Immagina di essere una… torta

Immagina di essere una torta, una bella torta di compleanno, che tutti gli invitati non vedono l’ora di fare a fette e assaggiare. Ad ogni fetta messa nel piattino corrisponde un assottigliarsi del dolce, fino a sparire del tutto. Prova ad immaginare, ora, di quante fette è composta la tua torta. Probabilmente ti visualizzerai mentre dai una fetta ai tuoi figli, una fetta alla tua compagna o al tuo compagno, una fetta ai tuoi genitori, una ai tuoi amici e ai tuoi colleghi, e poi alla fine, se rimane, una anche a te.

La metafora è semplice: più sono le persone e le attività di cui ti occupi, più piccole sono le fette di torta che puoi dare ad ognuna di queste. Ma se potessi dedicarti a una sola cosa, quanta energia potresti mettere solo di essa? Ti sembra che nella tua torta ci sia abbastanza spazio per tutto? Probabilmente no.

Ma non devi preoccuparti: abbiamo una buona notizia! L’idea di noi come delle torte è stata superata. Le ultime ricerche sociologiche hanno mostrato una storia completamente diversa, ovvero che più ruoli nella stessa persona si accumulano e più si accumulano, più si rinforzano l’un l’altro, trasferendo tra loro energie e competenze.

Una buona notizia: i ruoli si accumulano

Pensiamo all’amore che doniamo alle persone che ci circondano: esso non è esclusivo. Siamo in grado di amare genitori, partner, figli, amici, ognuno in modo diverso, ma senza che l’affetto per l’uno diminuisca quello a disposizione per gli altri. L’amore si moltiplica, non si divide. Vale anche per le (buone) idee: se io ho due mele e ne regalo una ad un amico, ne avremo una a testa. Ma se io e il mio amico abbiamo due buone idee e ci rendiamo partecipi di esse vicendevolmente, avremo entrambi due buone idee. Ebbene, la stessa cosa vale per le competenze e l’energia: vengono moltiplicate, non divise e ci ritroviamo ad averne di più.

Le ultime ricerche sociologiche hanno mostrato che più ruoli nella stessa persona si accumulano e più si accumulano, più si rinforzano l’un l’altro, trasferendo tra loro energie e le competenze.

Cambiamo prospettiva, allora, alla visualizzazione della nostra torta. Adesso, immaginate che ogni ospite, invece di accaparrarsi una porzione, la aggiunga, fino a far diventare enorme il nostro dolce. MultiMe è un prodotto digitale che nasce proprio per scardinare lo stereotipo delle “fette di torta”, che non solo abbiamo su noi stessi ma che, spesso, anche la nostra azienda ha su di noi.

Le basi scientifiche di MultiMe

Nonostante la metafora suggestiva, MultiMe ha basi scientifiche molto solide, frutto di una ricerca multidisciplinare, che prosegue negli anni arricchendosi di nuovi contributi. Anche questa volta, partiamo da un esempio.

Marco è un pompiere, ed è anche marito e padre. Scoppia un incendio mentre è in servizio e deve accorrere. Giunto sul posto, si rende conto che il fuoco sta bruciando la una casa, in cui sono presenti due adulti e due bambini. In questa situazione, Marco si comporterà da pompiere o da padre di famiglia? Chi ha provato MultiMe, sa che la domanda è mal posta. Marco potrà unire il coraggio da pompiere all’amore del padre di famiglia, agendo con razionalità e salvando le persone dalle fiamme, come se fossero i suoi familiari, i suoi bambini. Questo perché i diversi ruoli che ricopriamo non annullano o escludono gli altri, ma si arricchiscono a vicenda.

L’esempio è volutamente estremo, ma pensiamo alle nostre vite più ordinarie. La capacità di ascolto e di mediazione che esercitiamo coi figli, o al contrario alcune competenze manageriali che esercitiamo coi colleghi, sono tutte abilità maturate tra i nostri ruoli, e che ci portiamo sempre con noi. Siamo più della somma delle nostre parti, e MultiMe ci permette di rendercene conto. MultiMe, in ultimo, permette il passaggio dal “role conflict” al “role accumulation”.

Il tool è stato realizzato da un team scientifico composto da Riccarda Zezza, dalle ricercatrici di Lifeed e dalla professoressa Maferima Touré-Tillery, ricercatrice della Kellogg School of Management della Northwestern University. Si avvale di anni di ricerca nel campo della “teoria dei ruoli”.

La teoria dei ruoli e la sua evoluzione grazie a Lifeed

Come sempre, partiamo dalla definizione. Viene in nostro aiuto Roger Barker, tra i fondatori della psicologia di comunità, che spiega le teorie dei ruoli come “un gruppo di concetti, basati su ricerche socioculturali e antropologiche, che riguardano il modo in cui le persone sono influenzate nei loro comportamenti dalla varietà delle posizioni sociali che ricoprono e dalle aspettative che li accompagnano”.

La “teoria dei ruoli” comprende due linee divergenti di pensiero e ricerca, che sono quella del role conflict e quella del role facilitation. I primi studi sul role conflict risalgono agli anni Sessanta, ad opera di William Goode. Egli elaborò la teoria del role strain, sostenendo che ricoprire diversi ruoli sociali è impegnativo, in quanto richiede risorse di tempo ed energia conflittuali tra loro, che causano, quindi, un forte disagio. Poi, gli studi successivi si sono concentrati sull’impatto positivo del ricoprire contemporaneamente più ruoli. In particolare, Sieber e Marks, negli anni Settanta, hanno dato risalto al fatto che rivestire più ruoli produce un maggiore benessere, perché i benefici associati all’accumulo di ruoli, generalmente, superano lo stress correlato al ruolo.

L’interesse per gli effetti delle interazioni tra ruoli diversi è aumentato negli ultimi decenni, poiché la partecipazione femminile al mercato del lavoro è aumentata e le donne hanno raggiunto livelli più alti nella gerarchia aziendale, aumentando le loro responsabilità all’interno delle organizzazioni. Inizialmente, gli studi organizzativi si sono concentrati sull’aspetto conflittuale del rapporto lavoro-famiglia, suggerendo che le donne che cercavano di conciliare famiglia e carriera soffrissero di stress psicologico e fisico. Tuttavia, nei primi anni Duemila comparvero studi (es. Ruderman, 2002) che evidenziavano i benefici a livello di competenze, ma anche psicologici, del “multitasking”.

Sieber e Marks, negli anni Settanta, hanno dato risalto al fatto che rivestire più ruoli produce un maggiore benessere, perché i benefici associati all’accumulo di ruoli, generalmente, superano lo stress correlato al ruolo.

Di fronte ad evidenze qualitative e quantitative, la ricerca di Lifeed ha approfondito questi aspetti di “role accumulation”, volti a raggiungere non tanto la conciliazione o l’equilibrio tra i ruoli, quanto una reale sinergia tra le diverse aree che interessano le nostre vite. Le risorse che abbiamo in noi “traboccano” tra i diversi ruoli, ma solo se riconosciamo la sinergia tra le parti della nostra vita e, tenendole insieme, le rafforziamo reciprocamente.

La transilienza

La teoria della role accumulation afferma che l’intera persona è più della somma delle parti che la compongono: ricoprire alcuni ruoli può generare risorse da utilizzare in altri. Il metodo Lifeed stimola, rende le persone consapevoli e innesca questo spillover positivo (“overflow positivo”), da un ruolo all’altro della vita. Lifeed migliora il potenziale educativo delle transizioni (come la genitorialità, la cura di un proprio caro, una crisi…), trasformando queste fasi di vita in uno strumento di sviluppo professionale.

Nasce così il concetto di transilienza, una combinazione di due parole: transizione e resilienza (Vitullo, Zezza, 2014). La transilienza è una meta-competenza (cioè una competenza delle competenze) che viene esercitata quando le abilità, le energie, le risorse emotive fluiscono da un ruolo all’altro. Per attivare la transilienza, l’individuo deve essere consapevole di essere una torta che cresce sempre e non si assottiglia.

Una torta che si arricchisce di continuo

Il metodo Lifeed usato nei nostri master si arricchisce oggi, dicevamo, di un nuovo strumento. MultiMe è un tool interattivo che aiuta a vedersi e farsi vedere come quella torta di compleanno su cui tutti gli invitati aggiungono una fetta, invece che sottrarla.

Nel semplice esercizio proposto da MultiMe, che si può ripetere all’inizio e alla fine dei nostri master, dopo aver individuato i singoli ruoli che ricopriamo ci viene chiesto di associare ad ognuno tre o più qualità. Al termine, scopriremo che alcuni ruoli hanno in comune molti aggettivi: si sovrappongono su diversi punti. I livelli di coesione e coerenza tra le parti aumentano.

Un più alto indice di “self overlap” implica anche un maggiore coordinamento etico, come ha dimostrato la professoressa Maferima Touré-Tillery nelle sue ricerche. Più i ruoli si sovrappongono, più la persona tende a comportarsi in modo etico, a non percepirsi divisi in compartimenti stagni. Pensiamo alla ricaduta che ciò può avere su un professionista che ha grandi responsabilità decisionali in azienda: più è coerente nella definizione di sé e dei propri ruoli, più sarà propenso ad assumersi responsabilità nell’ottica del bene comune.

Più i ruoli si sovrappongono, più la persona tende a comportarsi in modo etico, come ha dimostrato la professoressa Tillery della Kellogg School of Management della Northwestern University.

MultiMe è in grado di misurare quantitativamente e qualitativamente il “self overlap” e la ricchezza che porta con sé. Rende possibile mappare i risultati ottenuti dai partecipanti, come dato aggregato, valutando dunque in maniera oggettiva l’impatto del master. Scopriamo così che lo sguardo può andare oltre la superficie di fatica, di tempo limitato che percepiamo dei nostri ruoli, riconoscendone invece l’arricchimento.

I numeri ci danno ragione: 8.3 partecipanti su 10 suggerirebbero ad un amico di provare il nostro metodo. Il prossimo autunno avremo a disposizione i dati di impatto preliminari: saremo in grado di valutare, numeri alla mano, l’evoluzione delle nostre… torte di compleanno. E le torte di compleanno, lo sappiamo tutti, devono essere belle grandi!

Cristina Gabetti ha intervistato la nostra CEO Riccarda Zezza per una speciale puntata di Occhio al futuro, dedicata agli SDG, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che puntano alla salvaguardia del pianeta e al benessere dei suoi abitanti. Secondo Cristina Gabetti, le nostre soluzioni rispondono a ben 8 obiettivi. Guarda qui la puntata di Occhio al futuro andata in onda su Striscia la Notizia il 21 marzo 2020.

https://www.video.mediaset.it/player/playerIFrame.shtml?id=1099569&autoplay=false

Cristina Gabetti: Tutti noi ci prendiamo cura di giovani e/o anziani, e sappiamo quante competenze servono per farlo bene. Oggi incontriamo una donna che, partendo dalla sua esperienza di vita, ha creato un metodo per trasferire le competenze soft in ambito professionale. Riccarda com’è nata la tua idea e come funziona?

Riccarda Zezza: È nata dal fatto che quando sono diventata mamma ed ero manager in una grande azienda ho scoperto che essere madre era una problema nel mondo del lavoro. Mentre, invece, la stessa azienda mi mandava a fare formazione in una serie di competenze soft che proprio l’esperienza della maternità stava allenando benissimo. Pensa ad esempio alla gestione del tempo, la gestione delle crisi, l’empatia. Ho visto un grande paradosso, un grande spreco: perché le aziende spendono tantissimi soldi in formazione per una serie di competenze che la vita allena in modo naturale. Questo è successo 7-8 anni fa, da li è partita la ricerca che ho fatto con Andrea Vitullo che è un executive coach, ed effettivamente abbiamo scoperto che quando si diventa genitori si migliorano una serie di competenze che servono al mondo del lavoro. Sette anni dopo, oggi, questo metodo di apprendimento lo vendiamo alle aziende attraverso una piattaforma digitale, quindi le nostre aziende clienti aprono il percorso digitale neogenitori, neomamme o neopapà, ma anche da qualche tempo a caregiver dei propri genitori… perché ogni esperienza di cura migliora queste competenze e le persone possono scoprire come prendersi cura di un bambino o un anziano migliorino proprio le competenze che servono nel mondo del lavoro.

Cristina Gabetti: Questa iniziativa adempie a ben 8 SDG. Adesso qual’è il tuo sogno?

Riccarda Zezza: Oggi siamo in 23 paesi e gli utenti della piattaforma ci dicono che già hanno queste energie, queste competenze; hanno solo bisogno dello spazio per portarle nel mondo e nella società. Il mio sogno è quello di arrivare il più velocemente possibile a dimostrare all’economia e alla società che prendersi cura è un valore, è un bisogno che la specie umana ha tutte quelle energie e quelle risorse che oggi stiamo cercando nei posti sbagliati.

Cristina Gabetti: Grazie Riccarda. Saper osservare e riflettere, valutare obiettivi e prendere decisioni, migliorarsi, adattarsi, e giocare, rende tutto più facile. Occhio al futuro!

Cristina Gabetti ha intervistato la nostra CEO Riccarda Zezza per una speciale puntata di Occhio al futuro, dedicata agli SDG, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che puntano alla salvaguardia del pianeta e al benessere dei suoi abitanti. Secondo Cristina Gabetti, le nostre soluzioni rispondono a ben 8 obiettivi. Guarda qui la puntata di Occhio al futuro andata in onda su Striscia la Notizia il 21 marzo 2020.

 

 

 

Cristina Gabetti: Tutti noi ci prendiamo cura di giovani e/o anziani, e sappiamo quante competenze servono per farlo bene. Oggi incontriamo una donna che, partendo dalla sua esperienza di vita, ha creato un metodo per trasferire le competenze soft in ambito professionale. Riccarda com’è nata la tua idea e come funziona?

Riccarda Zezza: È nata dal fatto che quando sono diventata mamma ed ero manager in una grande azienda ho scoperto che essere madre era una problema nel mondo del lavoro. Mentre, invece, la stessa azienda mi mandava a fare formazione in una serie di competenze soft che proprio l’esperienza della maternità stava allenando benissimo. Pensa ad esempio alla gestione del tempo, la gestione delle crisi, l’empatia. Ho visto un grande paradosso, un grande spreco: perché le aziende spendono tantissimi soldi in formazione per una serie di competenze che la vita allena in modo naturale. Questo è successo 7-8 anni fa, da li è partita la ricerca che ho fatto con Andrea Vitullo che è un executive coach, ed effettivamente abbiamo scoperto che quando si diventa genitori si migliorano una serie di competenze che servono al mondo del lavoro. Sette anni dopo, oggi, questo metodo di apprendimento lo vendiamo alle aziende attraverso una piattaforma digitale, quindi le nostre aziende clienti aprono il percorso digitale neogenitori, neomamme o neopapà, ma anche da qualche tempo a caregiver dei propri genitori… perché ogni esperienza di cura migliora queste competenze e le persone possono scoprire come prendersi cura di un bambino o un anziano migliorino proprio le competenze che servono nel mondo del lavoro.

Cristina Gabetti: Questa iniziativa adempie a ben 8 SDG. Adesso qual’è il tuo sogno?

Riccarda Zezza: Oggi siamo in 23 paesi e gli utenti della piattaforma ci dicono che già hanno queste energie, queste competenze; hanno solo bisogno dello spazio per portarle nel mondo e nella società. Il mio sogno è quello di arrivare il più velocemente possibile a dimostrare all’economia e alla società che prendersi cura è un valore, è un bisogno che la specie umana ha tutte quelle energie e quelle risorse che oggi stiamo cercando nei posti sbagliati.

Cristina Gabetti: Grazie Riccarda. Saper osservare e riflettere, valutare obiettivi e prendere decisioni, migliorarsi, adattarsi, e giocare, rende tutto più facile. Occhio al futuro!

Si è tenuto lo scorso 27 gennaio presso l’Ambasciata italiana a Londra, il primo evento del ciclo Italy4Innovation del 2020, dedicato a un tema strettamente connesso alla sostenibilità: gli investimenti a impatto – a cui ha preso parte anche la nostra CEO Riccarda Zezza, imprenditrice sociale e portatrice di un nuovo concetto di “human sustainability”.

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Over 50 in azienda: caregiving e carriera

In un Paese che fa pochi figli e che invecchia sempre di più, i cinquantenni sono diventati i ‘nuovi giovani’ che possono portare nelle aziende il loro notevole bagaglio di esperienza. Ma questo cambiamento sociale non è stato ancora codificato a livello organizzativo, e gli over 50 sono spesso ‘tagliati fuori’ dalle nuove sfide e opportunità del mondo del lavoro, senza riuscire a esprimere appieno tutto il loro potenziale.

A fotografare questa situazione è la ricerca Talenti senza Età realizzata da Valore D, in collaborazione con il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica di Milano, che ha coinvolto 36 aziende e oltre 13 mila lavoratori.

Dalla ricerca emerge che quasi la metà delle persone (45,7%) sono molto motivate sul lavoro, ma incontrano momenti di difficoltà, perché affrontano un periodo di vita complesso: la grande maggioranza degli intervistati dichiara di aver attraversato negli ultimi anni cambiamenti profondi, con un coinvolgimento diretto nelle relazioni di cura che ha rivoluzionato il loro assetto di vita (63,6%).

Di fronte a questo scenario, le aziende possono reagire in vari modi. Possono provare a ignorare il fenomeno dei caregiver e cercare di tenerlo fuori dal luogo di lavoro. Oppure attivarsi nel proporre ai dipendenti efficaci servizi di supporto. Meglio ancora, assieme all’erogazione di servizi, possono decidere di valorizzare questi cambiamenti di vita delle persone, ottenendo così un doppio beneficio:

Ma perché sono così importanti le relazioni di cura?

Siamo caregiver naturali? La risposta è sì.

Come segnala uno studio di Michael Brown e Stephanie Brown pubblicato su Social Issues and Policy Review esistono diverse indagini scientifiche che suggeriscono l’ipotesi che le persone siano caregiver naturali. Le teorie evolutive ipotizzano che la nostra particolare sensibilità ai bisogni degli altri, al prendersi cura degli altri, siano fondamentali per la natura umana, perché orientate alla sopravvivenza. D’altronde è difficile immaginare che la specie umana, così fortemente dipendente dall’aiuto dei propri simili, sarebbe sopravvissuta se i costi psicologici e fisici associati all’aiuto e alla cura non fossero stati compensati da conseguenze benefiche.

Alla luce di queste considerazioni, le esperienze di cura possono divenire un driver del benessere organizzativo e, come evidenziato da Kramer (1997), è possibile ricondurre molti effetti positivi del caregiving alle dimensioni del benessere descritte da Ryff, che si identificano con:

Non a caso Daniel Goleman, il papà dell’intelligenza emotiva, ritrova queste stesse attitudini anche in una ricerca pubblicata recentemente su Korn Ferry: nelle interviste a 30 fondatori, amministratori delegati e alti dirigenti di società che si contraddistinguono per “scopi visibili e autentici, dipendenti coinvolti, culture orientate al cliente e forti risultati finanziari”, è emerso che tutte le loro organizzazioni hanno quattro caratteristiche in comune:

  1. Chi è al comando è guidato da valori e scopi nel prendere le decisioni. Nel linguaggio di Ryff, questo si può definire “purpose in life”.
  2. Le persone sono la massima priorità dell’azienda e i dirigenti investono su di loro per favorirne la crescita. Un esempio di “positive relations with others”.
  3. La cultura aziendale riflette le comunità di appartenenza, perché ogni persona porta tutto di sé sul lavoro. Questa attitudine possiamo definirla “self-acceptance”.
  4. In tutte le divisioni dell’organizzazione esistono pratiche abilitanti, che rivelano un impegno complessivo al raggiungimento dello scopo dichiarato e che rientrano nelle “environmental mastery”.

Ma veniamo ora alla domanda che apre questo articolo:

Diventare caregiver: stress o risorsa? Oppure entrambe le cose?

La risposta giusta è: dipende.

Dipende dal contesto. L’azienda deve creare un terreno comune d’incontro nella narrazione di sfide e soluzioni che riguardano il 73% dei propri dipendenti.

Dipende dalle risorse a disposizione. Le persone vanno incoraggiate a scoprire le competenze che hanno già e a capire come migliorarle.

Dipende dalla capacità di condivisione dell’esperienza. Una potenziale crisi diventa occasione per fare rete, rivelare talenti inaspettati, migliorare il clima.

Ad approfondire la questione ci aiuta un articolo apparso quest’anno sulla Harvard Business Review: Why business should support employees who are caregivers?.

Nell’articolo si rileva che:

Occorre costruire una cultura della cura

Il caregiving è stata a lungo una questione invisibile per i dirigenti d’azienda, in particolare tra i dirigenti le cui carriere sono iniziate quando gli uomini dominavano la forza lavoro e le donne dovevano affrontare da sole tutte le esigenze di assistenza. Ancora oggi persiste un circolo vizioso: i dipendenti caregiver soffrono in silenzio e evitano benefici potenzialmente utili, e i datori di lavoro presumono che i caregiver stiano affrontando bene la loro situazione e riducono le risorse a loro dedicate. Mancano gli incentivi per raccogliere dati o modificare le politiche aziendali, quindi le prestazioni lavorative dei caregiver peggiorano e continuano i pregiudizi nei loro confronti.

Per uscire da questa spirale negativa le aziende devono sviluppare una nuova cultura della cura, riconoscendo le esigenze dei dipendenti caregiver e supportando le loro ambizioni professionali.

Le aziende devono essere pronte a vedere e utilizzare il potenziale che la vita porta con sé, in modo da valorizzare e sfruttare le risorse che si generano nei loro dipendenti.

Ogni decisione di business viene presa sulla base di dati e informazioni. Ma le aziende sanno guardare allo stesso modo verso il proprio interno? Si accorgono, ad esempio, che alcune esperienze di vita dei dipendenti potrebbero ridurne la produttività, o addirittura causare la loro uscita dal mondo del lavoro?

I carichi di cura familiare, ad esempio, rappresentano una situazione che, se trascurata, può raggiungere livelli talmente intensi da provocare ingenti costi a carico dell’azienda. La maggior parte dei lavoratori di oggi ha, infatti, due vite lavorative: quella di cui parla, come dipendente, e quella nascosta e ignorata dalle aziende di caregiver. I “caregiver familiari” sono coloro che a titolo non professionale e gratuito si prendono cura di una persona cara affetta da malattia cronica, disabile o con un qualsiasi altro bisogno di assistenza a lungo termine. In questa definizione sono inclusi gli anziani.

Secondo un recente report dell’Harvard Business University The Caring Company, che abbiamo sintetizzato nel paper La Strategia della Cura, nelle aziende il 73% dei dipendenti è anche caregiver.

Alcuni dati di The Caring Company ripresi nel Paper La Strategia della Cura

Questo numero è destinato a crescere. Con l’aumento delle famiglie monoparentali, la partecipazione al mondo del lavoro di entrambi i partner, e l’incremento di altre forme di famiglia “non tradizionale”, i lavoratori avranno sempre meno risorse a cui affidarsi. Cresce anche la cosiddetta “sandwich generation” – che include quelle persone che si trovano simultaneamente a dover gestire la cura dei figli e quella dei genitori anziani – spesso con carichi fisici, emotivi e finanziari che aumenteranno ancora più marcatamente.

Il carico di cura familiare coinvolge tutta la popolazione aziendale, per età e per livello di seniority, ed è destinato a rendersi sempre più pesante, a causa dei cambiamenti demografici e sociali.

Le aziende capaci di riconoscere la complessità della vita delle proprie persone, valorizzare i loro vari ruoli, saranno sempre più in grado di accrescere la motivazione, consentendo ai dipendenti di esprimere meglio sé stessi e di avere più energie anche sul lavoro. Adottando una vera e propria “strategia della cura”, le aziende cambiano focus e apprendono come avvenimenti comuni e frequenti nella vita dei dipendenti – come la nascita di un figlio, la convivenza, una malattia o la cura di un famigliare anziano o disabile – non vengano più vissuti come un’anomalia, ma piuttosto come delle occasioni di crescita personale e professionale, con impatti positivi sulla carriera e la produttività.

Poste Italiane è un’azienda che ricopre un ruolo strategico per lo sviluppo del nostro Paese e per il raggiungimento di obiettivi generali di sostenibilità: le attività svolte, la presenza sul territorio e l’infrastruttura tecnologica a disposizione sono caratteristiche uniche che la rendono protagonista in questo contesto.

Con una storia di oltre 150 anni, Poste Italiane è oggi in grado di coniugare il mondo tradizionale della corrispondenza con le nuove frontiere della digitalizzazione dei prodotti; per questo costituisce parte integrante del tessuto sociale e produttivo del Paese, senza equivalente in Italia per dimensioni, riconoscibilità e capillarità.

In questo contesto, assume importante rilevanza la capacità di qualificare in modo evolutivo l’identità aziendale anche attraverso la valorizzazione delle persone e la crescita del proprio capitale umano e intellettuale. Per rendere coerenti le azioni interne con il profilo d’immagine viene effettuato un “planning & fit” continuo tra competenze possedute e richieste dal business.

Per aumentare il senso di appartenenza e l’ingaggio delle persone è necessaria una accurata analisi del contesto di riferimento che dirige la capacità di adottare politiche di sviluppo, formazione welfare e gestione del personale di tipo inclusivo in grado di valorizzare e segmentare le azioni in base alle diverse età, alle caratteristiche e al diverso apporto delle persone.

Ne consegue il rafforzamento manageriale e lo sviluppo di politiche integrate con focus prioritario su inclusione, conciliazione, diversità, sostenibilità integrazione. In tutto questo si inserisce MAAM.

“Con MAAM abbiamo rovesciato un paradigma: cioè la maternità e la paternità non sono solo un’esperienza intima e privata ma possono generare valore anche in azienda” – spiega Maria Gaglio che se ne è occupata all’interno della funzione Risorse Umane di Poste Italiane.

“Obiettivo del progetto è infatti favorire il benessere delle donne, accompagnandole nel periodo della maternità con un percorso di crescita personale che le rendesse ancora più consapevoli delle proprie capacità e potenzialità sia nella loro vita privata che nel lavoro. I feedback che abbiamo raccolto finora sono molto positivi tanto che quest’anno il percorso MAAM è stato aperto anche ai padri e ha già portato a oltre 50 adesioni.”

Ogni esperienza nuova o vissuta che sia, rappresenta un nuovo viaggio con innumerevoli e anche inaspettati imprevisti e probabilità. Perché non considerare il viaggio di una neo-mamma un modo di articolare e gestire meglio le complessità?

Ecco cosa ci ha scritto una mamma di Poste Italiane che sta partecipando a MAAM, insieme a oltre 600 colleghe e colleghi.

Specializzata nell’amministrazione del personale, nella consulenza del lavoro e nello sviluppo del capitale umano, Zeta Service vanta una storia fatta di una forte considerazione per il cliente, una spiccata attenzione per il sociale e una grande sensibilità valoriale. Il riconoscimento dell’Ambrogino d’Oro, la presenza da nove anni consecutivi nella classifica Best Workplaces, la Mela D’Oro ricevuta dalla Fondazione Marisa Bellisario, fra gli altri premi ricevuti, testimoniano il grande impegno con cui Zeta Service si rivolge da sempre ai collaboratori, ai clienti e al territorio in cui opera.

Un approccio che punta sulla felicità delle persone, un valore in cui credere fortemente e da cui lasciarsi ispirare. Prendersi cura degli altri, rivolgendo loro attenzioni, è la chiave per arrivare al benessere in azienda.

“Quando ho creato Zeta Service, uno dei miei obiettivi era di avere un ambiente sereno dove le persone potessero stare bene e quindi lavorare bene” afferma Silvia Bolzoni, fondatrice e Presidente di Zeta Service.

Gestire un ambiente lavorativo idoneo alla crescita delle persone richiede una formazione continua e tanta passione. Ma come misurare questo processo lungo e costante? Attraverso gli umori, i sorrisi e gli atteggiamenti quotidiani. Elementi intangibili ma di grande rilevanza.

In Zeta Service, l’80% dello staff è donna. Questo ha portato l’azienda a orientarsi verso una serie di benefit e servizi che potessero regalare un’attenzione particolare ad alcuni aspetti di tutti i giorni relativi al mondo femminile. Tra i vari progetti di welfare, quindi, non poteva mancare il master per i neo-genitori basato sul metodo MAAM, perfettamente in linea con la filosofia aziendale.

L’ascolto e l’empatia sono due abilità fondamentali nel mondo del servizio. Il rapporto con il cliente va protetto, curato e accudito perché rimanga stabile e duraturo. Sapersi immedesimare nell’altro, ascoltandolo profondamente e cogliendo tutti i segnali, anche quelli deboli e impercettibili, fa la differenza e determina il successo dell’azienda. Inoltre, saper gestire il tempo in maniera proficua per rispettare le scadenze insieme a uno spiccato senso di problem solving, costituiscono un requisito fondamentale nel rapporto con il cliente. Evitare lo stress per favorire armonia e serenità lavorativa evidenziano come in Zeta Service il benessere della persona sia centrale: prendersi cura dei collaboratori che a loro volta si prenderanno cura dei clienti.

Un grande traguardo testimoniato dalle dichiarazioni di alcuni dipendenti che hanno partecipato al master:

“La maternità ha potenziato il mio ‘radar emotivo’ permettendomi di captare i segnali più deboli, sintonizzarmi sulle emozioni del mio interlocutore e uscire dai miei schemi mentali” – dichiara un papà. E ancora: “L’ascolto di un figlio in modo attivo è un ottimo allenamento anche per l’ascolto nel mondo del lavoro”.

Zeta Service promuove con orgoglio ed entusiasmo i master di Life Based Value dal 2018, consapevole del prezioso arricchimento che questo percorso porta in azienda. La popolazione femminile con un’età media piuttosto bassa costituisce un’incredibile opportunità per avere delle persone nel team più forti, motivate e, naturalmente, felici.

È provato scientificamente che esiste “un’analogia tra le caratteristiche del genitore e quelle del cosiddetto leader trasformazionale, ovvero colui che, attraverso un approccio empatico, è in grado di ispirare, motivare, portare al raggiungimento dei risultati e a un buon livello di autonomia e realizzazione delle persone in azienda”.

Il paper di Percorsi di Secondo Welfare, laboratorio di ricerca nato nel 2011 da una partnership tra l’Università degli Studi di Milano e il Centro Einaudi di Torino, valorizza questo assunto offrendo, in particolare, una panoramica sensibile e attenta alle criticità di conciliazione tra vita e lavoro in Italia, anche, e soprattutto, dalla prospettiva dei padri.

Si mette in luce una condizione solitamente in ombra, ma di grande valore. Numerosi, infatti, sono i benefici di un padre presente nella crescita dei figli: le performance scolastiche dei bambini migliorano, i conflitti nella coppia diminuiscono per un bilanciamento dei vari incarichi domestici, le attività di cura sviluppano competenze soft davvero preziose per le aziende.

L’analisi del paper, inoltre, approfondisce il tema della paternità fornendo un affondo quali-quantitativo più dettagliato su macro-aree che esplorano i cambiamenti che portano la paternità, la conciliazione fra paternità e gli altri ruoli ricoperti dai padri, il ruolo dei padri nella società e in azienda, la correlazione fra paternità e leadership.

Ne emerge un quadro di invisibilità, poco riconosciuto e scarsamente tutelato a cui invece si vuole dare colore per integrarlo in una situazione di sinergia vita-lavoro armonica e creativa.

Scarica il paper di Secondo Welfare