A giugno 2021 Beko – azienda leader in Europa di elettrodomestici di libera installazione – ha avviato un graduale ritorno in ufficio dopo oltre un anno di lavoro da remoto a causa della pandemia.
L’azienda ha avvertito la necessità di uno strumento a supporto delle persone, che dopo molto tempo avrebbero ricominciato a vivere una ‘routine’ lavorativa in presenza ormai quasi dimenticata.
Da luglio 2021 Beko ha introdotto in azienda il percorso Gestire una transizione di Lifeed, da cui sono emerse oltre 500 riflessioni generate dai partecipanti.
Sentendosi davvero ascoltate e chiamate in prima persona a contribuire al futuro dell’azienda, le persone sono diventate autrici attive del cambiamento.
“Di solito nelle survey non viene mai chiesto alle persone di parlare di se stesse, della propria vita privata. Grazie a Lifeed siamo entrati in contatto con una serie di emozioni e situazioni dei collaboratori che prima non conoscevamo”, spiega Andrea Marando, HR Manager di Beko Italy.
La pandemia, un trasloco, un nuovo lavoro, un divorzio: sono tutte transizioni di vita che ci possono insegnare qualcosa, ma per vivere queste situazioni in modo positivo è necessario sviluppare la propria capacità di gestione del cambiamento. Come è possibile? L’auto-apprendimento è una competenza fondamentale in questo senso. Anzi, come spiega McKinsey, oggi l’intentional learning è la skill più importante per vivere le grandi trasformazioni della vita, comprese quelle lavorative.
Nella sfera professionale, il World Economic Forum ha riscontrato la necessità di riqualificare almeno un miliardo di posti di lavoro, che sono stati trasformati dal cambiamento tecnologico che stiamo vivendo. A ciò si è aggiunto l’impatto del covid-19 che ha accentuato la necessità di reskilling delle persone nelle nuove modalità di lavoro digitali e da remoto. Una strada che sembrerebbe in salita, ma tutto parte dal nostro approccio a questi grandi momenti di transizione.
Se infatti il cambiamento è un dato di fatto, è la nostra risposta che fa la differenza. Tutto parte da noi stessi e dalla capacità di attingere dal bagaglio di risorse personali, perché non c’è sviluppo senza investimento e un periodo difficile come questo può essere una preziosa opportunità per innescare processi virtuosi.
Vivere momenti di difficoltà è naturale, ma questi possono diventare energia positiva solo se li sappiamo affrontare in maniera proattiva. Come affermava lo psichiatra Viktor Frankl, padre della logoterapia e sopravvissuto alla Shoah, “non sono il contesto o le circostanze a determinarci, ma le nostre decisioni”.
In realtà il cambiamento fa parte della storia umana da sempre, ma è un processo che la nostra mente non affronta volentieri, perché vede la ‘novità’ come una minaccia e preferisce guardare a ciò che già conosce. Il segreto è saper affrontare i processi di transizione con realismo.
Cambiare non significa cancellare, perché noi siamo anche la nostra storia, i nostri valori, il bagaglio di idee e progetti che ci portiamo dietro nella sfera privata e lavorativa. Trasformarsi non significa annullarsi, ma sapersi adattare in un determinato contesto per progredire.
Ecco allora che l’auto-apprendimento diventa una competenza chiave per l’evoluzione lavorativa ed è una abilità che ognuno di noi può allenare affinché possa diventare uno fattore per il successo professionale a lungo termine. Quello che conta è come la nostra mente recepisce e affronta la novità.
Ce lo ricorda anche la psicologa americana Carol Dweck della Stanford University, che con i suoi studi su una mentalità rigida e una più aperta ha delineato limiti e opportunità di crescita verso un approccio diverso a se stessi, perché “una mentalità rigida non consente alle persone il lusso di trasformarsi: devono già essere”.
Le esperienze e le interazioni quotidiane offrono enormi opportunità di apprendimento, ma solo se si tratta intenzionalmente ogni momento come un’opportunità di formazione. Durante l’apprendimento continuo, le riflessioni delle persone possono permettere di acquisire maggiore consapevolezza delle proprie capacità per gestire il cambiamento e affrontare le transizioni di vita.
L’apprendimento è come una vera e propria palestra e in quanto tale, come ogni allenamento, necessità di regolarità e di pianificazione. Non solo: servono una mentalità orientata alla crescita personale e molta curiosità, vero motore di ogni apprendimento, che può essere allenata anche in coloro che per natura non sono curiosi.
Ma come è possibile allenare la curiosità e le competenze? Affrontando le proprie paure e facendo domande, ma anche vivendo appieno nuove esperienze da cui apprendere, come le nostre transizioni di vita. Fondamentale è concentrarsi su ciò che amiamo fare, provando e magari sbagliando, dando spazio a tutte le nostre dimensioni identitarie, non solo quelle lavorative.
Qualunque forma assuma la curiosità, ci aiuterà a mantenere una mentalità flessibile e consapevole, ampliando la nostra prospettiva e preparandoci a un nuovo apprendimento.
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Nel “now normal” un alto employee engagement contribuisce ad aumentare i livelli di benessere, migliora la salute e diminuisce il rischio di burnout
Dipendenti più ingaggiati generano +21% di redditività, +20% di produttività, +10% di fidelizzazione del cliente (fonte: Gallup)
Scopri come si può migliorare l’employee engagement in 3 step
L’arrivo del mese di settembre con il back to work ha portato a una diffusa urgenza di now normal: sappiamo ormai che non ci si può più aspettare il new normal di cui si è parlato tanto gli scorsi mesi, quanto piuttosto una normalità liquida, in continua evoluzione verso i next normal. Una normalità che, seppur transitoria, offre, tuttavia, qualche reminiscenza della quotidianità pre-Covid.
È in questi scenari che l’attenzione e la vicinanza alle persone è quanto mai fondamentale per aiutarle a riposizionarsi nei nuovi scenari, e diventa elemento determinante per la sopravvivenza dell’azienda. Adottare pratiche di employee engagement ha il vantaggio di incrementare i livelli di produttività, abbassare i livelli di stress e generare benessere organizzativo diffuso.
Secondo William Kahn, lo studioso che per primo ha elaborato una definizione di employee engagement (Psychological conditions of personal engagement and disengagement at work, 1990), sono tre le condizioni psicologiche necessarie affinché un dipendente possa dirsi pienamente coinvolto:
In un recente studio di Gallup, società leader nella relazione tra team engagement e performance sul lavoro, viene confermato che i team dove si riscontrano livelli più alti di engagement ottengono risultati migliori: 21% in più di redditività, 20% in più di produttività, 10% in più di fidelizzazione del cliente. E i benefici non si riflettono soltanto sui conti aziendali: i dipendenti più “engaged” sono anche più sani e meno esposti al rischio di burnout.
Sempre secondo Gallup la crescita dell’employee engagement è da attribuire in via prioritaria ai cambiamenti del modo in cui le organizzazioni si occupano dello sviluppo dei dipendenti. Le realtà capaci di focalizzarsi su una cultura della crescita interna registrano un salto nei livelli di engagement dal 20% al 70%.
Ma c’è di più: la relazione sembra farsi più intensa tanto più difficili sono le condizioni esterne in cui opera l’organizzazione. Durante le crisi una buona predisposizione al lavoro impatta sui risultati aziendali in misura maggiore di quanto non accada in tempi normali. Durante gli ultimi anni di recessione economica si è, infatti, evidenziato un rapporto più stretto tra coinvolgimento dei dipendenti e aumento di indicatori quali redditività, produttività, percezione dei consumatori.
Ciò non significa che, in momenti di crisi, l’engagement cresca spontaneamente. Il distanziamento sociale e le nuove modalità di lavoro imposte dalla pandemia mettono a dura prova i tentativi delle aziende di mantenere coinvolto il personale. Proprio perché l’employee engagement aumenta solo grazie all’adozione di prassi organizzative positive, occorre sviluppare precise strategie per mitigare la distanza e rafforzare la partecipazione in azienda.
Quali sono le buone prassi da adottare per far sentire le proprie persone accolte ed accettate in azienda, e incidere così sul miglioramento dell’engagement? Ecco 3 mosse adatte al periodo di incertezza che ancora vivendo.
Il primo suggerimento è di guardare alle persone nella loro interezza. Uno studio di Deloitte ha rivelato che il 61% dei dipendenti nasconde alcuni aspetti della propria identità per paura di essere discriminato in ufficio o per timore di apparire poco concentrato sul lavoro. In molti casi il Covid ha reso impossibile questo tentativo di celare parti di sé.
In tempi di home working forzato, le persone hanno condiviso con i propri capi e colleghi aspetti inediti della propria vita: davanti agli schermi dei loro computer si sono mostrati non solo come professionisti, ma anche come genitori, compagni, caregiver. Consentire alle persone di portare tutto di sé anche sul lavoro significa creare una “cultura della cura”, in cui ognuno si sente motivato e libero di esprimersi. E ciò aiuta a ridurre le tensioni e aumentare la comprensione reciproca. Oltre a portare più liberamente tutti i propri talenti anche sul lavoro.
Non sono solo i contesti formali a essere fonte di apprendimento. Si impara in ogni momento della vita e la crisi è una grande opportunità di sviluppo per le persone e per le organizzazioni. È possibile riconoscere le crisi come catalizzatore del cambiamento e decidere che tipo di trasformazione vogliamo realizzare.
La letteratura post traumatica individua cinque aree di crescita potenziale:
Sapere di aver superato un momento difficile e averne tratto una lezione importante rende più consapevoli delle proprie capacità e meglio equipaggiati per il futuro. In un’ottica di continuous learning, rielaborare il passato permette di essere autori e attori di una nuova storia di cambiamento: in un mondo in continuo divenire, reagire agli shock vuol dire imparare a ricominciare ogni volta da capo.
La situazione che stiamo vivendo a causa del Covid-19 può essere, infine, una grande occasione per le organizzazioni per trovare risposte personalizzate ai bisogni delle loro persone. Aprire canali di ascolto evita l’isolamento e permette di comprendere le diverse sfide che i dipendenti stanno affrontando, individuando il modo migliore per sostenerli.
Adottare un approccio personalizzato significa promuovere una cultura del cambiamento condivisa all’interno dell’organizzazione. Ecco perché l’employee engagement ha bisogno di un dialogo continuo e corrisposto tra dipendente e azienda, che tenga in considerazione gli specifici bisogni di ognuno, permetta a ciascuno di creare il proprio percorso e lo inviti a condividere con gli altri quanto è stato imparato fino a quel momento per creare insieme un nuovo sense of purpose.
Nelle transizioni come quella causata dal Covid-19 si cresce dunque solo se viene fatto tutti insieme: aziende e dipendenti, visti nella loro duplice veste professionale e privata. Lifeed, già attivo in oltre 80 aziende come Manpower, MSD, Reale Mutua, UniCredit, trasforma le transizioni in palestre di soft skill per l’efficacia professionale e si rivela un valido strumento per migliorare l’engagement delle persone, incidere sul loro benessere e migliorare la produttività sul lavoro.
Il 53% degli utenti Lifeed sente di poter rivelare e usare più cose di sé sul lavoro e il 57% è orgoglioso della propria azienda. Gli effetti sono chiari: il 90% sta meglio e ha più energia e la stessa percentuale di persone si dichiara di più coinvolta e motivata nelle attività lavorative quotidiane.
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Immagina di essere una torta, una bella torta di compleanno, che tutti gli invitati non vedono l’ora di fare a fette e assaggiare. Ad ogni fetta messa nel piattino corrisponde un assottigliarsi del dolce, fino a sparire del tutto. Prova ad immaginare, ora, di quante fette è composta la tua torta. Probabilmente ti visualizzerai mentre dai una fetta ai tuoi figli, una fetta alla tua compagna o al tuo compagno, una fetta ai tuoi genitori, una ai tuoi amici e ai tuoi colleghi, e poi alla fine, se rimane, una anche a te.
La metafora è semplice: più sono le persone e le attività di cui ti occupi, più piccole sono le fette di torta che puoi dare ad ognuna di queste. Ma se potessi dedicarti a una sola cosa, quanta energia potresti mettere solo di essa? Ti sembra che nella tua torta ci sia abbastanza spazio per tutto? Probabilmente no.
Ma non devi preoccuparti: abbiamo una buona notizia! L’idea di noi come delle torte è stata superata. Le ultime ricerche sociologiche hanno mostrato una storia completamente diversa, ovvero che più ruoli nella stessa persona si accumulano e più si accumulano, più si rinforzano l’un l’altro, trasferendo tra loro energie e competenze.
Pensiamo all’amore che doniamo alle persone che ci circondano: esso non è esclusivo. Siamo in grado di amare genitori, partner, figli, amici, ognuno in modo diverso, ma senza che l’affetto per l’uno diminuisca quello a disposizione per gli altri. L’amore si moltiplica, non si divide. Vale anche per le (buone) idee: se io ho due mele e ne regalo una ad un amico, ne avremo una a testa. Ma se io e il mio amico abbiamo due buone idee e ci rendiamo partecipi di esse vicendevolmente, avremo entrambi due buone idee. Ebbene, la stessa cosa vale per le competenze e l’energia: vengono moltiplicate, non divise e ci ritroviamo ad averne di più.
Le ultime ricerche sociologiche hanno mostrato che più ruoli nella stessa persona si accumulano e più si accumulano, più si rinforzano l’un l’altro, trasferendo tra loro energie e le competenze.
Cambiamo prospettiva, allora, alla visualizzazione della nostra torta. Adesso, immaginate che ogni ospite, invece di accaparrarsi una porzione, la aggiunga, fino a far diventare enorme il nostro dolce. MultiMe è un prodotto digitale che nasce proprio per scardinare lo stereotipo delle “fette di torta”, che non solo abbiamo su noi stessi ma che, spesso, anche la nostra azienda ha su di noi.
Nonostante la metafora suggestiva, MultiMe ha basi scientifiche molto solide, frutto di una ricerca multidisciplinare, che prosegue negli anni arricchendosi di nuovi contributi. Anche questa volta, partiamo da un esempio.
Marco è un pompiere, ed è anche marito e padre. Scoppia un incendio mentre è in servizio e deve accorrere. Giunto sul posto, si rende conto che il fuoco sta bruciando la una casa, in cui sono presenti due adulti e due bambini. In questa situazione, Marco si comporterà da pompiere o da padre di famiglia? Chi ha provato MultiMe, sa che la domanda è mal posta. Marco potrà unire il coraggio da pompiere all’amore del padre di famiglia, agendo con razionalità e salvando le persone dalle fiamme, come se fossero i suoi familiari, i suoi bambini. Questo perché i diversi ruoli che ricopriamo non annullano o escludono gli altri, ma si arricchiscono a vicenda.
L’esempio è volutamente estremo, ma pensiamo alle nostre vite più ordinarie. La capacità di ascolto e di mediazione che esercitiamo coi figli, o al contrario alcune competenze manageriali che esercitiamo coi colleghi, sono tutte abilità maturate tra i nostri ruoli, e che ci portiamo sempre con noi. Siamo più della somma delle nostre parti, e MultiMe ci permette di rendercene conto. MultiMe, in ultimo, permette il passaggio dal “role conflict” al “role accumulation”.
Il tool è stato realizzato da un team scientifico composto da Riccarda Zezza, dalle ricercatrici di Lifeed e dalla professoressa Maferima Touré-Tillery, ricercatrice della Kellogg School of Management della Northwestern University. Si avvale di anni di ricerca nel campo della “teoria dei ruoli”.
Come sempre, partiamo dalla definizione. Viene in nostro aiuto Roger Barker, tra i fondatori della psicologia di comunità, che spiega le teorie dei ruoli come “un gruppo di concetti, basati su ricerche socioculturali e antropologiche, che riguardano il modo in cui le persone sono influenzate nei loro comportamenti dalla varietà delle posizioni sociali che ricoprono e dalle aspettative che li accompagnano”.
La “teoria dei ruoli” comprende due linee divergenti di pensiero e ricerca, che sono quella del role conflict e quella del role facilitation. I primi studi sul role conflict risalgono agli anni Sessanta, ad opera di William Goode. Egli elaborò la teoria del role strain, sostenendo che ricoprire diversi ruoli sociali è impegnativo, in quanto richiede risorse di tempo ed energia conflittuali tra loro, che causano, quindi, un forte disagio. Poi, gli studi successivi si sono concentrati sull’impatto positivo del ricoprire contemporaneamente più ruoli. In particolare, Sieber e Marks, negli anni Settanta, hanno dato risalto al fatto che rivestire più ruoli produce un maggiore benessere, perché i benefici associati all’accumulo di ruoli, generalmente, superano lo stress correlato al ruolo.
L’interesse per gli effetti delle interazioni tra ruoli diversi è aumentato negli ultimi decenni, poiché la partecipazione femminile al mercato del lavoro è aumentata e le donne hanno raggiunto livelli più alti nella gerarchia aziendale, aumentando le loro responsabilità all’interno delle organizzazioni. Inizialmente, gli studi organizzativi si sono concentrati sull’aspetto conflittuale del rapporto lavoro-famiglia, suggerendo che le donne che cercavano di conciliare famiglia e carriera soffrissero di stress psicologico e fisico. Tuttavia, nei primi anni Duemila comparvero studi (es. Ruderman, 2002) che evidenziavano i benefici a livello di competenze, ma anche psicologici, del “multitasking”.
Sieber e Marks, negli anni Settanta, hanno dato risalto al fatto che rivestire più ruoli produce un maggiore benessere, perché i benefici associati all’accumulo di ruoli, generalmente, superano lo stress correlato al ruolo.
Di fronte ad evidenze qualitative e quantitative, la ricerca di Lifeed ha approfondito questi aspetti di “role accumulation”, volti a raggiungere non tanto la conciliazione o l’equilibrio tra i ruoli, quanto una reale sinergia tra le diverse aree che interessano le nostre vite. Le risorse che abbiamo in noi “traboccano” tra i diversi ruoli, ma solo se riconosciamo la sinergia tra le parti della nostra vita e, tenendole insieme, le rafforziamo reciprocamente.
La teoria della role accumulation afferma che l’intera persona è più della somma delle parti che la compongono: ricoprire alcuni ruoli può generare risorse da utilizzare in altri. Il metodo Lifeed stimola, rende le persone consapevoli e innesca questo spillover positivo (“overflow positivo”), da un ruolo all’altro della vita. Lifeed migliora il potenziale educativo delle transizioni (come la genitorialità, la cura di un proprio caro, una crisi…), trasformando queste fasi di vita in uno strumento di sviluppo professionale.
Nasce così il concetto di transilienza, una combinazione di due parole: transizione e resilienza (Vitullo, Zezza, 2014). La transilienza è una meta-competenza (cioè una competenza delle competenze) che viene esercitata quando le abilità, le energie, le risorse emotive fluiscono da un ruolo all’altro. Per attivare la transilienza, l’individuo deve essere consapevole di essere una torta che cresce sempre e non si assottiglia.
Il metodo Lifeed usato nei nostri master si arricchisce oggi, dicevamo, di un nuovo strumento. MultiMe è un tool interattivo che aiuta a vedersi e farsi vedere come quella torta di compleanno su cui tutti gli invitati aggiungono una fetta, invece che sottrarla.
Nel semplice esercizio proposto da MultiMe, che si può ripetere all’inizio e alla fine dei nostri master, dopo aver individuato i singoli ruoli che ricopriamo ci viene chiesto di associare ad ognuno tre o più qualità. Al termine, scopriremo che alcuni ruoli hanno in comune molti aggettivi: si sovrappongono su diversi punti. I livelli di coesione e coerenza tra le parti aumentano.
Un più alto indice di “self overlap” implica anche un maggiore coordinamento etico, come ha dimostrato la professoressa Maferima Touré-Tillery nelle sue ricerche. Più i ruoli si sovrappongono, più la persona tende a comportarsi in modo etico, a non percepirsi divisi in compartimenti stagni. Pensiamo alla ricaduta che ciò può avere su un professionista che ha grandi responsabilità decisionali in azienda: più è coerente nella definizione di sé e dei propri ruoli, più sarà propenso ad assumersi responsabilità nell’ottica del bene comune.
Più i ruoli si sovrappongono, più la persona tende a comportarsi in modo etico, come ha dimostrato la professoressa Tillery della Kellogg School of Management della Northwestern University.
MultiMe è in grado di misurare quantitativamente e qualitativamente il “self overlap” e la ricchezza che porta con sé. Rende possibile mappare i risultati ottenuti dai partecipanti, come dato aggregato, valutando dunque in maniera oggettiva l’impatto del master. Scopriamo così che lo sguardo può andare oltre la superficie di fatica, di tempo limitato che percepiamo dei nostri ruoli, riconoscendone invece l’arricchimento.
I numeri ci danno ragione: 8.3 partecipanti su 10 suggerirebbero ad un amico di provare il nostro metodo. Il prossimo autunno avremo a disposizione i dati di impatto preliminari: saremo in grado di valutare, numeri alla mano, l’evoluzione delle nostre… torte di compleanno. E le torte di compleanno, lo sappiamo tutti, devono essere belle grandi!
“Never let a good crisis go to waste”. Dalla citazione di Wiston Churchill possiamo imparare molto per definire oggi nuovi approcci e nuovi modi di disegnare il futuro.
Si è tenuta il 28 maggio scorso la nostra quinta Life Ready Conference, il ciclo di eventi in live streaming che intende raccogliere idee, riflessioni e buone prassi per attraversare la crisi e affrontare il new normal che ci aspetta dopo il Covid-19. Cosa dobbiamo imparare di nuovo per affrontare il mondo del lavoro che ci aspetterà nei prossimi mesi? Quali sono le competenze soft che ci serviranno per operare con efficacia in una situazione di incertezza e continuo cambiamento? Come possiamo imparare a dis-imparare con flessibilità e rapidità?
“Bisogna disimparare per poter vedere il modello esistente come una sola delle tante possibilità, invece che come l’unica verità possibile”, spiega la nostra CEO Riccarda Zezza. “Dalle nostre survey, il 91% dei dipendenti si aspetta dalle proprie aziende un miglioramento dei processi grazie a quello che abbiamo appreso in questo periodo”.
Abbiamo affrontato questi temi con 6 rappresentanti di grandi associazioni imprenditoriali e manageriali, che oggi più che mai hanno il compito di influenzare la cultura d’impresa e accompagnare le organizzazioni nella transizione.
Video dell’intero live streaming
“Le esigenze di cambiamento non nascono con la crisi”, puntualizza Nicola Spagnuolo, Direttore del Centro di Formazione Management del Terziario (CFMT), associazione in cui confluiscono novemila aziende del settore e circa 24mila manager. “Le aziende che affronteranno in modo più brillante il prossimo futuro sono le realtà che avevano già abbracciato il cambiamento.
La capacità di cambiare va, infatti, allenata nel tempo. Non basta una crisi per decidere di rivoluzionare l’assetto di un’azienda. Il momento attuale richiede non tanto di acquisire nuove competenze, ma di rivederne l’ordine di priorità. “Affinché il nostro approccio possa essere nuovo rispetto al passato, dobbiamo prima rimuovere i retaggi su cui sono fondate e poi ‘reinstallare’ le competenze”.
“Bisogna evitare che ciò che oggi viene chiamato new normal diventi invece un nuovo passato”, dice Elena David, presidente di Aiceo, l’Associazione italiana dei CEO. “Occorre disimparare la falsa retorica che pone l’uomo al centro solo per ragioni di fragilità: al contrario, dev’essere una forma di ricerca per ampliare i propri spazi cognitivi e di relazione. E occorre disimparare anche il potere dell’improvvisazione per ridare valore alle competenze”.
“Dobbiamo disimparare un mondo in cui il potere è affidato a uomini che scelgono altri uomini: come donna, vorrei che si imparasse un sistema basato sul merito e sulle pari competenze. Serve il coraggio di fare cose che non siano solo una reazione al momento di emergenza, ma che consentano un cambiamento vero”.
“Le imprese devono prendersi cura delle persone, non soltanto ascoltarle ma ingaggiarle”, sottolinea Isabella Falautano, componente del Board of Directors di Valore D e Chief Communication&Stakeholder Engagement Officer di Illimity.
“Nelle fasi Vuca, il CEO dev’essere anche un Chief Emotional Officer e saper stare vicino alle persone in maniera autentica. Tra il momento della crisi e quello in cui scatta il cambiamento, non bisogna dimenticarsi di valorizzare l’attesa. Aspettare aiuta a grattare via il superfluo e riscoprire l’essenza dell’organizzazione. Ciò a cui rimanere ancorati quando tutto sembra incerto. Quando si è in una fase di attesa, è importante utilizzare il tempo per la progettualità”.
Ad aver affrontato la sfida più grande sono state forse proprio le piccole organizzazioni. Chiamate a scardinare l’idea che la strada battuta sia la sola percorribile e che l’imprenditore debba prendere le sue decisioni in solitudine. “Le persone per natura si adattano ed evolvono, e le aziende sono fatte da persone. Le Pmi non sono altro che famiglie allargate”. Alessandra Pilia è Responsabile della Comunicazione di Api, l’Associazione Piccole e Medie Industrie che rappresenta circa duemila piccole imprese lombarde, per un totale di 38mila lavoratori. Secondo un’indagine condotta dalla stessa Api, in tempi di crisi sanitaria ed economica il 68% degli associati è preoccupato per il futuro dei propri collaboratori e delle loro famiglie.
“I piccoli imprenditori si sono trovati a essere community manager delle loro organizzazioni, usando chat e strumenti che non erano abituati a utilizzare per dare informazioni che rassicurassero i dipendenti”. Il focus, ancora una volta, è la persona. “L’azienda non nasce e muore con l’imprenditore, ma vive e va oltre le mura e il capannone. Il primo innovation manager dell’azienda è colui che accetta di non sapere e disimpara la cultura che lo ha portato fino a lì, per ingaggiare collaboratori che abbiano il coraggio di dirgli ‘ora facciamo in un altro modo’”.
La crisi degli ultimi mesi ha rallentato molti aspetti della vita personale e lavorativa, ma ne ha anche accelerati tanti altri. A partire dalla decisione di abbandonare schemi e comportamenti non più attuali. “In una situazione di ambiguità non hai conoscenze interpretative da portare avanti e hai bisogno continuamente di formulare domande”, sostiene Paola Previdi, CEO di SFC, Sistemi Formativi Confindustria.
“Oggi ci viene richiesto di reinquadrare i problemi e per farlo servono team misti, che uniscano competenze verticali e orizzontali. Chi gestisce un’azienda deve saper coordinare e tenere a bordo i collaboratori. Alcune imprese hanno attivato in maniera stabile lo smart working, molte hanno usato questo tempo sospeso per formare i loro dipendenti e per riscoprire la capacità di essere resilienti. La normalità in futuro sarà la gestione di situazioni eccezionali e complesse: ci saranno altri possibili cigni neri e bisognerà essere in grado di trarne vantaggio, stuzzicando il nostro cervello con l’innovazione”.
“Si ha la percezione che molti oggi stiano cercando di fare tutto il possibile per tornare al mondo che conoscevano prima, riproponendo schemi del passato che però saranno ancora più indeboliti di prima. Noi professionisti, invece, abbiamo l’obbligo di riflettere sulle chiavi del futuro”, dice Paolo Ravà, Presidente dell’Ordine dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili di Genova. “Dobbiamo abituarci a guardare al tema con occhi nuovi: se i gestori dell’impresa continueranno a dover operare nel sistema organizzativo, legale, finanziario e di governance a cui sono abituati, sarà un fallimento. Il modello di creazione del profitto dev’essere sempre prioritario, ma va inserito in un sistema più allargato”.
“È necessario raccontare ai giovani una professione diversa, anche se a immaginarla non sarà la generazione di mezzo. Dobbiamo arrivare a un patto tra generazioni: essere d’aiuto a chi sa prendere rischi, ma anche imparare a prendere i nostri. E mettersi in gioco per un’economia che si basi sulle competenze e non sulle relazioni”.
Avete presente tutto quello che sapevate sui valori della vostra azienda, sugli obiettivi, sul clima e sulle relazioni interne ed esterne? Se non lo avete già fatto durante la pandemia, allora proviamo a metterlo in discussione proprio adesso.
Ogni azione che viene messa in atto ora avrà probabilmente un impatto determinante sul presente e sul futuro dell’azienda. Quando l’emergenza sarà finita, le persone ricorderanno tutto ciò che l’impresa ha saputo o non ha saputo gestire sul piano organizzativo, culturale, sociale, sanitario. Pensate all’11 settembre 2001. Dove eravate, con chi, cosa stavate facendo nel momento in cui avete appreso la notizia dell’attentato terroristico? Potremmo scommettere che ce lo ricordiamo tutti perfettamente. La nostra mente funziona così: il trauma fissa in essa anche tutto il contesto. La pandemia che ci siamo inaspettatamente trovati ad affrontare, come ogni crisi, ha portato ad una transizione da cui non è più possibile tornare indietro. Tutto quello che ci dava sicurezza, come le relazioni tra i colleghi, la modalità di gestione del personale, i comportamenti dei manager, sono inevitabilmente cambiati. L’emergenza sanitaria ci ha richiesto un rapidissimo mutamento di abitudini: è dimostrato che le realtà con una cultura aziendale ben definita e radicata hanno attutito meglio il colpo.
Ma la crisi obbliga comunque ad uscire dalla propria zona di comfort. Non a caso, il cambiamento spesso viene associato al lutto, dal momento che richiede le stesse risorse per essere elaborato. Se esso, poi, è collettivo, occorre compiere lo sforzo di trovare una strada comune per affrontarlo. Il primo passo è senz’altro comunicativo: sapere che anche gli altri vivono le nostre stesse difficoltà ci aiuta a sentirci meno soli. Sappiamo bene che, ora, la salute dei collaboratori è la priorità. Prendersi cura di sé e degli altri diventa un elemento chiave nella quotidianità aziendale. Ciò non comprende solo lo stato di salute fisica, ma anche quella emotiva. Ansia, stress, disturbi del sonno, difficoltà cognitive sono purtroppo diventati sintomi di un malessere che colpisce forse più del Covid-19.
Nella “fase 1” tante aziende si sono preoccupate in primo luogo del benessere fisico ed economico dei propri dipendenti. Lo sforzo è stato concentrato sul “qui ed ora”: misure di sicurezza, sanificazione degli ambienti, attivazione, ove possibile, del lavoro a distanza, garanzie economiche. È stato tutto talmente improvviso e inaspettato che difficilmente qualcuno avrebbe potuto opporsi alle decisioni. La “fase 2”, però, ha visto aumentare i bisogni e le richieste. Essa ci ha mostrato come l’emergenza si sarebbe protratta a tempo indeterminato. Ci siamo resi conto che alcuni settori continuavano a crescere, altri erano in forte crisi. Abbiamo capito che le scuole sarebbero rimaste chiuse, che lavorare da casa era possibile, che ridurre gli spostamenti ha giovato al tempo per sé e per la famiglia, ma anche all’ambiente.
Abbiamo cominciato a contare meno vittime e, quindi, a scovare qualche aspetto positivo della nuova condizione. L’essere umano è per natura estremamente adattabile alle circostanze: in fondo, è pur sempre un animale, che rientra in un contesto biologicamente evolutivo.
Si sono fatte strada nuove consapevolezze, quelle di chi si sente un po’ un “sopravvissuto”: la leadership, per prima, è stata chiamata ad un cambiamento. I papà e le mamme, per i figli, incarnano “il supereroe”. La stessa cosa accade in azienda nei confronti del leader. Ma di fronte ad un’emergenza sanitaria, non tutti abbiamo la vocazione all’eroismo. Anche perché, a volte, sfocia in avventatezza. La via di mezzo è il coraggio, quel sano atteggiamento di consapevolezza dei rischi, ma anche degli strumenti per superarli in sicurezza. Allora, in questo momento, è più che mai vero che il leader deve agire nell’ottica del “buon padre di famiglia”, come dice addirittura il principio che ispira le nostre leggi civili. Quell’atteggiamento di tutela e, insieme, di apertura e rassicurazione che abbiamo avuto coi nostri figli in questo periodo è senz’altro una competenza trasversale che fa bene anche all’azienda.
La crisi ha enfatizzato alcuni aspetti della cultura aziendale più legati all’impatto sulla società. Un esempio sono i nuovi spot pubblicitari girati in questo periodo: molti mettono l’accento sulla costruzione di una “nuova umanità”. Saremo davvero persone migliori? Difficile a dirsi ora, anche se è auspicabile. Di certo, ci auguriamo che le aziende non torneranno indietro rispetto ai comportamenti virtuosi attuati. Dallo smart working alla digitalizzazione, dal sostegno alle famiglie sino alla sicurezza dei luoghi di lavoro, dalla comunicazione alla condivisione di strategie, si sono compiuti passi enormi a cui, d’ora in poi, difficilmente le persone vorranno rinunciare.
Analizzate queste situazioni, ora bisogna affrontare la “fase 3”. Come si fa a non disperdere tutto questo? Nessuna rivoluzione acquisisce un senso se non la si governa e non si mettono a frutto gli insegnamenti. Siamo certi che la pandemia avrà messo in evidenza talenti inaspettati, nuove competenze trasversali, capacità finora non considerate utili sul luogo di lavoro. Ma nella “fase 3” non c’è più spazio per l’improvvisazione: è il tempo dell’organizzazione. Ci sono aziende che hanno vissuto l’euforia di sentirsi un po’ eroiche: pensiamo a quelle che hanno convertito la produzione o che già prima producevano mascherine, respiratori, medicinali, presidi sanitari e di sicurezza. Al contrario, pensiamo a chi ha perso ogni motivazione per andare avanti: operatori del turismo, dei servizi, che si sono trovati a dover ricorrere agli ammortizzatori sociali, che hanno davanti a sé una lunga salita prima di ritornare ad una parvenza di normalità. Situazioni opposte che rischiano di implodere, per motivi del tutto diversi. Per i dipendenti, è il momento di rivedere obiettivi, engagement, retention, prassi organizzative. Come?
I dati emersi dalla survey che abbiamo sottoposto a circa 1.500 lavoratori e lavoratrici parlano chiaro: il 69% delle persone si aspetta che, per favorire il rientro, la propria azienda dia spazio ai pensieri e agli stati d’animo delle persone. Il 62% dichiara di provare preoccupazione all’idea di “tornare alla normalità”, perché il futuro sembra ancora incerto. Il 68% ritiene fondamentale la dote di ascolto nel proprio manager.
Il programma digitale Lifeed Crisi è in grado di sostenere le aziende nella delicata fase di ripresa. Grazie ai moduli formativi esso permette ai partecipanti non solo di elaborare la crisi, ma anche di interrogarsi sulle life skill che ha fatto emergere. Raggiunta la consapevolezza, grazie a un diario individuale che tiene il passo della formazione vera e propria, si possono condividere idee, sensazioni e stati d’animo in una stanza comune di discussione. Una nuova visione, una rinnovata cultura aziendale possono così andare costruendosi proprio a partire da ciò che i collaboratori esprimono. Ammettere, ad esempio, la paura per il futuro e poi condividerla è il passo per superarla. Le emozioni negative, se non affrontate ed elaborate, possono diffondersi in azienda proprio al pari del virus.
Lifeed Crisi consente di affrontare il cambiamento: mette tutta la popolazione aziendale in condizione di acquisire consapevolezza delle nuove competenze chiave allenate durante la crisi e di co-progettare un processo di rinnovamento della cultura aziendale. Ogni collaboratore si trova al centro e si trasforma in motore di cambiamento. Il percorso formativo è basato sul Life Based Learning: nella transizione le persone tirano fuori competenze ed energie inaspettate e le aziende hanno l’opportunità di migliorare i processi e di innovare. Esso, inoltre, favorisce la riduzione dello stress: le persone si raccontano, condividono e mettono a fuoco paure, incertezze e desideri, trovando nuovi punti di riferimento dentro di sé. Ogni modulo si conclude con l’invito a contribuire alla “narrazione collettiva” insieme ai colleghi, per confrontarsi e arricchirsi reciprocamente, generare contenuti per l’azienda, a partire dai propri bisogni, riflessioni, idee. I partecipanti diventano così anche “autori” del cambiamento, per restituire valore alla propria azienda: se la pandemia ci ha insegnato una cosa, è che “nessuno si salva da solo”.
Se Vasco Rossi si fosse ispirato all’esperienza lavorativa dei nostri nonni, forse anche a quella dei nostri genitori, probabilmente non avrebbe scritto “Vita spericolata”, quanto piuttosto “Vita prudente”. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno conosciuto senz’altro momenti storici difficili, ma la professione, almeno quella, era una certezza. Esisteva il “mito del posto fisso”, quello che, ormai, si studia sui libri di scuola, a cavallo tra la storia e la letteratura. Le tappe della vita erano ben definite, l’approdo al contratto a tempo indeterminato segnava un engagement definitivo. Se avessimo raccontato loro della letteratura scientifica che esiste oggi su questo tema, probabilmente avrebbero sorriso. Eppure, non è affatto scontato che fossero più appagati e realizzati delle nuove generazioni. Oggi le transizioni lavorative sono fisiologiche: anche chi segue un iter tutto sommato lineare, molto difficilmente potrà esimersi dallo sperimentare almeno qualche tirocinio, un contratto di apprendistato, collaborazioni esterne, per poi approdare ad una certa stabilità contrattuale, ma, anche in questo caso, non escludendo diversi cambi di azienda.
Pier Giovanni Bresciani, Docente di Psicologia del Lavoro presso l’Università di Urbino e Presidente della SIPLO – Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, che è uno dei massimi esperti di transizioni in Italia, nei suoi testi fondamentali (cfr. ad es. Biografie in transizione. I progetti lavorativi all’epoca della flessibilità. Franco Angeli, Milano, 2006) osserva giustamente come queste transizioni lavorative avvengano oggi in un contesto sociale molto più “liquido”, per dirla con Bauman. L’incertezza soggettiva, data da una società che ha abdicato al proprio ruolo di accompagnamento alla crescita dell’individuo, difficilmente viene sostenuta dalle contromisure messe in atto nel mondo della formazione e del lavoro. Come fa notare Bresciani, per affrontare la transizione le persone utilizzano e mescolano elementi diversi, che fanno parte della propria dotazione individuale di risorse. Ecco perché ogni cambiamento, anche se positivo, è comunque un momento delicato nella vita. Ogni ‘spostamento’ richiede sempre al soggetto una ridefinizione cognitiva, a volte anche molto complessa: essa evoca sempre ansie, paure, insicurezze, ci pone di fronte alle nostre scelte e al giudizio che abbiamo su noi stessi, ma anche a quello degli altri (o al timore di quello che gli altri vedono in noi). Lasciare il noto per l’ignoto comporta emozioni complesse, la cui elaborazione richiede risorse personali importanti.
Pensiamo alla maternità e alla paternità. Questo è forse il più grande e significativo cambiamento di vita che una persona può vivere. Ebbene, anche la maternità e la paternità sono delle transizioni e per noi, proprio per questo, sono anche delle palestre di efficacia professionale. Qualunque sia il nostro ruolo in azienda, quello che apprendiamo diventando genitori può essere messo a frutto anche sul lavoro. Quasi inevitabilmente il genitore aumenterà la propria capacità di ascolto, di mediazione, di comprensione dei colleghi e collaboratori. Il modello di leadership, di gestione del conflitto, persino quello della gestione del proprio tempo (e, di conseguenza, la produttività) possono cambiare positivamente, se guidati ed accompagnati a riconoscere le abilità che la transizione ha portato con sé.
Pensiamo, più in generale, a quella che definiamo “la nostra esperienza”. È quella che descriviamo sul curriculum, ma anche quella che avanziamo come argomento di conversazione, o per consigliare qualcuno. “Secondo la mia esperienza” è di solito l’incipit che fa sì che il nostro interlocutore difficilmente possa eccepire o ribattere: è un argomento quasi assoluto, insindacabile, perché presenta un aspetto di sé come un fatto, non come opinione. Ma quella condizione di vita che definiamo esperienza la costruiamo proprio transizione dopo transizione. La difficoltà consiste nell’affrontarla, elaborarla, metterla a frutto, anche sul lavoro, perché questo importante bagaglio personale porta con sé l’acquisizione di competenze. Difficilmente, tuttavia, le cosiddette life skills, o anche le soft skills, possono essere riconosciute e trasformate in un punto di forza in autonomia. Non è la scuola che ci insegna a metterle in pratica, nemmeno l’Università. Con Lifeed, la formazione tra digitale e vita reale che valorizza le esperienze di vita e le rende risorse preziose per l’attività lavorativa, abbiamo pensato e strutturato addirittura un master (anzi, più di uno) per apprendere l’enorme potenziale di sviluppo che la transizione porta con sé. Con cinque anni di esperienza alle spalle, sappiamo che le persone che attraversano una transizione possono uscire più deboli o molto più forti: dipende da come la attraversano.
L’esempio che abbiamo fatto (diventare genitori) è riferito ad una cosa bella. Ma non tutte le transizioni derivano da un evento positivo. Pensiamo all’emergenza sanitaria data dal Covid-19. Essa ha portato cambiamenti, in noi e nel mondo del lavoro, da cui sarà difficile tornare indietro. Eppure, anche questa transizione non è positiva o negativa in sé. Dipende da come la si vive. Lifeed Transitions vuole aiutare le aziende e i loro dipendenti a ricavare i frutti positivi di questa esperienza. Rischi ed opportunità sono due facce della medaglia che il destino ha lanciato in aria, ma noi abbiamo la possibilità di condizionare il lato su cui la moneta cadrà. L’uomo è animale sociale: questo lavoro non può essere solo interiore. Deve coinvolgere il contesto in cui siamo inseriti.
Ecco perché Lifeed Transitions permette non solo di apprendere la gestione di questa transizione e farla diventare motivo di crescita personale, ma anche di porla come terreno di confronto e crescita del team. I partecipanti, “dal basso” possono contribuire alla (ri)costruzione di una nuova cultura aziendale, che parta dal riconoscimento e dalla applicazione delle nuove competenze apprese dal singolo. In questo modo, la medaglia cadrà sulla faccia giusta, quella delle opportunità: lo psicologo e politico David Halpern parla di “crescita postraumatica” in contrapposizione alla sindrome da stress postraumatico. Questo esempio ci aiuta a capire come un evento doloroso, cui tendenzialmente assoceremmo esiti negativi, grazie ad un supporto idoneo e competente può non solo essere superato senza traumi, ma addirittura portare ad un miglioramento. Il momento della crisi è un guado: la struttura giusta può aiutarci a superarlo indenne.
Il Bridges’ Transition Model insegna a riconoscere gli stati d’animo che affrontiamo durante la transizione: la fine di qualcosa porta ad essere sotto shock, spaventati, arrabbiati. Ne consegue un disorientamento, una confusione mentale, uno stato di frustrazione o addirittura di apatia. Se abbiamo gli strumenti adatti, possiamo trasformare queste sensazioni negative in un nuovo inizio. Se, al contrario, non è gestita, la transizione può avere ripercussioni molto negative, anche sul benessere dell’azienda. Se non si abilitano nuovi linguaggi, non si esplicita la rottura dei vecchi stereotipi e non si fa spazio all’incertezza e al bisogno delle persone di esprimersi, la ricaduta potrebbe essere un aumento dello stress dalla durata molto lunga e una perdita di senso per molte persone.
Non sono gli individui più forti o più intelligenti a sopravvivere alla crisi, ma coloro che sono capaci di adattarsi al cambiamento. Perché questo avvenga, è necessario capire a fondo i mutamenti cui siamo andati incontro, le competenze che abbiamo sviluppato per affrontarli e comprendere come possono essere applicate con successo nel nostro contesto lavorativo. È solo quando abbiamo attraversato il guado che, un po’ increduli, ci chiediamo come abbiamo fatto ad arrivare indenni dall’altra parte. Allora, dobbiamo guardarci indietro per capire il passato, anche gli errori. Il presente, infatti, serve proprio a rimediare ed essi. Il passato non va visto in ottica profetica: quello che è successo non è destinato a ripetersi, se abbiamo imparato come evitarlo. Lo sguardo al futuro deve rendere generativi gli apprendimenti che ci hanno permesso il passaggio. Creatività, intraprendenza, apertura mentale, gestione del cambiamento, visione: sono queste le capacità che i partecipanti ad una nostra survey si sono attribuiti, mentre attraversavano l’emergenza sanitaria. Si tratta di skills importanti, che possono essere applicate con successo al lavoro.
Il master Lifeed Transitions accompagna non solo nella fase del riconoscimento, grazie allo strumento della narrazione di sé, ma aiuta a condividere in “stanze virtuali” le proprie sensazioni: “nessuno si salva da solo” è un primo, grande apprendimento che ci ha lasciato in eredità il Covid-19. Scoprendo le proprie risorse si può attraversare quel ponte sospeso tra l’incertezza e l’autonomia (If You’re Burning Out, Carve a New Path, Harvard Business Review April 2020), agendo per controbilanciare il “carico allostatico” e lo stress dati dalla crisi. Il termine “allostasi” venne coniato nel 1988 da Peter Sterling e Joseph Eyer (dal greco ‘allo’, che significa variabile e ‘stasis’ che significa stabile), per indicare che la stabilità dell’organismo è il risultato del cambiamento. Questo modello si può definire predittivo, perché cerca di anticipare le domande dell’ambiente agendo sempre sugli stessi sistemi dell’organismo. È alla base, quindi, di un concetto oggi molto utilizzato, quello della ‘resilienza’: anche tale capacità si può apprendere ed allenare, per diventare protagonisti, non spettatori della nostra storia. Non è da confondersi con la resistenza: questa è la semplice presa d’atto delle proprie cicatrici, nonostante le quali proseguire il cammino. La resilienza, invece, è la capacità di imparare da esse, ammettendo e comprendendo i propri errori e trasformandoli in punti di forza: ciò permette non solo di migliorarsi, ma anche di affrontare la paura del cambiamento, che è del tutto naturale. Questo non possiamo impararlo se, semplicemente, ce lo racconta qualcun altro. L’incertezza provocata dalla transizione fa emergere le meta competenze che più servono al mondo del lavoro e che sono più difficili da formare in aula: l’attitudine al cambiamento continuo, la tolleranza dell’errore, lo spirito di iniziativa, l’imprenditorialità, l’agilità mentale, la leadership, la responsabilità, l’autodeterminazione. Sono tutte capacità che vanno rafforzate con un aiuto competente.
Lifeed Transitions fa esattamente questo: grazie al team scientifico che lo ha progettato, altamente esperto di questi temi, sa fare spazio alle riflessioni delle persone, accompagnarle in un percorso attraverso la crisi, mettendo in evidenza come cambiano le loro identità, rassicurandoli e facendoli sentire più forti. A beneficio di tutti, perché, come ci insegna Darwin, ai fini della sopravvivenza non conta solo l’eccellenza del singolo individuo, ma l’intero contesto biologico e sociale in cui è immerso.