Il crescente disallineamento tra i bisogni delle persone e i tradizionali modelli organizzativi nel periodo post-pandemia è alla base di fenomeni come Grandi dimissioni e Quiet Quitting che vedono le persone sempre meno ingaggiate nei confronti del lavoro.
In questo scenario, la Direzione HR si trova di fronte alla grande sfida di ridefinire il rapporto tra persone e aziende: un rapporto che oggi deve essere impostato su una nuova visione dell’equilibrio tra vita e lavoro.
Ciò riguarda in particolare i dipendenti genitori e caregiver, che in estate molto spesso non possono contare su servizi e prestazioni di supporto alla gestione dei carichi di cura familiari come nel resto dell’anno. Se i bisogni di queste persone non vengono intercettati in tempo, aumenta il rischio di malessere e scarso coinvolgimento, con conseguenze negative sulla relazione tra dipendenti e aziende.
Basti pensare che oltre 61mila genitori (di cui il 73% mamme) si sono licenziati in un solo anno nel 2022 e che oggi già sette lavoratori su 10 si occupano della cura di un familiare. Inoltre, sono sempre di più le persone nella cosiddetta “Generazione Sandwich”, che devono gestire contemporaneamente la cura dei figli e quella dei genitori anziani. Ma le aziende sanno vederle?
Come spiega la ricerca 2023 dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano dal titolo “Vita, lavoro, felicità: disegnare una nuova relazione tra organizzazione e persone”, i cambiamenti degli ultimi anni hanno fatto emergere due differenti approcci al lavoro da parte delle persone: la Work-life integration e la Work-life separation.
Il primo approccio connota chi trova nel proprio lavoro una componente significativa della propria soddisfazione ed è portato a gestire in maniera integrata questi due aspetti. Il secondo riguarda chi trova la propria soddisfazione personale al di fuori del lavoro ed è portato a tenere separata la vita lavorativa da quella privata.
Se non correttamente gestita, l’integrazione vita-lavoro porta al cosiddetto ‘job creeping’, cioè la tendenza a non smettere di lavorare anche in momenti che dovrebbero essere dedicati alla vita privata. Una separazione tra vita e lavoro non correttamente gestita, invece, porta a uno scarso coinvolgimento delle persone nell’attività lavorativa. Come è possibile trovare una soluzione positiva a questa situazione?
Un approccio innovativo è rappresentato dalla sinergia vita-lavoro. Come dimostrato scientificamente dal Life Based Learning (il metodo di apprendimento ideato da Lifeed che permette alle persone di trasferire sul lavoro le competenze soft apprese nella vita quotidiana e viceversa, con benefici per le loro aziende) l’area della vita privata e quella professionale possono ricaricarsi a vicenda.
Se pensiamo ai ruoli personali e lavorativi come cerchi concentrici che si accumulano e si rinforzano a vicenda (anziché come una torta divisa in spicchi), le competenze espresse in questi ruoli si moltiplicano e possono essere trasferite tra le diverse dimensioni identitarie: genitore, figlio, collega, manager, sportivo, musicista, ecc. Questo succede grazie alla “transilienza”, una meta-competenza che viene esercitata quando le abilità, le energie e le risorse emotive delle persone fluiscono da un ruolo all’altro.
Tutto ciò ha un impatto positivo sul benessere, il coinvolgimento e la produttività delle persone. Sentendosi viste e riconosciute nei loro ruoli personali e professionali, infatti, le persone migliorano l’equilibrio vita-lavoro e la loro efficacia, con conseguenti vantaggi per le aziende anche in termini di sostenibilità.
Le attività di cura come la genitorialità e il caregiving sono grandi esempi di sinergia vita-lavoro: competenze come gestione del cambiamento, empatia, gestione dello stress, collaborazione e gestione della complessità vengono allenate da mamme, papà e caregiver nel rapporto quotidiano con i figli e i genitori anziani o non autosufficienti. Questo vale ancora di più durante l’estate, quando il calendario scolastico e le vacanze impongono la riorganizzazione della vita familiare.
Queste competenze rappresentano risorse preziose anche per il mondo del lavoro. Ma per non sprecarle, c’è bisogno di uno sguardo innovativo da parte delle organizzazioni. Infatti, solo vedendo e usando i talenti che i propri dipendenti sviluppano ogni giorno nelle attività di cura e in tutti i loro ruoli (privati e professionali), le aziende possono favorire il benessere, la produttività, l’engagement e la retention. E così, saranno in grado di garantire la propria sostenibilità futura.
GRENKE, società specializzata nel noleggio operativo B2B, aveva l’obiettivo di rimuovere le criticità e gli ostacoli tra le situazioni di vita privata delle persone (genitorialità, caregiving) e le loro performance al lavoro.
L’azienda cercava uno strumento per dare sostegno concreto alle persone nella loro gestione dell’equilibrio vita-lavoro e per valorizzare tutte le competenze allenate nelle esperienze private di cura.
GRENKE ha introdotto inizialmente il percorso Lifeed per i dipendenti neogenitori con figli da zero a tre anni.
Questa esperienza positiva ha convinto l’azienda ad ampliare la collaborazione nel corso degli anni successivi con l’aggiunta del percorso Lifeed per i dipendenti caregiver.
“Siamo fieri di essere riconosciuti come una Caring Company. Insieme a Lifeed abbiamo dimostrato che le esperienze come la genitorialità e il caring sono in grado di far sviluppare competenze utili anche sul lavoro. Investire nella cura delle persone rappresenta un ritorno in termini di obiettivi aziendali”, spiega Chiara Ros, Team Leader HR People & Culture di GRENKE Italy.
Oggi nelle aziende il 73% delle persone ha un ruolo di caregiver nella vita privata, cioè si prende cura di una persona cara come un figlio, un partner o un genitore anziano (The Caring Company, Harvard Business University, 2019). In Italia, un terzo degli over 50 si prende cura di almeno una persona anziana o non autosufficiente (Talenti Senza Età 2019. Donne e Uomini over 50 sul lavoro, Valore D).
Eppure quello dei caregiver è un ‘mondo sommerso’ all’interno delle imprese: in pochi comunicano sul luogo di lavoro di ricoprire questo ruolo di cura nella vita privata, per paura che ciò possa influire negativamente sulla propria carriera. Altre persone invece non sono proprio consapevoli di essere caregiver: da un’analisi dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed condotta su circa 10mila utenti emerge che solo l’8% si identifica nel ruolo di caregiver.
Ma quando si analizzano i dati dei partecipanti delle aziende che portano avanti percorsi di auto-consapevolezza dedicati ai caregiver, la percentuale di identificazione sale al 24% (con un incremento del 66%). Ciò avviene grazie al riconoscimento di questa dimensione identitaria, che ha l’effetto di dare significato all’esperienza e al ruolo di cura e di far fiorire talenti e competenze trasferibili sul lavoro.
Questo dato suggerisce alle aziende la necessità di un nuovo approccio al tema del caregiving. Nel mercato del welfare, le imprese offrono ai loro dipendenti ‘pacchetti’ con vari servizi di sostegno delle famiglie, che spesso però non vengono utilizzati perché troppo generali. Si crea così un mismatch tra domanda e offerta. Solo ascoltare i reali bisogni delle persone permette di ‘vedere’ i caregiver in azienda e di riconoscerne le singole necessità, con benefici sul loro benessere, engagement e produttività, evitando uno spreco di risorse economiche.
Tutti questi temi sono stati approfonditi nel Caring Company digital talk “Conoscere i talenti dei caregiver” promosso da Lifeed, con la partecipazione di Riccarda Zezza CEO di Lifeed e le testimonianze di esperti del mondo HR, la condivisione dei dati presentati da Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.
La consapevolezza rappresenta quindi il primo motore per far emergere le risorse dei caregiver. Come spiega Zezza, si tratta di una competenza soft che può diventare elemento di business se viene tradotta in cultura, nella percezione del valore di sé per arricchire la cultura aziendale. Per riuscirci, è necessaria una rivoluzione di prospettiva: i nuovi ruoli della nostra vita (come diventare caregiver) non devono combattere tra loro per ritagliarsi uno spazio. Piuttosto, ogni nuovo ruolo può avere un dialogo con le altre cose che siamo. Ciò favorisce la nostra efficacia ed empowerment, perché aumenta la nostra capacità sia di chiedere sia di dare agli altri.
Come si traduce tutto ciò nell’esperienza delle aziende? Per Carolina Azijn, People Experience Lead Italy di Mondelēz International, è necessario mettere in campo azioni integrate per rispondere ai molteplici bisogni delle persone nell’ottica di una nuova sinergia vita-lavoro e per far emergere e valorizzare il portato personale. Tra i vari servizi messi a disposizione dei dipendenti, l’azienda (il cui programma Mondelez Made Right è stato premiato dal Politecnico di Milano) ha attivato nel tempo spazi di confronto e comunità interne, come i ‘Diversity, Equity & Inclusion Ambassadors’, che hanno favorito la co-creazione di una cultura inclusiva dove i dipendenti sono attori attivi delle politiche aziendali.
Solo se l’azienda si mostra vicina alle persone e mette in pratica una cultura della cura, i caregiver non sono più invisibili. Ne è convinta Irina Maletta, referente People Care Unità People Care, Diversity & Inclusion di Enel Italia, secondo cui un’impresa deve lavorare per favorire l’incontro tra la dimensione di cura e quella di crescita professionale, aiutando i caregiver a conciliare i propri ruoli. Tra i numerosi progetti a supporto della popolazione aziendale, Enel ha istituito la figura del ‘gestore del cuore’: i dipendenti hanno a disposizione questa figura per evidenziare problematiche di salute e familiari. Il gestore del cuore supporta quindi i caregiver nel trovare la giusta collocazione e l’azienda, a sua volta, mette in campo attività di formazione, informazione e servizi di wellbeing e caring. Il team di People Care, Diversity and Inclusion Italia rappresenta un vero e proprio centro di ascolto in azienda, in particolare per sostenere i due pilastri del caring: genitorialità e caregiving.
Rosanna Maserati, Responsabile del Servizio Diversity e Inclusion di Crédit Agricole Italia, racconta che l’azienda considera il tempo dedicato alla cura come tempo prezioso. Crédit Agricole Italia ha quindi identificato due bisogni principali dei caregiver ai quali ha risposto: supporto emotivo-psicologico; servizi di sostegno economico e organizzativo. Fondamentale è sviluppare nei caregiver la consapevolezza di non essere un peso per l’azienda ma, al contrario, di vivere un’esperienza di cura familiare in grado di sviluppare competenze utili anche sul lavoro.
Quello del caregiver è un ruolo che spesso, nella cultura italiana, viene dato per scontato. Per valorizzarlo, serve un cambiamento culturale. Proprio su questo punto focalizza la propria attenzione Lucia Saracco, People Coordinator di Santander Consumer Bank, secondo cui bisogna partire creando un ambiente inclusivo, dove sia percepito il valore delle differenze e tutti (compresi i caregiver) possano far emergere le loro competenze a beneficio dell’azienda. Risulta quindi di fondamentale importanza il riconoscimento della dimensione di cura. Un ambiente inclusivo – aggiunge Saracco – genera innovazione e fa lavorare meglio. In azienda conta anche che tutti, a partire dal top management, usino un linguaggio inclusivo che rispetti le differenze e l’unicità di ognuno.
Per approfondire il tema del caregiving e capire come le aziende possono prendersi cura di chi ha cura, Lifeed ha realizzato il whitepaper dal titolo Tutto il valore dei caregiver.
Prendersi cura di qualcuno, in particolare di genitori anziani non autosufficienti, spesso viene visto dalle persone come un possibile ostacolo alla propria attività lavorativa. E alcune aziende considerano l’attività di caregiving come una ‘distrazione’ che rende meno produttivi i dipendenti che hanno responsabilità familiari.
Ma, al contrario, essere un caregiver permette di sviluppare competenze e attitudini (dall’empatia al problem solving e la leadership) legate al ‘prendersi cura’ di qualcuno e trasferibili anche sul lavoro con impatti positivi sulla produttività delle persone.
Secondo il Rapporto Istat 2019 sulla Conciliazione tra lavoro e famiglia, sono 12,4 milioni le persone che hanno responsabilità di cura di figli minori di 15 anni o parenti disabili, malati o anziani. Si tratta del 34% della popolazione tra i 18 e i 64 anni, con un incremento del 10% nell’ultimo decennio.
“Tutti noi abbiamo vite complesse, ma proprio facendo leva sulle esperienze che viviamo, possiamo far crescere le nostre capacità e acquisire quelle competenze trasversali che oggi sono fra le più richieste nelle imprese”, spiega Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, in un’intervista al quotidiano Avvenire (leggi l’articolo integrale).
Le aziende sono chiamate a considerare il caregiving come un’opportunità, non un problema, e i lavoratori stessi hanno l’occasione di mettere a frutto sul lavoro le esperienze acquisite nella cura, che “sviluppa le capacità di resilienza, ascolto, empatia, leadership e maggiore consapevolezza nei propri mezzi”.
A confermare il doppio vantaggio che deriva da questo approccio (per le aziende e per i dipendenti) è UniCredit, che tra le sue iniziative di welfare ha scelto il master digitale Care di Lifeed. Monica Carta, Responsabile Welfare di UniCredit, racconta ad Avvenire che il percorso “ha dato buoni risultati in termini di nuove energie e competenze da spendere da parte dei lavoratori-caregiver”.
Anche in Enel, il master Lifeed (a cui hanno partecipato 530 dipendenti) è stato utile per aiutare i dipendenti a “conciliare le identità e gestire la complessità dei compiti di cura che i caregiver dimostrano”, racconta Raffaella Poggi D’Angelo, Responsabile People Care e Diversity Manager di Enel.