possono anche cambiare ambito di lavoro e trovare nuove opportunità, per questo puntare sulla “contaminazione di saperi” può rivelarsi una strategia vincente, soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo oggi.
Il potenziale formativo degli eventi della vita è straordinario. Le esperienze quotidiane possono avere un impatto enorme sulla motivazione delle persone nei confronti dell’apprendimento. Dal momento che le competenze soft richieste oggi nel mondo del lavoro sono difficili da costruire in aula, le sfide affrontate nella dimensione privata consentono di sviluppare una nuova consapevolezza per trasferire le competenze tra vita e lavoro.
Il digitale è fondamentale per favorire tutto questo: esso rappresenta “una manifattura magica delle idee”, come spiega Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, in questa intervista sul tema #DiventaChiVuoi a GoDaddy Talks, l’appuntamento con i protagonisti dell’imprenditoria digitale.
Guarda il video:
Per le donne del terzo millennio, la domanda è: “Che cosa hanno di diverso le donne? Qual è il contributo unico che possono portare oggi al mondo?”.
Le donne hanno un’eredità speciale e oggi hanno la possibilità e la responsabilità di portarla al potere.
Il Dna delle donne è cablato con la nascita e la cura: un tratto che ha consentito la sopravvivenza della nostra specie tanto quanto la nostra capacità di cacciare, se non di più.
Poiché nessuna specie in Natura ha bisogno di cura alla nascita più a lungo di quella umana, l’essere sociali è una condizione della sopravvivenza.
È sempre stato così. È un modello di caring leadership estremamente potente, che le donne possono incarnare e diffondere, portando una nuova prospettiva nel mondo.
In cosa consiste, dunque, la caring leadership femminile? Lo spiega Riccarda Zezza in questo video tratto dalla sua lectio al TEDx di Ortygia, pubblicato sul sito ted.com e tradotto in cinque lingue.
Che cos’è il potere?
Se immagini il potere: che cosa vedi?
Ho fatto la stessa domanda all’oracolo della ricerca immagini di Google
Ed ecco che cosa ne è uscito: Il potere è bianco e nero
Ha a che fare con la forza,
Il potere è un burattinaio
Riguarda la prepotenza
Il potere è… un uomo bianco.
Una spada è un simbolo di potere, con una spada puoi imporre la tua volontà
Più affilata è, meglio è
punta al cielo: più alta è, meglio è.
Un missile è un simbolo di potere
una minaccia tecnologica alla vita: la logica del dominio
resa potente dal progresso
Il potere svetta nel cielo: il più lontano possibile dal suolo.
Ha la forma di una spada, di un missile, di una torre,
è solitario, appuntito e pericoloso
più alto è, meglio è, più grande è, meglio è.
…si, il potere può fiorire
ma lo fa come un albero: se genera la vita,
è solo un’esternalità della sua tendenza naturale ad elevarsi.
Attraverso i secoli, il potere si è sviluppato
distaccandosi dalle cose terrene della vita,
lasciandole indietro intenzionalmente
perché non ne trattenessero la crescita.
…ma perché è così?
Quando abbiamo deciso che il potere avrebbe riguardato la supremazia, la forza e la vittoria sugli altri?
…abbiamo mai avuto un’alternativa?
La fase più antica e più lunga della nostra storia, l’era preistorica:
ecco quando il modello attuale di potere
ha piantato le sue radici
in un istinto primario che ci ha tenuti in vita:
la nostra capacità di cacciare e lottare,
giocando un gioco a somma zero con le altre specie viventi.
Si, la caccia era un gioco a somma zero:
non era possibile finire pari.
Gli uomini potevano solo vincere o perdere,
e la conseguenza era la sopravvivenza o la morte.
Si tratta di un modello potente, che ha “cablato” il cervello degli uomini
al punto che “attacco o fuga” è diventata la sua risposta automatica allo stress
e oggi questo schema governa la maggior parte delle attività umane:
nell’arena politica come in quella economica,
applichiamo senza saperlo una prospettiva a somma zero,
gareggiamo, combattiamo, vinciamo o perdiamo, sempre.
Ma certo!
Come potremmo disobbedire un istinto così profondo e radicato?
Ed è un istinto degli uomini…
La ragione per cui la parola “anthropos” significa sia “essere umano” che “uomo”
non è la mancanza di fantasia dei linguisti:
rivela piuttosto una profonda verità.
Per molti secoli, per millenni
la storia degli uomini è concisa con quella dell’umanità
erano maschi i creatori e i narratori,
i loro istinti e le loro attitudini hanno dato forma al mondo così come lo vediamo oggi:
la specie umana porta l’eredità di millenni di… virilità.
oggi le donne rappresentano solo il 5% del potere economico nel mondo, nonostante siano il 50% della popolazione mondiale
Su un totale di 146 paesi, ci sono solo 15 leader politici donne,
otto dei quali sono il primo caso di donna al potere in quel Paese.
Il “business case” della diversità in realtà è ormai solido,
e le donne sono state invitate ad unirsi al gioco (come vedete).
Le porte del potere sono aperte,
ci sono programmi che ci insegnano come comportarci per essere adeguate,
ci sono quote che liberano posti per noi,
e agli uomini viene chiesto di fare uno sforzo aggiuntivo per non seguire il proprio istinto
nel selezionare pari che gli somiglino e si comportino come loro.
Le donne hanno ricevuto un invito che suona un po’ come:
«Siete le benvenute al nostro gioco: ecco le regole.
Per favore, però, non aspettatevi di poterle cambiare perché si adattino anche al VOSTRO talento alle vostre inclinazioni. »
Così, le donne hanno iniziato a entrare in partita:
hanno potuto indossare uniformi, per adattarsi meglio
e non dare fastidio a chi c’era prima di loro.
Le donne hanno potuto imparare a correre, competere, combattere per la vittoria…
hanno imparato anche a giocare a calcio… e a farselo piacere!
…hanno potuto anche cambiare qualche colore, purché questo non mettesse in discussione la “divisa del potere”– e purché non pretendessero di indossare la cravatta!
Alcune donne sono entrate, in un modo o nell’altro:
hanno dimostrato di saper giocare quel gioco, sedere a quel tavolo, seguire quelle regole…
ma perché così poche?
Perché, nonostante gli evidenti sforzi di trascinare le donne al potere,
le donne non ci stanno arrivando?
Sembra che abbiano bisogno di una ragione dannatamente buona
per decidere di abbandonare le loro comode posizioni di minoranza
e NON la stanno vedendo.
Beh, mi ricordo che quando sono diventata dirigente
il capo HR mi ha comunicato con orgoglio che adesso avrei potuto avere… l’auto più bella!
E io ero un po’ perplessa, perché non condividevo la sua eccitazione:
non ero arrivata fin lì per avere un’auto più grande!
Non si tratta di un dettaglio:
è il narratore a definire chi vince e qual è il premio;
se il premio non ti piace, probabilmente è perché non hai contribuito a scrivere quella storia
e, cosa anche più grave, questo ti rende meno interessata a scriverla anche in futuro.
Perché mai le donne dovrebbero entrare nella ressa per scrivere la definizione di potere?
Il posto di minoranza che hanno occupato negli ultimi 5.000 anni
ha reso loro possibile guardare e protestare,
con le mani libere per aggiustare tutte le piccole cose intorno a loro che non funzionano, giorno dopo giorno.
Libere di non firmare contratti che non le convincono,
e di non seguire strade scomode.
Ci vogliono un enorme sforzo e una grande motivazione
per aspirare a un potere con cui non ti identifichi
…specialmente se la ricompensa è un’automobile!
Sembra che lo sforzo che sta facendo la nostra società
sia quello di lasciare le cose come stanno, chiedendo alle donne di adattarsi ai valori attuali, come la finanza, la tecnologia, la competizione….
Beh, io spero che questo tentativo fallisca, perché ciò che abbiamo oggi
è un’opportunità unica per la nostra specie di evolvere:
se le donne cambiano i valori attuali, invece di esserne cambiate.
Io credo che la nostra chiamata in quanto donne non sia ad UNIRCI al gioco… ma a CAMBIARLO,
non ad adattarci al potere, né a sostituirlo, ma ad arricchirlo.
Fino a 3.000 anni prima di Cristo,
le civiltà pre-europee erano fondate sulla celebrazione della vita
adoravano la dea della fertilità e,
come ha detto la sociologa Riane Eisler,
credevano nel LINKING più che nel RANKING
non c’era una classifica tra uomini e donne:
si completavano a vicenda, e il loro potere congiunto si raddoppiava.
In queste civiltà, come ha detto Merlin Stone: Dio era una donna.
La domanda per noi, donne del terzo millennio, è:
che cosa hanno di diverso le donne?
Qual è il contributo unico che possiamo portare oggi al mondo?
Io credo che le donne abbiano un’eredità speciale, e che oggi abbiamo la possibilità e la responsabilità di portarla al potere.
Il DNA delle donne è cablato con la nascita e la cura:
un tratto che ha consentito la sopravvivenza della nostra specie
tanto quanto la nostra capacità di cacciare, se non di più.
Poiché nessuna specie in Natura ha bisogno di cura alla nascita più a lungo della nostra
e in nessun’altra specie quanto in quella umana, l’essere sociali è una condizione della sopravvivenza
E’ sempre stato così.
E’ un modello estremamente potente,
che le donne possono incarnare e diffondere,
portando una nuova prospettiva nel mondo.
Una ricerca fatta nel 2000 dalla professoressa Shelley Taylor ha rivelato che la reazione delle donne in caso di pericolo non è di “attacco o fuga”.
La Taylor scrive: Da un punto di vista evolutivo, le donne si sono evolute come caregiver;
Nel modello “attacca o scappa”, se le donne combattono e perdono, abbandonano i figli.
Allo stesso modo, è molto difficoltoso scappare se porti con te un bambino e non hai intenzione di abbandonarlo.
Quindi, come reagiscono le donne in caso di minaccia: qual è il loro modello adattivo?
Primo: la ricerca ha scoperto che le donne sotto stress solitamente trascorrono più tempo a prendersi cura dei loro figli. Questo istinto DI CURA è qualcosa di così radicato nelle donne che non hanno bisogno di essere madri biologiche per averlo.
Secondo: in momenti di stress, le donne formano legami sociali stretti per cercare alleati: questo è il cosiddetto istinto DI ALLEANZA.
Significa che in situazioni di stress le donne creano alleanze, evitano scontri, si basano sulle interdipendenze. Questo è un altro istinto primario delle donne.
…quanto pesantemente il modello maschile attacca o scappa ha influenzato il nostro attuale modello di potere?
…che meraviglia sarebbe poterlo arricchire con l’attitudine più femminile del “cura e crea alleanze”?
Questo è il modo in cui le donne possono contagiare il potere, con la cura e le alleanze:
un modello che viene da un modello evolutivo così vicino e facile per noi.
Come gettare le basi di questo potere, dove ne impariamo le pratiche e come possiamo condividerle con il mondo?
Ecco la buona notizia: abbiamo già tutto: tutto a portata di mano, tutto a “casa”.
Ho un lavoro molto impegnativo, e torno a casa tutti i giorni.
A casa, i miei figli mi riportano al significato terrestre di tutto:
Mi forniscono l’ispirazione e la realtà
completano i miei pensieri più profondi con i dettagli concreti della vita
nutrono il mio cuore con l’amore che mi serve per ricaricarmi.
Stare con loro mi connette con l’alto e con il basso,
con il piccolo e con il grande, con l’ora e con il per sempre.
Tutto ciò è impossibile da lasciare indietro per una madre.
Tutto ciò, a disposizione sia degli uomini che delle donne, può riconnettere il potere alla realtà della vita
ridandogli le radici che gli sono mancate per troppo tempo.
Jonh Stuart Mill sostiene che “non ci sono leggi economiche assolute: le scelte che facciamo sono politiche, e alla fine sono scelte umane”.
Quindi… le cose non devono essere come sono sempre state!
Se riconnettiamo il potere alla vita, se lo portiamo più vicino alla realtà, accadranno cose magiche…
– sui giornali, leggeremo di più a proposito dell’educazione dei nostri figli e di meno degli ultimi risultati finanziari
– spetteremo di considerare normale che un calciatore guadagni in un giorno ciò che un insegnante guadagna in un anno
– compariranno dei fan club dove le persone gioiscono per la fine della povertà
con la stessa passione ed energia che vediamo oggi per una finale di Champions League
– non vedo l’ora che sia il giorno in cui smetteremo di considerare la guerra come un’espressione di potere
– e inizieremo a festeggiare un potere che riguarda la vita, di nuovo.
Riportando la vita nel potere:
questo è il modo in cui le donne possono cambiare il mondo.
“Questo” potere risuona nelle donne dalle radici più profonde di chi siamo,
chiamandoci attraverso la nostra responsabilità verso la vita,
che non può più essere limitata solo alle nostre case.
Dobbiamo giocare questo gioco e, dato che non ci adatteremo,
lo renderemo migliore per tutti.
Ancora simile agli uomini e più simile alle donne
Non siamo chiamate a farlo perché è “giusto”,
né perché le donne “dovrebbero essere rappresentate”…
qui non si tratta di aiutare le donne…
…ma di aiutare il mondo attraverso le donne.