Immagina di essere una torta, una bella torta di compleanno, che tutti gli invitati non vedono l’ora di fare a fette e assaggiare. Ad ogni fetta messa nel piattino corrisponde un assottigliarsi del dolce, fino a sparire del tutto. Prova ad immaginare, ora, di quante fette è composta la tua torta. Probabilmente ti visualizzerai mentre dai una fetta ai tuoi figli, una fetta alla tua compagna o al tuo compagno, una fetta ai tuoi genitori, una ai tuoi amici e ai tuoi colleghi, e poi alla fine, se rimane, una anche a te.
La metafora è semplice: più sono le persone e le attività di cui ti occupi, più piccole sono le fette di torta che puoi dare ad ognuna di queste. Ma se potessi dedicarti a una sola cosa, quanta energia potresti mettere solo di essa? Ti sembra che nella tua torta ci sia abbastanza spazio per tutto? Probabilmente no.
Ma non devi preoccuparti: abbiamo una buona notizia! L’idea di noi come delle torte è stata superata. Le ultime ricerche sociologiche hanno mostrato una storia completamente diversa, ovvero che più ruoli nella stessa persona si accumulano e più si accumulano, più si rinforzano l’un l’altro, trasferendo tra loro energie e competenze.
Una buona notizia: i ruoli si accumulano
Pensiamo all’amore che doniamo alle persone che ci circondano: esso non è esclusivo. Siamo in grado di amare genitori, partner, figli, amici, ognuno in modo diverso, ma senza che l’affetto per l’uno diminuisca quello a disposizione per gli altri. L’amore si moltiplica, non si divide. Vale anche per le (buone) idee: se io ho due mele e ne regalo una ad un amico, ne avremo una a testa. Ma se io e il mio amico abbiamo due buone idee e ci rendiamo partecipi di esse vicendevolmente, avremo entrambi due buone idee. Ebbene, la stessa cosa vale per le competenze e l’energia: vengono moltiplicate, non divise e ci ritroviamo ad averne di più.
Le ultime ricerche sociologiche hanno mostrato che più ruoli nella stessa persona si accumulano e più si accumulano, più si rinforzano l’un l’altro, trasferendo tra loro energie e le competenze.
Cambiamo prospettiva, allora, alla visualizzazione della nostra torta. Adesso, immaginate che ogni ospite, invece di accaparrarsi una porzione, la aggiunga, fino a far diventare enorme il nostro dolce. MultiMe è un prodotto digitale che nasce proprio per scardinare lo stereotipo delle “fette di torta”, che non solo abbiamo su noi stessi ma che, spesso, anche la nostra azienda ha su di noi.
Le basi scientifiche di MultiMe
Nonostante la metafora suggestiva, MultiMe ha basi scientifiche molto solide, frutto di una ricerca multidisciplinare, che prosegue negli anni arricchendosi di nuovi contributi. Anche questa volta, partiamo da un esempio.
Marco è un pompiere, ed è anche marito e padre. Scoppia un incendio mentre è in servizio e deve accorrere. Giunto sul posto, si rende conto che il fuoco sta bruciando la una casa, in cui sono presenti due adulti e due bambini. In questa situazione, Marco si comporterà da pompiere o da padre di famiglia? Chi ha provato MultiMe, sa che la domanda è mal posta. Marco potrà unire il coraggio da pompiere all’amore del padre di famiglia, agendo con razionalità e salvando le persone dalle fiamme, come se fossero i suoi familiari, i suoi bambini. Questo perché i diversi ruoli che ricopriamo non annullano o escludono gli altri, ma si arricchiscono a vicenda.
L’esempio è volutamente estremo, ma pensiamo alle nostre vite più ordinarie. La capacità di ascolto e di mediazione che esercitiamo coi figli, o al contrario alcune competenze manageriali che esercitiamo coi colleghi, sono tutte abilità maturate tra i nostri ruoli, e che ci portiamo sempre con noi. Siamo più della somma delle nostre parti, e MultiMe ci permette di rendercene conto. MultiMe, in ultimo, permette il passaggio dal “role conflict” al “role accumulation”.
Il tool è stato realizzato da un team scientifico composto da Riccarda Zezza, dalle ricercatrici di Lifeed e dalla professoressa Maferima Touré-Tillery, ricercatrice della Kellogg School of Management della Northwestern University. Si avvale di anni di ricerca nel campo della “teoria dei ruoli”.
La teoria dei ruoli e la sua evoluzione grazie a Lifeed
Come sempre, partiamo dalla definizione. Viene in nostro aiuto Roger Barker, tra i fondatori della psicologia di comunità, che spiega le teorie dei ruoli come “un gruppo di concetti, basati su ricerche socioculturali e antropologiche, che riguardano il modo in cui le persone sono influenzate nei loro comportamenti dalla varietà delle posizioni sociali che ricoprono e dalle aspettative che li accompagnano”.
La “teoria dei ruoli” comprende due linee divergenti di pensiero e ricerca, che sono quella del role conflict e quella del role facilitation. I primi studi sul role conflict risalgono agli anni Sessanta, ad opera di William Goode. Egli elaborò la teoria del role strain, sostenendo che ricoprire diversi ruoli sociali è impegnativo, in quanto richiede risorse di tempo ed energia conflittuali tra loro, che causano, quindi, un forte disagio. Poi, gli studi successivi si sono concentrati sull’impatto positivo del ricoprire contemporaneamente più ruoli. In particolare, Sieber e Marks, negli anni Settanta, hanno dato risalto al fatto che rivestire più ruoli produce un maggiore benessere, perché i benefici associati all’accumulo di ruoli, generalmente, superano lo stress correlato al ruolo.
L’interesse per gli effetti delle interazioni tra ruoli diversi è aumentato negli ultimi decenni, poiché la partecipazione femminile al mercato del lavoro è aumentata e le donne hanno raggiunto livelli più alti nella gerarchia aziendale, aumentando le loro responsabilità all’interno delle organizzazioni. Inizialmente, gli studi organizzativi si sono concentrati sull’aspetto conflittuale del rapporto lavoro-famiglia, suggerendo che le donne che cercavano di conciliare famiglia e carriera soffrissero di stress psicologico e fisico. Tuttavia, nei primi anni Duemila comparvero studi (es. Ruderman, 2002) che evidenziavano i benefici a livello di competenze, ma anche psicologici, del “multitasking”.
Sieber e Marks, negli anni Settanta, hanno dato risalto al fatto che rivestire più ruoli produce un maggiore benessere, perché i benefici associati all’accumulo di ruoli, generalmente, superano lo stress correlato al ruolo.
Di fronte ad evidenze qualitative e quantitative, la ricerca di Lifeed ha approfondito questi aspetti di “role accumulation”, volti a raggiungere non tanto la conciliazione o l’equilibrio tra i ruoli, quanto una reale sinergia tra le diverse aree che interessano le nostre vite. Le risorse che abbiamo in noi “traboccano” tra i diversi ruoli, ma solo se riconosciamo la sinergia tra le parti della nostra vita e, tenendole insieme, le rafforziamo reciprocamente.
La transilienza
La teoria della role accumulation afferma che l’intera persona è più della somma delle parti che la compongono: ricoprire alcuni ruoli può generare risorse da utilizzare in altri. Il metodo Lifeed stimola, rende le persone consapevoli e innesca questo spillover positivo (“overflow positivo”), da un ruolo all’altro della vita. Lifeed migliora il potenziale educativo delle transizioni (come la genitorialità, la cura di un proprio caro, una crisi…), trasformando queste fasi di vita in uno strumento di sviluppo professionale.
Nasce così il concetto di transilienza, una combinazione di due parole: transizione e resilienza (Vitullo, Zezza, 2014). La transilienza è una meta-competenza (cioè una competenza delle competenze) che viene esercitata quando le abilità, le energie, le risorse emotive fluiscono da un ruolo all’altro. Per attivare la transilienza, l’individuo deve essere consapevole di essere una torta che cresce sempre e non si assottiglia.
Una torta che si arricchisce di continuo
Il metodo Lifeed usato nei nostri master si arricchisce oggi, dicevamo, di un nuovo strumento. MultiMe è un tool interattivo che aiuta a vedersi e farsi vedere come quella torta di compleanno su cui tutti gli invitati aggiungono una fetta, invece che sottrarla.
Nel semplice esercizio proposto da MultiMe, che si può ripetere all’inizio e alla fine dei nostri master, dopo aver individuato i singoli ruoli che ricopriamo ci viene chiesto di associare ad ognuno tre o più qualità. Al termine, scopriremo che alcuni ruoli hanno in comune molti aggettivi: si sovrappongono su diversi punti. I livelli di coesione e coerenza tra le parti aumentano.
Un più alto indice di “self overlap” implica anche un maggiore coordinamento etico, come ha dimostrato la professoressa Maferima Touré-Tillery nelle sue ricerche. Più i ruoli si sovrappongono, più la persona tende a comportarsi in modo etico, a non percepirsi divisi in compartimenti stagni. Pensiamo alla ricaduta che ciò può avere su un professionista che ha grandi responsabilità decisionali in azienda: più è coerente nella definizione di sé e dei propri ruoli, più sarà propenso ad assumersi responsabilità nell’ottica del bene comune.
Più i ruoli si sovrappongono, più la persona tende a comportarsi in modo etico, come ha dimostrato la professoressa Tillery della Kellogg School of Management della Northwestern University.
MultiMe è in grado di misurare quantitativamente e qualitativamente il “self overlap” e la ricchezza che porta con sé. Rende possibile mappare i risultati ottenuti dai partecipanti, come dato aggregato, valutando dunque in maniera oggettiva l’impatto del master. Scopriamo così che lo sguardo può andare oltre la superficie di fatica, di tempo limitato che percepiamo dei nostri ruoli, riconoscendone invece l’arricchimento.
I numeri ci danno ragione: 8.3 partecipanti su 10 suggerirebbero ad un amico di provare il nostro metodo. Il prossimo autunno avremo a disposizione i dati di impatto preliminari: saremo in grado di valutare, numeri alla mano, l’evoluzione delle nostre… torte di compleanno. E le torte di compleanno, lo sappiamo tutti, devono essere belle grandi!
Cristina Gabetti ha intervistato la nostra CEO Riccarda Zezza per una speciale puntata di Occhio al futuro, dedicata agli SDG, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che puntano alla salvaguardia del pianeta e al benessere dei suoi abitanti. Secondo Cristina Gabetti, le nostre soluzioni rispondono a ben 8 obiettivi. Guarda qui la puntata di Occhio al futuro andata in onda su Striscia la Notizia il 21 marzo 2020.
Cristina Gabetti: Tutti noi ci prendiamo cura di giovani e/o anziani, e sappiamo quante competenze servono per farlo bene. Oggi incontriamo una donna che, partendo dalla sua esperienza di vita, ha creato un metodo per trasferire le competenze soft in ambito professionale. Riccarda com’è nata la tua idea e come funziona?
Riccarda Zezza: È nata dal fatto che quando sono diventata mamma ed ero manager in una grande azienda ho scoperto che essere madre era una problema nel mondo del lavoro. Mentre, invece, la stessa azienda mi mandava a fare formazione in una serie di competenze soft che proprio l’esperienza della maternità stava allenando benissimo. Pensa ad esempio alla gestione del tempo, la gestione delle crisi, l’empatia. Ho visto un grande paradosso, un grande spreco: perché le aziende spendono tantissimi soldi in formazione per una serie di competenze che la vita allena in modo naturale. Questo è successo 7-8 anni fa, da li è partita la ricerca che ho fatto con Andrea Vitullo che è un executive coach, ed effettivamente abbiamo scoperto che quando si diventa genitori si migliorano una serie di competenze che servono al mondo del lavoro. Sette anni dopo, oggi, questo metodo di apprendimento lo vendiamo alle aziende attraverso una piattaforma digitale, quindi le nostre aziende clienti aprono il percorso digitale neogenitori, neomamme o neopapà, ma anche da qualche tempo a caregiver dei propri genitori… perché ogni esperienza di cura migliora queste competenze e le persone possono scoprire come prendersi cura di un bambino o un anziano migliorino proprio le competenze che servono nel mondo del lavoro.
Cristina Gabetti: Questa iniziativa adempie a ben 8 SDG. Adesso qual’è il tuo sogno?
Riccarda Zezza: Oggi siamo in 23 paesi e gli utenti della piattaforma ci dicono che già hanno queste energie, queste competenze; hanno solo bisogno dello spazio per portarle nel mondo e nella società. Il mio sogno è quello di arrivare il più velocemente possibile a dimostrare all’economia e alla società che prendersi cura è un valore, è un bisogno che la specie umana ha tutte quelle energie e quelle risorse che oggi stiamo cercando nei posti sbagliati.
Cristina Gabetti: Grazie Riccarda. Saper osservare e riflettere, valutare obiettivi e prendere decisioni, migliorarsi, adattarsi, e giocare, rende tutto più facile. Occhio al futuro!
Cristina Gabetti ha intervistato la nostra CEO Riccarda Zezza per una speciale puntata di Occhio al futuro, dedicata agli SDG, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che puntano alla salvaguardia del pianeta e al benessere dei suoi abitanti. Secondo Cristina Gabetti, le nostre soluzioni rispondono a ben 8 obiettivi. Guarda qui la puntata di Occhio al futuro andata in onda su Striscia la Notizia il 21 marzo 2020.
Cristina Gabetti: Tutti noi ci prendiamo cura di giovani e/o anziani, e sappiamo quante competenze servono per farlo bene. Oggi incontriamo una donna che, partendo dalla sua esperienza di vita, ha creato un metodo per trasferire le competenze soft in ambito professionale. Riccarda com’è nata la tua idea e come funziona?
Riccarda Zezza: È nata dal fatto che quando sono diventata mamma ed ero manager in una grande azienda ho scoperto che essere madre era una problema nel mondo del lavoro. Mentre, invece, la stessa azienda mi mandava a fare formazione in una serie di competenze soft che proprio l’esperienza della maternità stava allenando benissimo. Pensa ad esempio alla gestione del tempo, la gestione delle crisi, l’empatia. Ho visto un grande paradosso, un grande spreco: perché le aziende spendono tantissimi soldi in formazione per una serie di competenze che la vita allena in modo naturale. Questo è successo 7-8 anni fa, da li è partita la ricerca che ho fatto con Andrea Vitullo che è un executive coach, ed effettivamente abbiamo scoperto che quando si diventa genitori si migliorano una serie di competenze che servono al mondo del lavoro. Sette anni dopo, oggi, questo metodo di apprendimento lo vendiamo alle aziende attraverso una piattaforma digitale, quindi le nostre aziende clienti aprono il percorso digitale neogenitori, neomamme o neopapà, ma anche da qualche tempo a caregiver dei propri genitori… perché ogni esperienza di cura migliora queste competenze e le persone possono scoprire come prendersi cura di un bambino o un anziano migliorino proprio le competenze che servono nel mondo del lavoro.
Cristina Gabetti: Questa iniziativa adempie a ben 8 SDG. Adesso qual’è il tuo sogno?
Riccarda Zezza: Oggi siamo in 23 paesi e gli utenti della piattaforma ci dicono che già hanno queste energie, queste competenze; hanno solo bisogno dello spazio per portarle nel mondo e nella società. Il mio sogno è quello di arrivare il più velocemente possibile a dimostrare all’economia e alla società che prendersi cura è un valore, è un bisogno che la specie umana ha tutte quelle energie e quelle risorse che oggi stiamo cercando nei posti sbagliati.
Cristina Gabetti: Grazie Riccarda. Saper osservare e riflettere, valutare obiettivi e prendere decisioni, migliorarsi, adattarsi, e giocare, rende tutto più facile. Occhio al futuro!
“Dopo 8 anni di applicazione della policy che supporta la genitorialità il 100%, delle mamme di Danone rientrano in azienda e sul totale delle promozioni il 40% è rappresentato da donne rientrate dal congedo maternità. Senza contare il tasso di natalità, pari al 7%, 11 punti percentuali sopra la media nazionale (che si attesta al -4%)”. Sono queste le parole di Sonia Malaspina, HR director South Europe Danone Specialized Nutrition per spiegare gli impatti di una parental policy avviata nel 2011 e che, dal 2017 ha visto l’introduzione del master LBV per future mamme, neo-mamme e neo-papà con bambini fino a 3 anni.
“Grazie al master per i neo-genitori abbiamo avuto degli accrescimenti davvero interessanti e soprattutto misurabili. Sono migliorate l’abilità di lavorare per priorità (+35%), di prendere decisioni (+15%), di delegare (+35%) e di gestire la complessità (+10%) ma anche l’empatia (+35%) e l’agilità mentale (+20%)” – continua Sonia Malaspina.
Forte di questi numeri e di questa esperienza che ha permesso di scoprire come la fase dell’accudimento possa migliorare anche le capacità manageriali, Danone ha quindi deciso di rivolgere l’attenzione anche verso un altro tipo di cura: quello dei caregiver, che si prendono cura di genitori anziani o di parenti con disabilità e malattia.
Generali Country Italia è l’assicuratore più conosciuto in Italia e leader del mercato assicurativo con 13 mila dipendenti. Con l’obiettivo globale di diventare “il partner di vita dei propri clienti”, l’azienda è stata in grado di trasformare il proprio posizionamento, da semplice venditore di prodotti a fornitore di soluzioni integrate che aggiungono vero valore alla vita delle persone, alla loro salute, alla loro casa, al loro modo di spostarsi e al loro lavoro.
Anche verso le proprie persone, l’azienda mantiene lo stesso impegno: porre attenzione alla vita dei colleghi significa comprendere le loro esigenze nelle varie fasi della vita e offrire il proprio contributo affinché l’azienda sia riconosciuta come un ambiente accogliente per tutti. Da queste premesse, prende il via il progetto “Genitorialità in azienda” che si rivolge ai genitori con figli piccoli e adolescenti, ma anche a coloro che diventano “genitori dei propri genitori”, ovvero i figli caregiver. Non solo la cura di un figlio, ma anche quella di un genitore fragile possono arricchire di competenze soft il profilo professionale e diventare dei veri e propri asset per la crescita del business.
“Attraverso le soluzioni di Life Based Value per genitori e figli caregiver vogliamo dare ai nostri colleghi la consapevolezza che questo periodo della vita che richiede tante energie può sviluppare in loro delle competenze soft molto utili nel lavoro. È uno strumento semplice che spinge alla consapevolezza ma anche all’autoriflessione ed essendo online ci permette di raggiungere le persone in diverse sedi geografiche, scegliendo ognuno i propri tempi di utilizzo conciliandoli con le esigenze personali e lavorative” spiega Isabella Agosto, Responsabile del Learning di Generali Italia.
Il MASP, acronimo di Master parenting in work and life, è un progetto volto a conciliare lavoro e vita privata, sostenere una più equa suddivisione delle responsabilità di cura tra donne e uomini che lavorano, incoraggiare una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Di durata biennale e co-finanziato dalla Commissione Europea, MASP è gestito da un Consorzio di partner tra cui il Comune di Milano, AICCON oltre a LVB, mira a sviluppare e sperimentare un’innovativa strategia di conciliazione vita-lavoro focalizzata su una diversa cultura della genitorialità e di affrontare le esigenze da essa generate.
Quando parliamo di equilibrio tra lavoro e vita privata, assumiamo implicitamente che lavoro e vita sono due dimensioni in competizione nella propria esperienza. Ciò è supportato da prove esistenti sul “divario retributivo di maternità” mondiale (il cosiddetto motherhood pay gap), rafforzato da un basso tasso di occupazione femminile in molti Paesi del mondo e da un’alta percentuale di donne che non rientrano al lavoro dopo il congedo di maternità.
La teoria dell’accumulo di ruoli dimostra come la presenza congiunta di più ruoli abbia un impatto positivo sugli individui. Pertanto, non si tratta più di conciliare i diversi ruoli, ma di creare una sinergia tra loro. Allo scopo di promuovere questa prospettiva di “sinergia tra lavoro e vita privata”, il progetto deve sensibilizzare gli attori chiave coinvolti e attuare un mix di misure innovative rivolte a cittadini e imprese.
MASP si rivolge in particolare a:
Aziende e loro dipendenti
Pubbliche amministrazioni
Donne disoccupate in gravidanza
Neo-mamme e neo-papà
LBV con il proprio metodo MAAM, insieme a Family Audit, sono le best practice su cui il progetto MASP è costruito.
Lo scorso settembre è stata l’occasione per i partner del Consorzio di incontrarsi e approfondire le migliori modalità italiane e norvegesi sulle tematiche del work-life balance.
In particolare, l’incontro di Oslo ospitato da EUROMASC, ha permesso di condividere le esperienze della Norwegian Labor and Welfare Administration, che ha dimostrato l’importanza della digitalizzazione per una migliore offerta di servizi, orientata ad agevolare l’equilibrio tra lavoro e vita privata, di Finansforbundet, organizzazione sindacale attiva nel settore finanza e NHO Confederation of Norwegian Enterprise. Infine, un focus specifico è stato dedicato a un confronto con la legislazione e le pratiche avanzate attive nei diversi Paesi del nord Europa (Norvegia, Svezia, Danimarca e Finlandia).
Un quadro importante, quello emerso, che ha consentito di delineare alcune iniziative efficaci per la promozione di strategie di gender equality, parità di retribuzione, accordi di lavoro flessibili e modalità per diffondere e sviluppare il talento femminile. Dopo aver analizzato le esigenze delle parti interessate e le migliori prassi disponibili, MASP si sta muovendo verso il passo successivo: individuare e sviluppare soluzioni concrete.
Il presente progetto ha ricevuto un sostegno finanziario dal programma dell’Unione europea per l’occupazione e l’innovazione sociale “EaSI” (2014-2020).
Esclusione di responsabilità
Le informazioni, la documentazione e i dati contenuti in questo documento sono di esclusiva responsabilità dell’autore e non riflettono necessariamente il parere della Commissione europea. La Commissione europea non è responsabile per l’uso che può essere fatto delle informazioni qui contenute.
Il settore energetico sta vivendo un’inarrestabile evoluzione che ha portato alla nascita di nuovi mercati e nuove opportunità di business e occupazionali, ma anche alla necessità di rivedere i modelli di business passati, per garantire un utilizzo sempre più sostenibile delle risorse, nel rispetto dell’ambiente e del territorio. I player dell’energia svolgono, da sempre, una duplice funzione: da un lato offrire l’accesso all’energia per abilitare lo sviluppo tecnologico, dell’economia e della società, dall’altro rendere l’energia accessibile a una fetta sempre più ampia delle popolazioni locali, per creare nuove opportunità nel campo dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, della parità di genere e dell’occupazione. In sintesi, un impegno attivo per creare valore sostenibile nel lungo periodo.
Al centro della Global Sustainability Strategy del Gruppo Enel non possono mancare le persone, riconosciute nelle loro molteplici diversità, a cui l’azienda ha dedicato obiettivi concreti per le pari opportunità di crescita e benessere. Una policy lungimirante ed efficace, iniziata nel 2013, e che dopo soli 3 anni, nel 2016 le è valsa il riconoscimento nel Diversity & Inclusion (D&I) Index di Thomson Reuters, citandola tra le 100 migliori aziende al mondo (su 7.000), valutate secondo quattro pilastri di diversità, inclusione, notizie e controversie verso i dipendenti, sviluppo.
Dal 2017 in Enel è attivo MAAM che integra le iniziative Parental Program e Caregiver Familiare con la piattaforma di formazione digitale e la community online per facilitare lo scambio tra peer ed esperti, per valorizzare le competenze relazionali, organizzative e innovative che si sviluppano dalle esperienze della genitorialità e della cura. La parità di genere si raggiunge anche in famiglia, con il bilanciamento tra uomini e donne degli impegni e delle responsabilità. Ciò non riguarda solo i neo-genitori, ma anche le altre tipologie di caregiver: con una popolazione aziendale over 50 che supera il 40% dei dipendenti, un’ampia fetta della popolazione è coinvolta in attività di cura verso famigliari “fragili” – spesso genitori anziani, malati o non autosufficienti, che può diventare un vero e proprio “secondo lavoro”, oltre a quello in azienda.
Fleur, oggi vorremmo rivelare alcuni aspetti che riguardano la tua vita professionale e l’impatto che stai generando. Chi è Fleur oggi?
Sono Direttrice Diversity & Leadership Inclusiva (D&I) per la regione EMEIA di EY, composta da Europa, Medio-Oriente, India e Africa, che conta novantanove paesi e 105.000 persone. Il mio ruolo prevede lo sviluppo, la promozione e l’inclusione di una strategia della diversità integrata in una grande organizzazione con matrice multidisciplinare.
Un focus fondamentale di questo ruolo è il coinvolgimento delle parti interessate, la consulenza degli specialisti, la gestione dei cambiamenti e lo sviluppo del marchio sul mercato. Intervengo regolarmente come relatrice durante le conferenze e collaboro nell’ambito di articoli e ricerche in questo campo; ho pubblicato una serie sulla leadership di pensiero e, più recentemente, su come far assumere una rilevanza globale ai programmi sulla disabilità.
Un paio di anni fa sono stata coautrice del libro Inclusive Leadership dove io e Charlotte abbiamo condiviso quello che abbiamo appreso nel corso degli anni. Nel 2013 sono stata lieta di essere nominata Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico nel New Year’s Honors List della Regina (ndr. OBE, Officer of the Most Excellent Order of the British Empire), come riconoscimento del mio contributo nei confronti della diversità e dell’inclusione sul luogo di lavoro.
Dove ti portano ogni giorno le sinergie tra la vita professionale e gli obiettivi personali?
I miei obiettivi professionali e personali sono simili. Alla fine della giornata desidero che le persone siano ispirate da quello che stanno facendo, abbiano uno scopo e percepiscano di ricoprire una posizione adatta a sviluppare il potenziale, sia a scuola che sul luogo di lavoro. Ecco perché negli ultimi cinque anni ho lavorato con la National Autistic Society per aprire nel mio quartiere una scuola secondaria specializzata per studenti con disturbi dello spettro autistico. La nostra scuola gratuita aprirà i battenti a gennaio 2020.
Perché credi che il management abbia una reputazione così negativa in alcune aziende? Se la causa sono cattivi manager, come credi si possa evitare di diventare tali?
Credo che vi siano diversi motivi per cui le società abbiano una reputazione di cattiva gestione, ma al centro in genere vi è una cultura sostenuta dai valori aziendali. Se un’azienda non apprezza il valore del talento e incentiva esclusivamente i risultati, probabilmente vi sarà meno coinvolgimento e una forza lavoro meno felice. Personalmente non faticherei per prosperare in un ambiente simile, li lascerei e troverei un altro luogo in cui offrire il mio contributo.
Sappiamo che nell’era della digitalizzazione è sempre più importante per i leader sfruttare l’EQ e le soft skill come la collaborazione, l’empatia, la comprensione e le abilità che sono state essenziali nella vita personale e che ora sono alla base di una vita professionale di successo. In che modo stiamo riqualificando i leader e la dirigenza della vecchia scuola?
Il comando e il controllo non sono più necessari nella maggior parte dei luoghi di lavoro, e i veri leader lo sanno. Le persone non si uniscono più a un’azienda ‘per la vita’, la gig economy sta crescendo, alcuni lavori sono stati sostituiti dall’intelligenza artificiale e dalla robotica e il futuro del lavoro è già sopraggiunto in diversi modi. Affinché le aziende prosperino, la leadership deve portare con sé le persone.
In che modo le donne e gli uomini perseguono un diverso tipo di leadership ed evitano alcune delle insidie in cui cascano i cattivi manager?
La leadership inclusiva riguarda per prima cosa la comprensione delle proprie motivazioni, delle proprie preferenze e dello stile, nonché la capacità di identificare ciò che funziona per le altre persone. Ci si sta allontanando sempre più dal ‘trattare gli altri come vorresti essere trattato’, per avvicinarsi al ‘tratta gli altri come vorrebbero essere trattati’. Si tratta di una leadership presente, non che ascolta mentre scrive le e-mail; è una leadership che si accerta del fatto che chiunque si trovi nella stanza/al telefono abbia una voce.
Qual è il più grande errore professionale che le donne continuano a fare? Cosa dobbiamo smettere di fare?
Secondo me ci sono due cose. Una è che ci sentiamo troppo in colpa, in particolare le madri lavoratrici. Il più grande dei miei tre figli ora ha 20 anni e non potrei essere più fiera di lui. Certamente non sono rimasti segnati dal fatto che la loro mamma si sia destreggiata tra lavoro e vita domestica quando erano piccoli; semmai, sono più in sintonia con le sfide lavorative e con il loro ruolo nell’ambito del raggiungimento della parità. L’altra cosa che facciamo troppo spesso (e non dico che gli uomini non lo facciano) è cercare di ottenere il 120% da ogni cosa, quando spesso l’80% sarebbe sufficiente.
La generazione dei Millennial rappresenterà una tipologia di leadership molto diversa?
Non sono certa che saranno ‘molto’ diversi. Sicuramente stiamo assistendo a dei cambiamenti; c’è maggiore interesse a costruire un mondo professionale migliore e il numero di uomini che desidera ricoprire un ruolo più concreto in casa sta aumentando. Detto questo, ci era stato riferito che la Generazione X avrebbe fatto il suo ingresso nella forza lavoro e avrebbe cambiato il panorama. C’è stato qualche lento cambiamento.
Qualche abitudine di successo che vorresti condividere?
C’è un suggerimento molto pragmatico che è venuto fuori durante una sessione di raccolta delle idee. Abbiamo chiesto alle persone di pensare al modo in cui potrebbero cambiare ciò che fanno attualmente per essere più efficienti, sia a livello individuale che come team. Mi sono resa conto che l’impostazione predefinita per i meeting su Outlook era sempre di un’ora. Allora l’ho modificata su 45 minuti per le telefonate (che nel mio ambito possono essere 6 o 7 chiamate al giorno). Ho iniziato a recuperare in media 1,5 ore al giorno e le chiamate sono rimaste focalizzate e produttive.
È in corso un grande dibattito sul futuro del lavoro, sulla digitalizzazione, sulla gig economy e sull’open talent economy, sul soffitto di cristallo e sulle diverse prospettive dei Millennial relativamente al lavoro. Qual è la tua opinione sullo status quo e cosa credi che accadrà in futuro?
Penso che gran parte del ‘futuro del lavoro’ sia già qui, e che naturalmente ne arriverà altro. Incappiamo in continuazione nell’intelligenza artificiale (non sempre in maniera positiva) e ci sono robot che svolgono già alcune attività di audit. La gig economy sta prosperando e io sono entusiasta di poter fare acquisti ed effettuare operazioni bancarie online in qualsiasi momento del giorno. Penso che il futuro sia ricco di opportunità, ma dobbiamo verificare di essere pronti.
Qualche altra perla di saggezza e qualche consiglio per gli impact makers, i professionisti e gli imprenditori concentrati sulla carriera, sia uomini che donne?
Nessun lavoro vale un esaurimento. In questo mondo 24/7 è importante stabilire alcuni confini di base e imparare a staccare. Non sono la migliore, ma quando mi prendo un weekend o più libero, torno riposata, concentrata e più incisiva.
Articolo pubblicato anche in lingua inglese sul blog www.ownthewayoulive.com di Manuela Andaloro
Negli anni ’60 il Direttore del Personale teneva a bada i sindacati. Nei ’70 contribuiva alla riorganizzazione degli assetti aziendali. Dagli ’80 in poi, quando si è capito che il maggiore capitale è quello umano, è diventato una figura cardine, un interprete delle relazioni tra organizzazione e persone.
Capital, rivista di Class Editori, dedica questo mese uno speciale sui migliori manager delle risorse umane in Italia e le loro strategie.
Una professione che secondo Isabella Covili Faggioli, presidente nazionale di AIDP, l’associazione italiana per la direzione del personale, «ha subito una radicale trasformazione all’interno delle aziende, a partire dal nome, esplicitamente legato alle risorse umane, ovvero alle persone, fino ad arrivare a competenze ampie e complesse».
L’articolo di Capital presenta anche una fotografia del settore HR tratta dal report del network inglese Cranet realizzata in collaborazione con il Bicocca Training & Development Center di Milano e AIDP; report che ogni 4 anni rileva le pratiche e le politiche di gestione delle risorse umane nelle aziende italiane con più di 200 dipendenti.
La funzione HR anche in Italia ha cambiato pelle, sempre più strategica nelle aziende e coinvolta nella definizione dei piani di crescita aziendali, soprattutto durante le fasi di trasformazione e change management. L’HR manager sta diventando un vero e proprio change leader, lavorando sempre più a fianco dell’imprenditore o del CEO per progettare l’intera “employee experience” che, se positiva e soddisfacente, contribuisce a incrementare il risultato e il valore economico dell’impresa. Il report evidenzia, inoltre, un passaggio da rapporti di lavoro governati principalmente da relazioni sindacali a una più moderna gestione sempre focalizzata sull’iniziativa manageriale e sui rapporti individuali.
La prolungata crisi economica ha portato con sé cambiamenti significativi nelle organizzazioni, contribuendo a modificare il ruolo e i focus della funzione HR. «Per motivare e coinvolgere i dipendenti oggi più che mai servono modelli organizzativi agili, in grado di adattarsi velocemente al cambiamento, con riconfigurazione rapida di strategie, struttura, processi e tecnologie» spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano. «Una nostra ricerca conferma che nelle imprese agili l’85% dei dipendenti si dichiara motivato e coinvolto, quasi il triplo di quanto avviene in quelle tradizionali (31%)».
Oltre allo smartworking, che unito alle trasformazioni digitali e all’industria 4.0 richiedono di modificare le abitudini lavorative, spazi e orari di lavoro, anche altre buone pratiche di gestione delle persone stanno assumendo sempre più rilevanza anche nel nostro Paese, come l’attenzione sempre più crescente a politiche di gender diversity, inclusion, strategie di talent acquisition e retention, nonchè l’attenzione a una rinnovata “employee value proposition”.
«Per il mondo della risorse umane è una sfida evolutiva, il cambiamento è imprescindibile», spiega Covili Faggioli.
E’ ormai chiaro che le aziende, per avere successo, devono porre attenzione alle persone e al loro benessere (con adeguati piani di welfare). Anche se oggi tutto questo non basta: il vero benessere di un dipendente è sentirsi parte di un progetto, sapere che il suo lavoro conta. Un responsabile HR deve perciò saper mettere le persone nelle migliori condizioni per esprimersi e realizzarsi.
In questa direzione, un esempio significativo lo offre Danone, multinazionale alimentare presente in 120 Paesi al mondo, che dall’Italia ha offerto un modello e una best practice in tema di parental policy, oggi applicata dall’azienda a livello globale: «Grazie alle nostre metriche (100% delle mamme che rientrano dalla maternità, 45% di donne manager, 40% di mamme promosse dopo la maternità) abbiamo dimostrato che spendersi per i dipendenti fa bene all’azienda» spiega Sonia Malaspina, direttore HR Sud-Est Europa e tra i 100 migliori HR director italiani citati nell’articolo di Capital.
Fra i programmi di formazione dell’azienda, dal 2017 è entrato anche il master MAAM: «Soft skill tipiche delle mamme e dei papà, come la capacità di lavorare per priorità, l’ascolto e l’intelligenza emotiva, possono essere sfruttate a vantaggio della persona e dell’azienda. La maternità e la paternità sono dieci volte più formative di qualsiasi corso», conclude Sonia.
Abbiamo accolto nei nostri uffici la troupe giornalistica di Tempi Moderni trasmissione della RSI Radiotelevisione Svizzera che ha intervistato Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value e co-autrice MAAM.
Da Parma, anche Francesco Del Porto, President Region Italy & Global Chief Customer Officer di Barilla, e Daniela Sorrentino, HR Senior Manager Region Italy di Barilla, hanno portato la loro testimonianza di azienda virtuosa che, attraverso MAAM, valorizza la genitorialità dei propri dipendenti.
Cambiamo le prospettive della genitorialità e rendiamo i genitori una risorsa preziosa per le aziende: la nostra best practice conquista l’Europa!
Il tasso di occupazione femminile in Italia ha raggiunto il 49%, record positivo storico per il nostro Paese. Eppure ci troviamo ancora ben lontani dalla media europea, che si aggira intorno al 60%, e ci posiziona penultimi in Europa, primi solo alla Grecia.
Osservando più a fondo i dati, si scopre che il 30% delle donne lascia il proprio lavoro dopo la nascita di un figlio, dato che peggiora ulteriormente con l’arrivo del secondo figlio. La fonte del problema non è certamente da imputare alla carenza di talenti femminili sul lavoro (secondo il rapporto Global Gender Gap del World Economic Forum, siamo, infatti, primi al mondo per numero di donne iscritte all’università e il 60% dei laureati con lode nel nostro Paese è donna), piuttosto alla mancanza di un welfare adeguato capace di sostenere le esigenze delle famiglie, caricando ancora quasi esclusivamente sulle donne i principali problemi e impegni legati alla cura e alla gestione della famiglia. Lo dimostra il fatto che il 40,9% delle donne con figli lavora part-time, percentuale che non supera il 10% se consideriamo gli uomini.
Della condizione delle donne nel mondo del lavoro e dei tanti vantaggi che una maggiore presenza femminile potrebbe portare all’economia e alla società nel suo complesso si è parlato lo scorso 9 maggio durante il convegno “La rivoluzione gentile: perché il mondo del lavoro ha bisogno delle donne” organizzato da ESTE Edizioni e condotto da Chiara Lupi, Direttore Editoriale della casa editrice, a cui è intervenuta anche Riccarda Zezza, CEO di Life Based Value.
Donne e potere, un binomio necessario
“Cosa c’entrano le donne con il potere?” è il titolo dell’intervento di Riccarda Zezza, che ha messo in luce come in millenni di storia ed evoluzione della specie umana, gli uomini abbiano creato le regole e forgiato il concetto di potere, dalla politica, all’economia. “Solo recentemente è stato riconosciuto il valore economico della Diversity e le donne sono state chiamate a giocare il proprio ruolo anche negli ambiti del potere, ma con un limite: adattarsi alle regole vigenti, ai modelli comportamentali e di leadership costruiti negli anni, che appartengono alla sfera maschile” spiega Zezza.
Ecco perché il mondo del lavoro in primis non è ancora pronto ad accettare la disomogeneità che l’ingresso delle donne nelle aziende ha portato, prima fra tutte la gestione dell’assenza durante il congedo di maternità e la successiva necessità di una migliore gestione di vita e lavoro.
“L’opportunità che abbiamo oggi tra le mani è potente: abbiamo la possibilità di cambiare l’evoluzione della nostra specie, cambiare i valori, invece che farci cambiare da loro, abbiamo la responsabilità di portare le nostre logiche di potere, perché funzionano! Non si tratta di aiutare le donne, ma di aiutare il mondo attraverso le donne”.
È questo il punto di vista che ha introdotto Riccarda Zezza e che ha innescato le riflessioni durante la successiva tavola rotonda a cui hanno preso parte anche Elena Barazzetta, Ricercatrice di Percorsi di Secondo Welfare e autrice del libro Genitori al lavoro. Il lavoro dei Genitori, ed Enrico Gambardella, HR Director di AVIVA, a cui è seguito un vivace confronto con il pubblico presente in sala.
La conciliazione non è un problema solo femminile, ma riguarda l’intera società e le aziende
Le donne e, in generale, i caregiver sono manager e leader migliori, poiché hanno le giuste qualità – empatia, flessibilità, capacità di far fronte con calma a situazioni di forte stress, di creare alleanze e aiutarsi reciprocamente. Eppure i caregiver sono tutt’oggi penalizzati nel mondo del lavoro. Proprio nel momento in cui diventano caregiver, le donne escono dal mondo del lavoro poiché quella è la fase in cui l’equilibrio vita-lavoro comincia a vacillare. Una perdita di talenti e di opportunità enorme.
“Il tema della conciliazione riguarda la società tutta, non è solo ristretto alla popolazione femminile, a partire dai contesti famigliari, culturali, politici e aziendali. Benchè il cambio di paradigma debba avvenire in primo luogo all’interno delle mura domestiche, attraverso un migliore bilanciamento dei compiti tra uomini e donne, la società tutta e il mondo dell’economia non devono certo sottostimare questo tema” – spiega Elena Barazzetta. “Il tema della conciliazione e la disoccupazione femminile impattano notevolmente anche sul PIL. Secondo i dati della Banca d’Italia, se avessimo gli stessi livelli di occupazione femminile dell’Europa, il nostro PIL aumenterebbe del 7%”.
A ciò, va considerata la situazione demografica tipica del nostro Paese. L’Italia è un Paese a crescita negativa, il calo demografico è ormai una tendenza inesorabile, con cui avremmo già dovuto fare i conti diversi anni fa. Continua Barazzetta: “Citando il professor Alessandro Rosina, noto demografo che di recente ha pubblicato il suo nuovo libro Il futuro non invecchia, prima o poi il livello di demografia andrà stabilizzandosi, questo porterà la società a cambiare solo sull’indicatore dell’età media, saremo una società sempre più vecchia. Aumenterà, però, la qualità della vita e i sessantenni di domani avranno più abilità e capacità di sostare in una società sempre più dinamica”.
Ciò aprirà (o meglio: sta già aprendo) sfide e scenari nuovi: un aumento della popolazione “anziana” lavoratrice e la necessità sempre più forte di conciliare gli impegni professionali con le esigenze famigliari, soprattutto in risposta ai maggiori carichi di cura dei figli o dei genitori più anziani a cui i lavoratori dovranno dedicarsi durante il tempo famigliare.
“Le aziende sono degli attori importantissimi in tutto questo” – riprende Riccarda Zezza. “Venendo meno il ruolo dell’attore pubblico, è l’economia che sta guidando i principali cambiamenti in atto, offrendo risposte concrete alle nuove esigenze delle persone. Le aziende sono i nuovi attori culturali, politici, sociali. E questo è un aspetto positivo: le aziende si muovono con efficienza ed efficacia, quando le soluzioni individuate rispondono a queste logiche, è possibile metterle a sistema e scalarle”. Sono numerosi i casi di soluzioni di conciliazione win-win per aziende e dipendenti.
Se la vita entra nel mondo del lavoro e mette in crisi i vecchi modelli
La maternità è solo il primo di una serie di fenomeni che sono già entrati nel mondo del lavoro: il 73% dei dipendenti di un’azienda prima o poi nella vita presta cura a qualcuno, è un caregiver. Ogni lavoratore ha o potrà avere l’esigenza di conciliare vita-lavoro, non solo le mamme. Quando ciò non accade, la produttività cala, il livello di vicinanza e ingaggio con il lavoro diminuisce, lo stress sale. “Le aziende devono poter contare sul benessere dei propri dipendenti, perché ne guadagnano in produttività, in innovazione” – continua Zezza. “Se le persone stanno bene, se vedono la coerenza con chi sono, se hanno la possibilità di portare la propria autenticità in azienda, lavorano meglio e producono di più. E non c’è alternativa: siamo arrivati al punto che le aziende devono urgentemente occuparsi anche di questi temi”.
Le aziende devono poter contare sul benessere dei propri dipendenti, perché ne guadagnano in produttività, in innovazione. Se le persone stanno bene, se vedono la coerenza con chi sono, se hanno la possibilità di portare la propria autenticità in azienda, lavorano meglio e producono di più. E non c’è alternativa: siamo arrivati al punto che le aziende devono urgentemente occuparsi anche di questi temi.
Riccarda Zezza
“Cambia la prospettiva: se fino a poco tempo fa non si faceva entrare il privato in azienda, oggi vogliamo essere quanto possibili autentici, perché ciò ci mette nelle condizioni di esprimere in pieno tutti i nostri talenti”, riassume Chiara Lupi.
Enrico Gambardella, HR Director di AVIVA, azienda con progetti di gestione delle persone molto all’avanguardia: “Concordo che la logica economica delle aziende sia un importante agente del cambiamento. Si parla, ad esempio da tanti anni di smartworking, ma questa pratica non ha avuto successo fino a quando non si è calcolato che eliminare gli uffici dava circa 4-500 mila euro di risparmio. Le persone hanno cominciato a lavorare da casa e ne sono state felici. Il punto di partenza delle aziende non è la felicità dei propri dipendenti, ma il ritorno economico. Ecco perchè dobbiamo continuare a spiegare alle aziende che Diversity & Inclusion, la gender equality, producono risultati economici. Solo così possiamo continuare ad alimentare questa prospettiva”.
D’accordo con questo approccio, Barazzetta sottolinea: “L’azienda è sempre più un soggetto di secondo welfare, in soccorso di ciò che il primo welfare non è più in grado di sostenere, un interlocutore che mette in campo iniziative inedite che spesso il primo welfare non è grado di gestire. Di certo non si convincono le aziende a prendersi a cuore questi temi con un approccio filantropico, bisogna far leva su tutti gli elementi che generano produttività”.
“Il punto di partenza delle aziende non è la felicità dei propri dipendenti, ma il ritorno economico. Ecco perchè dobbiamo continuare a spiegare alle aziende che Diversity & Inclusion, la gender equality, producono risultati economici. Solo così possiamo continuare ad alimentare questa prospettiva” spiega Enrico Gambardella.
Le risorse per rendere possibile il cambiamento sono già dentro le aziende
MAAM è un esempio concreto. Aziende, già sensibili a questi temi, hanno scoperto come accogliere “la vita” dei propri dipendenti all’interno dei propri contesti possa agevolare il loro benessere, riducendo stress e conseguenti cali di produttività, migliorando l’ingaggio. Ma le aziende posso certamente creare le circostanze migliori, tuttavia sono le persone che hanno la responsabilità di cambiare le regole, sono le storie delle singole persone che possono cambiare la cultura.
Proprio a conferma di ciò, una voce si alza dal pubblico per portare un’appassionata riflessione su quanto detto finora: “Sono una mamma atipica, non ho figli biologici ma mi prendo cura dei figli di altri che non sono in grado di gestirli, sono una mamma affidataria. L’esperienza dell’affido mi ha fatto capire che avevo sviluppato negli anni un modello di leadership completamente maschile. Ho sempre lavorato nell’ambito dell’Information Technology, un ambiente prettamente maschile. Ho vissuto in azienda situazioni molto spiacevoli di discriminazione di genere con i miei colleghi, pertanto l’unico modo di giocare la mia partita in azienda era adeguarmi alle regole vigenti. Tre anni fa, con il primo bambino che ho avuto in affido, mi sono ritrovata in una situazione critica, il mio modo di rapportarmi a lui era come quello che adottavo in azienda. A quel punto mi sono fermata a riflettere e ho capito che nonostante gli ottimi risultati che ottenevo sul lavoro, non ero felice. Ma lo diventavo quando tornavo a casa, seppur con le difficoltà nel gestire ragazze adolescenti. Ho cambiato così modo di rapportarmi a casa e pian piano l’ho esteso anche in ambito lavorativo. È un modo che mi fa sentire tranquilla, è un modello che mi consente di portare il mio essere donna in azienda”.
È dopo questo racconto che Riccarda Zezza conclude: “Quando vuoi cambiare qualcosa, devi iniziare con le persone che sono già alleate in maniera naturale. Perché se un cambiamento così grande cerchi di farlo attaccando i più difficili, non ce la farai. Dobbiamo creare una crescente massa critica di persone e aziende che sono già pronte, per poi cambiare la storia che si sta narrando”.