Il tema è stato al centro del dibattito nell’incontro digitale dedicato alle aziende Caring Company: Crédit Agricole, Enel Italia, Mondelēz International e Santander Consumer Bank

Milano, 28 settembre 2022 –Lavoratori in azienda, spesso caregiver a casa. I dati stimano che nelle aziende, oltre il 70% delle persone sono caregiver, e cioè, si prendono cura di una o più persone care: un familiare, un figlio, un compagno. I dati dell’Osservatorio Vita – Lavoro di Lifeed evidenziano che solo l’8% delle persone si identifica in questo ruolo (9% donne vs 7% uomini).

Poca consapevolezza o stigma?

Poche persone comunicano sul luogo di lavoro di essere caregiver per paura che ciò possa influire negativamente sulla propria carriera. Tra coloro lo dichiarano, il 54% ammette di aver visto svanire l’assegnazione di compiti sfidanti, il 50% ha dichiarato di aver visto invece diminuire le possibilità di crescita salariale e di premi e il 46% di aver intrapreso un percorso di carriera insoddisfacente. (Fonte: “Talenti Senza Età 2019. Donne e Uomini over 50 sul lavoro”, Valore D)

Nella maggior parte dei casi però le persone non sono consapevoli del ruolo di cura che ricoprono e di come questo possa essere valorizzato in termini di competenze in azienda. Ciò determina sempre più spesso che non esprimono i loro bisogni e non sanno di poter accedere ai servizi di welfare. Le aziende si ritrovano nella situazione paradossale per cui molti dei servizi di welfare messi a disposizione non vengono fruiti dai lavoratori

“Abbiamo scoperto che il livello di identificazione con il ruolo di caregiver è aumentato del 66% in quelle aziende che hanno saputo vedere e valorizzare i ruoli di cura delle loro persone attraverso una trasformazione culturale: questo significa che ancora prima di rispondere ai bisogni delle persone con servizi di welfare è necessario capire chi sono e di cosa hanno davvero bisogno” ha dichiarato Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed.

È scientificamente provato che quando il caregiver sente di avere le risorse e i supporti adeguati per gestire al meglio questa fase critica della propria vita, emergono effetti positivi e le attività di cura diventano addirittura driver di benessere, generano resilienza e opportunità di crescita e sviluppo. Si chiama “biologia del coraggio” e aiuta a trasformare lo stress in opportunità.” ha aggiunto Borsato.

La cura, insieme alla consapevolezza, allena poi molte competenze: l’autoconsapevolezza (87%), l’ascolto (85%), gestione del cambiamento (81%), empatia (79%), problem solving (75%), orientamento al risultato (70%).

La consapevolezza rappresenta il primo motore per far emergere le risorse dei caregiver“, spiega Riccarda Zezza, CEO di Lifeed.Si tratta di una competenza soft che può diventare elemento di business se viene tradotta in cultura, nella percezione del valore di sé per arricchire la cultura aziendale. Per riuscirci, è necessaria una rivoluzione di prospettiva: i nuovi ruoli della nostra vita (come diventare caregiver) non devono combattere tra loro per ritagliarsi uno spazio. Piuttosto, ogni nuovo ruolo può avere un dialogo con le altre cose che siamo. Ciò favorisce la nostra efficacia ed empowerment, perché aumenta la nostra capacità sia di chiedere sia di dare agli altri”.

Carolina Azjin, People Experience Lead Italy di Mondelēz International ha commentato: “Questi dati rappresentano ancora una grossa sfida per le aziende. È vero che abbiamo fatto tanti passi in avanti negli ultimi anni per imparare a raccogliere, leggere e interpretare questi dati ma abbiamo dovuto fare anche una vera e propria operazione culturale. Lo abbiamo fatto anche grazie alla pandemia, che ha permesso alle persone di raccontarci i propri bisogni. È stato e sarà necessario mettere in campo azioni integrate per rispondere ai molteplici bisogni delle persone nell’ottica di una nuova sinergia vita-lavoro per far emergere e valorizzare quindi il portato personale. L’azienda (il cui programma Mondelēz Made Right è stato premiato dal Politecnico di Milano) ha promosso e attivato nel tempo, ad esempio, spazi di confronto e comunità interne, come i ‘DEI (Diversity, Equity & Inclusion) Ambassadors’, che hanno favorito la co-creazione di una cultura inclusiva dove i dipendenti sono attori attivi delle politiche aziendali.”

Raffaella Poggi D’Angelo, Responsabile People Care, Diversity and Inclusion di Enel Italia ha aggiunto: “Enel risponde perfettamente alle statistiche: circa un terzo degli over 50 dei nostri dipendenti è titolare della legge 104 per familiare. Inutile aggiungerlo, sono soprattutto donne ma anche moltissimi giovani. Il caregiver familiare è una componente essenziale del sistema di welfare nazionale: le aziende non possono non tenerne conto ma devono attivare una cultura della cura. Solo se l’azienda si mostra vicina alle persone e mette in pratica una cultura della cura, infatti, i caregiver non sono più invisibili. Il nostro team rappresenta un centro di ascolto in azienda, in particolare per sostenere i due pilastri del caring: genitorialità e caregiving”

Rosanna Maserati, Responsabile del Servizio Diversity e Inclusion di Crédit Agricole Italia ha commentato:È molto difficile andare ad individuare la categoria dei caregiver, questo perché ci sono ancora tante persone che non vogliono dirlo perché temono di essere percepiti come poco focalizzati sul lavoro, con la testa altrove. Bisogna appoggiarsi a strumenti di welfare ma soprattutto alla consapevolezza, uno strumento essenziale per un percorso di reale inclusione aziendale. Crédit Agricole Italia considera il tempo dedicato alla cura come tempo prezioso e ha quindi identificato due bisogni principali dei caregiver ai quali ha risposto: supporto emotivo-psicologico; servizi di sostegno economico e organizzativo. Inoltre, attraverso il master Care di Lifeed, è emerso che i caregiver avevano bisogno di ‘uscire allo scoperto’ e di parlare della loro dimensione di cura familiare. Fondamentale è quindi sviluppare nei caregiver la consapevolezza di non essere un peso per l’azienda ma, al contrario, vivere un’esperienza di cura familiare in grado di sviluppare competenze utili anche sul lavoro”

Lucia Saracco, People Coordinator di Santander Consumer Bank: “Nel nostro Paese, il ruolo dei caregiver viene dato sempre per scontato. Eppure è fondamentale, perché consente di esercitare tantissime competenze a cui è importante dare le giuste opportunità di crescita. Per valorizzare questo ruolo serve un cambiamento culturale, bisogna partire creando un ambiente inclusivo, dove sia percepito il valore delle differenze e tutti (compresi i caregiver) possano far emergere le loro competenze a beneficio dell’azienda. Un ambiente inclusivo genera innovazione e fa lavorare meglio. In azienda conta anche che tutti, a partire dal top management, usino un linguaggio inclusivo che rispetti le differenze e l’unicità di ognuno”

Oggi nelle aziende il 73% delle persone ha un ruolo di caregiver nella vita privata, cioè si prende cura di una persona cara come un figlio, un partner o un genitore anziano (The Caring Company, Harvard Business University, 2019). In Italia, un terzo degli over 50 si prende cura di almeno una persona anziana o non autosufficiente (Talenti Senza Età 2019. Donne e Uomini over 50 sul lavoro, Valore D).

Eppure quello dei caregiver è un ‘mondo sommerso’ all’interno delle imprese: in pochi comunicano sul luogo di lavoro di ricoprire questo ruolo di cura nella vita privata, per paura che ciò possa influire negativamente sulla propria carriera. Altre persone invece non sono proprio consapevoli di essere caregiver: da un’analisi dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed condotta su circa 10mila utenti emerge che solo l’8% si identifica nel ruolo di caregiver.

Ma quando si analizzano i dati dei partecipanti delle aziende che portano avanti percorsi di auto-consapevolezza dedicati ai caregiver, la percentuale di identificazione sale al 24% (con un incremento del 66%). Ciò avviene grazie al riconoscimento di questa dimensione identitaria, che ha l’effetto di dare significato all’esperienza e al ruolo di cura e di far fiorire talenti e competenze trasferibili sul lavoro.

Serve una rivoluzione di prospettiva

Questo dato suggerisce alle aziende la necessità di un nuovo approccio al tema del caregiving. Nel mercato del welfare, le imprese offrono ai loro dipendenti ‘pacchetti’ con vari servizi di sostegno delle famiglie, che spesso però non vengono utilizzati perché troppo generali. Si crea così un mismatch tra domanda e offerta. Solo ascoltare i reali bisogni delle persone permette di ‘vedere’ i caregiver in azienda e di riconoscerne le singole necessità, con benefici sul loro benessere, engagement e produttività, evitando uno spreco di risorse economiche.

Tutti questi temi sono stati approfonditi nel Caring Company digital talk “Conoscere i talenti dei caregiver” promosso da Lifeed, con la partecipazione di Riccarda Zezza CEO di Lifeed e le testimonianze di esperti del mondo HR, la condivisione dei dati presentati da Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.

La consapevolezza rappresenta quindi il primo motore per far emergere le risorse dei caregiver. Come spiega Zezza, si tratta di una competenza soft che può diventare elemento di business se viene tradotta in cultura, nella percezione del valore di sé per arricchire la cultura aziendale. Per riuscirci, è necessaria una rivoluzione di prospettiva: i nuovi ruoli della nostra vita (come diventare caregiver) non devono combattere tra loro per ritagliarsi uno spazio. Piuttosto, ogni nuovo ruolo può avere un dialogo con le altre cose che siamo. Ciò favorisce la nostra efficacia ed empowerment, perché aumenta la nostra capacità sia di chiedere sia di dare agli altri.

Prendersi cura di chi ha cura: le best practice aziendali

Come si traduce tutto ciò nell’esperienza delle aziende? Per Carolina Azijn, People Experience Lead Italy di Mondelēz International, è necessario mettere in campo azioni integrate per rispondere ai molteplici bisogni delle persone nell’ottica di una nuova sinergia vita-lavoro e per far emergere e valorizzare il portato personale. Tra i vari servizi messi a disposizione dei dipendenti, l’azienda (il cui programma Mondelez Made Right è stato premiato dal Politecnico di Milano) ha attivato nel tempo spazi di confronto e comunità interne, come i ‘Diversity, Equity & Inclusion Ambassadors’, che hanno favorito la co-creazione di una cultura inclusiva dove i dipendenti sono attori attivi delle politiche aziendali.

Solo se l’azienda si mostra vicina alle persone e mette in pratica una cultura della cura, i caregiver non sono più invisibili. Ne è convinta Irina Maletta, referente People Care Unità People Care, Diversity & Inclusion di Enel Italia, secondo cui un’impresa deve lavorare per favorire l’incontro tra la dimensione di cura e quella di crescita professionale, aiutando i caregiver a conciliare i propri ruoli. Tra i numerosi progetti a supporto della popolazione aziendale, Enel ha istituito la figura del ‘gestore del cuore’: i dipendenti hanno a disposizione questa figura per evidenziare problematiche di salute e familiari. Il gestore del cuore supporta quindi i caregiver nel trovare la giusta collocazione e l’azienda, a sua volta, mette in campo attività di formazione, informazione e servizi di wellbeing e caring. Il team di People Care, Diversity and Inclusion Italia rappresenta un vero e proprio centro di ascolto in azienda, in particolare per sostenere i due pilastri del caring: genitorialità e caregiving.

L’inclusione genera innovazione e benessere

Rosanna Maserati, Responsabile del Servizio Diversity e Inclusion di Crédit Agricole Italia, racconta che l’azienda considera il tempo dedicato alla cura come tempo prezioso. Crédit Agricole Italia ha quindi identificato due bisogni principali dei caregiver ai quali ha risposto: supporto emotivo-psicologico; servizi di sostegno economico e organizzativo. Fondamentale è sviluppare nei caregiver la consapevolezza di non essere un peso per l’azienda ma, al contrario, di vivere un’esperienza di cura familiare in grado di sviluppare competenze utili anche sul lavoro.

Quello del caregiver è un ruolo che spesso, nella cultura italiana, viene dato per scontato. Per valorizzarlo, serve un cambiamento culturale. Proprio su questo punto focalizza la propria attenzione Lucia Saracco, People Coordinator di Santander Consumer Bank, secondo cui bisogna partire creando un ambiente inclusivo, dove sia percepito il valore delle differenze e tutti (compresi i caregiver) possano far emergere le loro competenze a beneficio dell’azienda. Risulta quindi di fondamentale importanza il riconoscimento della dimensione di cura. Un ambiente inclusivo – aggiunge Saracco – genera innovazione e fa lavorare meglio. In azienda conta anche che tutti, a partire dal top management, usino un linguaggio inclusivo che rispetti le differenze e l’unicità di ognuno.

Per approfondire il tema del caregiving e capire come le aziende possono prendersi cura di chi ha cura, Lifeed ha realizzato il whitepaper dal titolo Tutto il valore dei caregiver.

Prendersi cura delle persone rappresenta un vantaggio competitivo per le aziende che vogliono favorire employer branding, talent attraction e retention. Ciò è possibile solo facendo emergere e valorizzando i talenti che gli individui esprimono nei loro ruoli di vita (come essere genitori o caregiver), non solo quelli professionali.

Quando sul lavoro si apre la porta ai ruoli di cura e si rompono gli stereotipi, emergono nuovi talenti oltre a quelli espressi nella dimensione professionale. Trasferire e usare competenze in contesti diversi, dalla vita privata al lavoro, permette di aumentare l’autoefficacia e la propensione a prendersi cura di sé.

Ma come possono le aziende prendersi cura nel concreto delle loro persone per favorire la sostenibilità dell’impresa? Se ne è discusso nel Caring Company digital talk “La cura, motore di sviluppo dei talenti” promosso da Lifeed, con la partecipazione di Riccarda Zezza CEO di Lifeed e le testimonianze di esperti del mondo HR, la condivisione dei dati presentati da Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.

Per far fiorire le persone, in realtà, non è necessario inventarsi nulla di nuovo. Come evidenzia Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, la transilenza (ovvero la capacità di trasferire competenze da un ambito all’altro della vita) rende consapevoli le persone di poter usare qualcosa che già possiedono, di essere qualcosa che si è già: basta saperla attivare.

Nella cura, secondo Zezza, c’è la chiave per cambiare le regole del gioco nelle imprese. Non si tratta però di aggiungere qualcosa di diverso nelle iniziative aziendali, piuttosto significa far emergere la capacità di cura che esiste già in noi stessi da sempre.

Qiali talenti si nascondono nei ruoli d cura

La cura come leva di sostenibilità aziendale

Come sostiene Barbara Falcomer, Direttrice Generale di Valore D, nelle aziende c’è un grande lavoro da fare in termini di consapevolezza per attivare il potenziale delle persone e favorire il trasferimento di skill tra le dimensioni identitarie, che permette di superare la scissione dei ruoli. Oggi più che mai, le aziende sono chiamate a occuparsi delle persone per garantire la sostenibilità organizzativa. Il contesto economico lo richiede e, secondo Falcomer, serve un sano ‘opportunismo’ perché le persone lavorano bene e i talenti restano in azienda solo se le aziende sanno prendersi cura di loro. Per farlo, i leader devono far sentire tutti liberi di esprimersi come persone a 360 gradi.

Dal suo osservatorio, Valore D vede nelle aziende una crescente tendenza all’ascolto delle persone e un impegno a creare una cultura dell’inclusione, che consente di superare i bias e di portare un cambiamento culturale (di cui in Italia c’è molto bisogno, soprattutto nelle Pmi). Questo cambiamento non può prescindere da una leadership in grado di ascoltare e ispirare le persone, attivando così la collaborazione e l’innovazione.

Un nuovo ‘contratto’ fra persone e aziende

Anche per Alessandra Occhipinti, Talent Partner Continental Europe di Marsh, le aziende devono facilitare il trasferimento di risorse dalla sfera personale a quella professionale. La pandemia ci ha fatto aprire le porte della nostra vita privata e le aziende si sono attivate con numerose iniziative di sostegno alle persone, superando la divisione tra le dimensioni familiare e lavorativa (il 94% dei collaboratori di Marsh ha apprezzato come l’azienda si è presa cura di loro durante il periodo di pandemia). La cura è inoltre un tema chiave del progetto Care & Grow di Marsh, che collega la cura delle persone con la crescita dell’azienda.

Secondo Occhipinti, la pandemia ha spinto le persone a riflettere sul loro ‘contratto psicologico’ con l’azienda: non si tratta più di un mero scambio di prestazioni, perché oggi le persone vogliono essere ascoltate e riconosciute nella loro interezza, includendo dimensioni personali che prima restavano fuori dalla sfera lavorativa. Per questo l’ascolto delle persone deve essere continuo, non solo una volta l’anno.

Il caring come modalità operativa

Le competenze allenate nei ruoli di vita privata ci permettono di essere efficaci anche sul lavoro. Per le aziende è quindi importante riconoscere come queste skill si trasformano in talenti per l’azienda. Secondo Chiara Ros, HR Manager di GRENKE Italia, il primo passo è creare un contesto abilitante che permetta alle persone di esprimere se stesse. Spetta quindi al management far sentire sicure le persone ad aprirsi in un ambiente protetto.

Per capire i bisogni delle persone, le aziende possono creare procedure interne, ma è ancora più importante partire dalle esigenze delle singole persone per accompagnarle nei momenti di transizione e rendere davvero efficace la cura. In questo senso, Ros parla di caring come modalità operativa.

Investire nella cura delle persone rappresenta infine un ritorno in termini di KPI aziendali, per esempio quando si vuole misurare la retention. In un contesto fluido come quello di oggi, è necessario che le organizzazioni capiscano davvero i bisogni delle persone, cercando di conciliarli con gli obiettivi aziendali. La cura, conclude Ros, va vista come qualcosa di naturale e le aziende hanno una responsabilità sociale non solo al loro interno, ma anche verso l’esterno.

Le azioni incentrate sulla cura fanno quindi emergere le risorse delle persone e favoriscono il loro benessere, anche sul lavoro: una strategia vincente per le aziende. Su questo tema, Lifeed ha realizzato il whitepaper “La cura come leva di inclusione, benessere e sviluppo dei talenti”.

Sono disponibili i finanziamenti del bando “#RiParto – Percorsi di welfare aziendale per agevolare il rientro al lavoro delle madri, favorire la natalità e il work-life balance”. L’obiettivo dell’iniziativa rivolta alle imprese è quello di favorire il ritorno al lavoro delle lavoratrici madri dopo l’esperienza del parto.

La misura del Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri mira infatti a “promuovere la realizzazione di progetti di welfare aziendale, con il fine di sostenere il rientro al lavoro delle lavoratrici madri e di favorire l’armonizzazione dei tempi di lavoro e dei tempi di cura della famiglia”.

Finalità dell’avviso è quindi quella di incentivare lo sviluppo di progetti capaci di fornire un sistema integrato di strumenti quali benefit, facility e servizi alla persona atti a concorrere sinergicamente alla risoluzione di problematiche comuni alle lavoratrici madri dopo l’arrivo di un nuovo figlio.

L’agevolazione è rivolta alle imprese, consorzi e gruppi di società collegate o controllate, per un importo complessivo di 50 milioni di euro. Per accedere al finanziamento occorre presentare la domanda via PEC all’indirizzo AvvisoRiParto@pec.governo.it entro le ore 12.00 del 5 settembre 2022. (per tutti i dettagli clicca qui).

Come Lifeed può aiutare le imprese a ottenere il finanziamento?

Lifeed si inserisce in questa iniziativa attraverso due percorsi di self-coaching, quelli per neogenitori con figli 0-3 anni e per i genitori con figli fino a 18 anni, entrambi finanziabili in quanto legati alla formazione delle mamme in ottica di work-life balance e rientro a lavoro.

Le due soluzioni hanno l’obiettivo di aumentare le competenze a disposizione dei genitori, in particolare delle mamme lavoratrici, favorendone benessere e autoefficacia. Madri e padri ne escono più forti e con nuovi talenti che possono utilizzare sia a casa sia sul lavoro.

D’altra parte, oggi in Italia il tema del rientro al lavoro delle lavoratrici madri è molto attuale e rappresenta ancora un problema irrisolto. Basti pensare che oltre 42mila genitori si sono licenziati in un anno dopo l’arrivo della pandemia, di cui il 77% mamme (dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro sul 2020). All’origine delle dimissioni c’è proprio la difficoltà di conciliare vita privata e professionale.

Eppure, come Lifeed è in grado di dimostrare attraverso i suoi percorsi, diventare genitori è una palestra unica per sviluppare capacità relazionali, organizzative e di innovazione sempre più richieste dalle aziende.

Grazie ai percorsi Lifeed, quindi, le aziende hanno l’occasione di ottenere i finanziamenti del bando #RiParto per favorire il ritorno al lavoro delle lavoratrici madri dopo la nascita di un figlio.

Oggi il mondo organizzativo è caratterizzato dall’eterogeneità: culture, generazioni ed esperienze che rendono gli individui unici. Favorire diversità e inclusione è diventato un fattore di competitività per le aziende. Ma si tratta di una moda passeggera o di una reale priorità?

Come ricordato da Robin Ely e David Thomas nell’articolo Getting Serious About Diversity (Harvard Business Review, 2020) il rischio dell’attuale retorica sulla diversità è quello di cadere in luoghi comuni, o in un “Diversity washing”, senza raggiungere i risultati sperati.

Tra i principali luoghi comuni ci sono: confondere la correlazione con la causalità (per esempio non è stata rilevata alcuna relazione significativa tra la diversità di genere nei board e le prestazioni aziendali); oppure affermare che una forza lavoro diversificata migliori le prestazioni finanziarie (non ci sono studi che dimostrano un legame automatico); lo stesso vale quando si sostiene che un team diversificato prenda decisioni migliori (al contrario, ciò può aumentare le tensioni e i conflitti).

Non basta ‘aggiungere’ diversità

Come è possibile, quindi, trasformare la D&I in un reale valore? Secondo i ricercatori dell’Harvard Business Review, non è sufficiente ‘aggiungere’ diversità: ciò che conta è come un’organizzazione lavora su di essa, in particolare seguendo tre direttrici: potere, parità, apprendimento.

Quando le persone appartenenti a gruppi identitari diversi sono in grado di riflettere e discutere il funzionamento del team e del modo di lavorare (potere), quando hanno le stesse possibilità di accedere alle risorse economiche, decisionali, di status (parità) e quando sono abilitate a riconoscere le loro differenze e ad apprendere da esse, anziché minimizzarle o negarle (apprendimento), allora la diversità può diventare davvero una risorsa.

Il 70% dei talenti emerge dai ruoli personali

D’altra parte, come emerso dalle riflessioni dei partecipanti all’esercizio di self-discovery MultiMe® Finder di Lifeed, nelle persone convivono ogni giorno mediamente cinque ruoli (di cui solo 1,5 lavorativi) e ciascuno di questi ruoli viene espresso in media attraverso cinque tratti caratteriali. Non solo: è emerso che il 70% dei talenti delle persone si trova nei ruoli personali e familiari. Un potenziale nascosto che, confrontato con la percentuale di talenti espressi solo nei ruoli professionali (12%), fa capire quanto talento rischi di essere sprecato sul lavoro.

Questo talento può essere valorizzato attraverso un apprendimento basato sulla vita che consente alle persone di esprimere tutte le loro capacità in ogni ruolo di vita, personale e professionale. Per le aziende si prospetta un miglioramento di ciò che Lifeed ha definito il “Diverse Talent Index”, che misura la percentuale del talento complessivamente disponibile che viene usata sul lavoro.

Di tutto questo si è discusso nel corso del Caring Company Digital Talk “La forza della diversità” promosso da Lifeed, attraverso i dati presentati da Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed, le testimonianze di esperti del mondo HR che hanno condiviso le best practice aziendali nell’ambito della Diversity&Inclusion e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.

La D&I come leva di business

Innanzitutto è essenziale che i valori dichiarati dalle imprese vengano agiti concretamente e con coerenza. Ne è convinta Valeria Icardi, Customer Team Director & D&I ERG Leader di Barilla, azienda che intende l’inclusione come parte integrante della propria cultura e del proprio codice etico.

Non solo: la D&I per Barilla è anche un imperativo strategico che supporta il modello di business aziendale. Infatti, creando un legame tra le iniziative di diversity e le performance aziendali è possibile vincere eventuali resistenze manageriali e dimostrare l’utilità dei programmi di D&I anche in termini di profitto.

Per farlo, è necessario che un’organizzazione faccia un lavoro di pianificazione e azione sul tema. Oltre ad essersi strutturata al suo interno con un apposito Global D&I Board e figure come il Chief Diversity Officer, Barilla ha introdotto gli Employee Resource Groups (ERG), gruppi di dipendenti volontari che promuovono attivamente una cultura inclusiva e favoriscono il cambiamento in azienda, dialogando con i loro omologhi all’estero.

Per arrivare a questa maturità, l’azienda ha inizialmente avviato partnership con società specializzate, con l’obiettivo di costruire solide basi sulla cultura della D&I, poi ha introdotto specifiche metriche per misurare l’efficacia dei programmi di inclusione.

Secondo Icardi, avere una comprensione più profonda della società e valorizzare l’unicità delle persone permette di trasferire questa cultura sia all’interno dell’azienda sia nei confronti dei clienti.

Misurazione e ascolto sono fondamentali

La reputazione di un’azienda e la sua capacità di attrarre talenti passano anche attraverso una concreta strategia di Diversity & Inclusion, come sottolinea Teresa Mancino, Talent & Learning Lead di ING, società che in ogni Paese in cui opera ha professionisti di riferimento per promuovere la Diversity & Inclusion.

Per l’azienda, ciò che ha fatto la differenza nel successo delle politiche di D&I è stato adottare un approccio concreto per tradurre i valori in comportamenti personali e iniziative aziendali che favoriscono realmente l’inclusione.

La misurazione costante e l’ascolto attraverso apposite survey si sono rivelate utili per far sentire coinvolte le persone, mettere in campo piani d’azione bottom-up e monitorarne l’efficacia nel tempo. In Italia, per esempio, ING ha costruito una HR dashboard per misurare il livello di diversity in vari ambiti aziendali.

Secondo Mancino, ogni dipendente ha un talento, ma solo un ambiente sano e inclusivo può aiutare le persone a far emergere questo talento.

Inclusione e performance: una relazione positiva

Creare una relazione profonda e positiva tra inclusione e performance è possibile se la D&I viene adeguatamente inserita in un progetto complessivo. Ma, come evidenzia Andrea Rubera, People Caring & Inclusion Manager di TIM, in Italia bisogna ancora investire molto sulla comunicazione (soprattutto nelle Piccole e medie imprese) per aumentare la consapevolezza del management sul fatto che la D&I ha una correlazione diretta con il business.

Per esempio, un effetto positivo è stato riscontrato da TIM sul coinvolgimento dei propri dipendenti. Attraverso una ricerca svolta in collaborazione con l’università La Sapienza di Roma, l’azienda ha verificato l’impatto delle iniziative di D&I sulle persone, notando che chi affermava di sentirsi più incluso aveva anche i valori più alti di engagement (il livello medio è aumentato di 20 punti negli ultimi tre anni).

Tra le tante iniziative messe in campo dall’azienda a favore della diversità, c’è la “TIM For Inclusion Community” nella quale le persone possono suggerire all’impresa azioni, formare gruppi di lavoro e realizzare progetti da far approvare da un’apposita commissione interna.

La community si basa su tre driver principali: far emergere i bisogni dal basso, perché la persona deve essere protagonista dell’espressione dei propri bisogni; valorizzare l’unicità della persona, per far emergere tutti gli aspetti della sua identità; lasciare tracce, cioè affermare l’impegno dell’azienda sulla D&I sia attraverso documenti interni sia tramite la comunicazione esterna.

L’inclusione è una delle aree di impatto principali (insieme al well-being e al talent development) delle azioni incentrate sulla cura delle persone da parte delle aziende. Su questo tema, Lifeed ha realizzato il whitepaper “La cura come leva di inclusione, benessere e sviluppo dei talenti”.

Il Gruppo Unipol è impegnato da anni con un’offerta di Welfare che mira a rendere la vita più profonda e più leggera, tramite programmi focalizzati sui due pilastri fondamentali della cura: genitorialità e caregiving.

Per ampliare e rafforzare le proprie iniziative a supporto della genitorialità, il Gruppo Unipol ha introdotto nel 2017 Master Child di Lifeed, rivolto a colleghi e colleghe neogenitori.

L’obiettivo era far emergere, sia a livello personale che a livello aziendale, tutta la ricchezza dello sviluppo di competenze trasversali che l’esperienza genitoriale genera e creare una contaminazione positiva tra i due ambiti.

I dati su Master Child evidenziano il potenziamento della capacità di tenere insieme l’identità di genitore con quella di professionista, l’aumento di energia, competenze e scambio positivo tra i due ambiti. A tutto questo si aggiunge un incremento nell’identificazione con l’azienda.

“Con Lifeed abbiamo voluto legittimare ancor più in azienda che il prendersi cura dei figli libera energie positive e fa fiorire le persone e i risultati lo dimostrano”, afferma Sabina Tarozzi, Responsabile Programmi di Welfare di Unipol.

Milano, 10 giugno 2022 – Lifeed, società di education technology a impatto sociale, è tra le cinque selezionatissime finaliste dell’EdtechX Startup Award, la cui premiazione finale si terrà a Londra il prossimo 23 giugno.

Il premio coinvolge aziende che stanno influenzando il settore EdTech a livello globale e che, nel corso dell’ultimo anno, hanno dimostrato un’importante crescita e capacità di sviluppare soluzioni all’avanguardia nell’ambito dell’educazione e dell’innovazione tecnologica. I finalisti dell’EdTechX Startup Award sono stati selezionati da una giuria globale che ha preso in considerazione una serie di fattori tra cui crescita del fatturato, capacità di scalare il proprio modello, innovazione e impatto sul mercato.

Il premio è stato organizzato da EdTechX, tra gli attori più importanti a livello mondiale nel settore dell’Edtech, in collaborazione con Cooley, studio legale internazionale e sponsor del premio.

“In alcuni Paesi europei c’è un fiorente ecosistema intorno all’innovazione in ambito education, che si sa che sarà alla base della capacità di progresso di persone, società e aziende nei prossimi anni. In Italia purtroppo non è così.” ha dichiarato Riccarda Zezza, CEO di Lifeed.E’ motivo di orgoglio per noi che quel che facciamo sia riconosciuto nel mondo per il proprio impatto innovativo nell’ambito della formazione aziendale, ma è un peccato che questo non possa avvenire “in patria”. Fare innovazione in Italia, persino per un’azienda come Lifeed, è ancora oggi molto difficile.”

Riccarda Zezza ha fondato nel 2015 Lifeed, la prima piattaforma digitale di self coaching che trasforma le esperienze di vita in competenze per la crescita di persone e aziende. Lifeed ha sviluppato il Life Based Learning®, un metodo di apprendimento innovativo che attiva il potenziale formativo delle esperienze di vita: la pratica quotidiana rende la formazione rilevante e continua, migliorandone l’efficacia e aumentando benessere e consapevolezza dei partecipanti.

Riccarda Zezza e Lifeed nel corso degli anni hanno ricevuto diversi premi, tra cui l’Ashoka Fellowship (2016), lo UBS Social Innovation Award (2017) e il Social Impact Award del Sole24Ore (2018). 

Nel 2018, Riccarda è stata premiata da Fortune Italia come “Most Influential and Innovative Woman” e indicata da Citi Foundation tra le 40 imprenditrici che stanno modificando l’innovazione di genere nel mondo. Nel 2021 l’European EdTech Alliance annovera Riccarda Zezza tra le 14 fondatrici più rilevanti di startup nel mercato EdTech europeo.

Essere genitori è una palestra unica per sviluppare capacità relazionali, organizzative e di innovazione sempre più richieste dalle aziende. In particolare, la maternità è una straordinaria esperienza in grado di attivare le competenze naturali delle madri, che possono essere valorizzate in tutte le loro potenzialità anche sul lavoro.

Ma purtroppo nel 2022 c’è ancora molto da lavorare in questa direzione, alla luce delle recenti parole di Elisabetta Franchi. Nell’ambito di un convegno, la stilista ha affermato di assumere nella sua azienda solo donne nei loro “anta” perché “quando metti una donna in una carica molto importante, poi non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni perché quella posizione è scoperta” a causa della maternità. “Io da imprenditore responsabile della mia azienda spesso ho puntato su uomini“.

E ha aggiunto, riguardo alle cosiddette “donne anta” (cioè sopra i 40 anni), che “se dovevano far figli o sposarsi lo avevano già fatto e quindi io le prendo che hanno fatto tutti i giri di boa, sono al mio fianco e lavorano h24, questo è importante”. Frasi che hanno suscitato grandi polemiche, anche perché pronunciate da una top manager donna e madre nel giorno della Festa della mamma 2022.

Per questo oggi è ancora più importante far sentire chiara e forte la nostra voce: per Lifeed la maternità è un’occasione unica, sia per le persone sia per le aziende, per allenare competenze trasferibili dalla vita privata al lavoro, scoprire nuovi talenti e migliorare il benessere individuale e organizzativo. È scientificamente provato che valorizzare la maternità sul lavoro fa stare meglio le mamme stesse e, di conseguenza, porta grandi benefici misurabili alle aziende.

Un esempio? Dai dati dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed emerge che nel 2021 sono state soprattutto le mamme ad affermare di essersi scoperte più forti di quanto credessero (82%) e di percepire un miglioramento delle proprie capacità di leadership attraverso i propri ruoli di cura (74%).

La cura allena una nuova leadership

Pubblichiamo quindi, di seguito, un estratto di un recente articolo di Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, sul blog AlleyOop de Il Sole 24Ore sui temi di maternità e lavoro: “La maternità non è un impedimento, ma un master. Anzi, esperienze come la nascita di un figlio e la cura dei propri genitori sono addirittura portatrici di un modello di leadership radicalmente diverso, che attinge all’istinto della specie umana verso la vita e il sapersi prendere cura gli uni degli altri”.

“Se stiamo ancora qui, nel giorno della Festa della mamma del 2022, a contare le dimissioni delle madri che lavorano, a indignarci e a commentare storie di donne demansionate, mobbizzate, licenziate, a domandarci dove siano i sensi di colpa di una madre che lavora (nello spazio) o a festeggiare come eccezionali i casi in cui una donna incinta viene assunta o addirittura promossa… qualcosa di sbagliato c’è”.

“Dobbiamo investire in consapevolezza e in conoscenza, così da smettere di cercare aggettivi nuovi per dare senso a parole che hanno perso la loro capacità di descrivere la realtà. Dobbiamo mettere in discussione tutto l’invisibile e renderlo visibile dando alle cose il loro vero nome e dando a noi stessi la consapevolezza di poter scegliere”.

“Infine, è ora di accettare che la diversità, come la leadership, non richiede che si lavori per conformare i nuovi entranti o per dargli i giusti attributi ‘diversi’, quanto piuttosto che si lavori per trasformare chi c’era già. Questo sì che sarebbe un buon modo per festeggiare le mamme in Italia, nel 2022″.

Foto: Ansa

Un’ulteriore ‘HR Alliance’ per Zucchetti che punta a creare le migliori condizioni di lavoro per le persone mediante le tecnologie digitali: Caring People, la piattaforma di self-coaching digitale di Lifeed, creata appositamente per le PMI, permette di usare le competenze sviluppate dagli eventi della vita anche nel mondo del lavoro, dando corpo al percorso di sostenibilità dell’azienda.

Zucchetti continua ad ampliare il programma delle ‘HR Alliance’ stringendo accordi con le realtà più innovative nel campo della gestione del personale per promuovere il modello della ‘Human Revolution’, un nuovo modo di lavorare che utilizzi tutti i vantaggi delle tecnologie digitali.

Su queste premesse nasce la collaborazione con Lifeed, società di education technology a impatto sociale, che ha creato la prima piattaforma digitale di self coaching che trasforma le esperienze di vita in competenze per la crescita di persone e aziende. Lifeed ha sviluppato il Life Based Learning®, un metodo di apprendimento innovativo che attiva il potenziale formativo delle esperienze di vita: la pratica quotidiana rende la formazione rilevante e continua, migliorandone l’efficacia e aumentando benessere e consapevolezza dei partecipanti.

Ciò che emerge dalle indagini della società è che il 70% dei talenti delle persone è espresso nei ruoli “non professionali”, che spesso le persone non sanno di avere e che le aziende non rilevano con i programmi tradizionali. I dati di impatto dimostrano che Lifeed attiva questi talenti nel 71% dei casi, migliorando l’engagement e il benessere delle persone coinvolte. L’86% dei partecipanti rivela di sentirsi più vicino all’azienda e il 90% delle persone dichiara livelli di benessere più alti.

La soluzione di Lifeed, denominata ‘Caring People Platform’ e ora parte del programma di Zucchetti, è pensata infatti in modo specifico per rendere disponibile il benessere organizzativo anche alle PMI, consentendo di potenziare le competenze ‘soft’ delle persone attraverso un percorso in grado di trasformare i cambiamenti della vita in abilità da impiegare nel mondo del lavoro, a beneficio del singolo e del gruppo.

Tutto in chiave digitale e misurabile per favorire un maggiore equilibrio tra vita familiare-lavoro e accompagnare anche le piccole imprese in un percorso virtuoso di sviluppo sostenibile.

“Oggi investire sul benessere dei collaboratori, favorendo il coinvolgimento, la motivazione e la produttività, non può essere solo una prerogativa delle grandi aziende. La collaborazione con Zucchetti ha l’obiettivo di coinvolgere le piccole medie imprese in un processo di trasformazione culturale e digitale che favorisca lo sviluppo e la sostenibilità del capitale umano. Le aziende che hanno scelto la nostra piattaforma per prendersi cura delle proprie persone e valorizzare tutti i loro talenti sono riconosciute come realtà pronte per il futuro, impegnate sul fronte del cambiamento culturale e del progresso sociale con azioni concrete e misurabili nel tempo”.

Chiara Bacilieri, Head of Data di Lifeed

“La grande sfida che ci siamo dati con il nostro purpose, ossia ‘Noi innoviamo per migliorare la tua vita’, consiste proprio nel proporre ai nostri clienti soluzioni tecnologiche capaci non solo di far lavorare meglio le persone, ma anche di creare le condizioni perché siano più serene e felici all’interno del luogo di lavoro. Soprattutto per quanto riguarda le PMI, occorre uno sforzo anche culturale e un approccio sul piano del benessere organizzativo che sia semplice, rapido ed efficace. La nostra sinergia con Lifeed va proprio in questa direzione e siamo certi che possa contribuire a rendere le aziende italiane più attrattive nell’ottica di sviluppo e mantenimento dei talenti”.

Luca Stella, innovation manager BU HR di Zucchetti



Oggi la realizzazione del benessere organizzativo deve passare da una gestione delle risorse umane che mette al centro la sostenibilità umana. Grazie a questo approccio e alle azioni messe in campo per i suoi dipendenti, Q8 è stata premiata nel 2022 da Lifeed come Caring Company, un riconoscimento alle aziende capaci di valorizzare le persone esprimendo un ruolo sociale con azioni concrete e misurabili. Fortunato Costantino, People care, Employees & Unions Relationship Manager di Q8 racconta come sia possibile realizzare la sinergia vita-lavoro e quali sono i benefici di questa visione per le persone e le aziende.

Come la pandemia ha ridefinito il concetto di sostenibilità nelle imprese?

L’emergenza sanitaria ha reso la società più consapevole della propria condizione di strutturale incompiutezza, accelerando il superamento dei paradigmi tradizionali delle scienze sociali, come quello di matrice meccanicistica e deterministica secondo cui certe azioni e comportamenti attuati nel presente sono sempre in grado di orientare e controllare il futuro. Ci dobbiamo preparare, invece, a vivere in scenari economici e sociali estremamente fluidi e variabili, non puntualmente esplorabili o prevedibili (dealing with ambiguity or uncertainty) e in questo contesto mutevole diventa fondamentale il ‘self-renewal’, cioè la capacità dell’individuo di essere resiliente e di adattarsi ai cambiamenti. Per lo sviluppo delle aziende, private e pubbliche, e per l’intero sistema-Paese, la valorizzazione del fattore umano diventa quindi centrale. La prontezza delle organizzazioni nell’essere socialmente sostenibili sarà la chiave per superare definitivamente i il paradigma taylorista focalizzato solo sulla capacità produttività dell’individuo e per adottare invece un approccio persona-centrico, che metta cioè al centro il pieno, integrale e autentico sviluppo umano, considerando l’individuo come l’asset strategico principale dell’impresa, oltre che della società civile, e creando le condizioni di benessere personale e organizzativo.

In che direzione devono andare, quindi, i nuovi modelli di leadership?

Questo cambiamento culturale radicale può partire solo da un nuovo stile di leadership funzionale alla sostenibilità, capace di coniugare gli irrinunciabili obiettivi di profittabilità con la valorizzazione concreta del capitale umano, che si attua attraverso il confronto continuo e la trasparenza nella condivisione delle informazioni e degli obiettivi strategici, spronando tutti a fare esercizio del proprio talento e valorizzando le molteplici dimensioni identitarie che ciascun collaboratore è capace di esprimere. Serve dunque una leadership “sostenibile” capace di avere una visione olistica dell’individuo, superando il trade off vita privata-lavoro, nella consapevolezza che l’esistenza di ciascun individuo è un’esperienza integrata che riflette la molteplicità delle dimensioni dell’essere e dei ruoli giocati e che perderebbe di significato se astratta da una qualsiasi delle sue componenti essenziali. Se non si accetta l’idea di questa ineludibile compenetrazione tra dimensioni dell’essere, non è neppure possibile accedere alla comprensione della realtà umana, della società e dell’ordine complessivo dei suoi progetti.

Come si traduce questa visione nella quotidianità della gestione delle risorse umane?

Significa superare l’approccio statico alle dimensioni identitarie dell’essere umano e considerare vita e lavoro come un’unica entità. In ambito HR, ciò si traduce nella valorizzazione della persona nella sua interezza e in tutte le sue esperienze, dai ruoli privati a quelli professionali. L’individuo è il primo asset strategico da valorizzare e l’impresa può farlo cercando di cogliere le interazioni di valore tra vita e lavoro. Sentendosi ascoltate e tenute in considerazione per ciò che sono, le persone generano più valore in termini di ingaggio e motivazione, divenendo dei veri e propri brand ambassador dell’organizzazione. Conseguentemente, anche le relazioni all’interno dell’azienda diventano più resilienti e sostenibili.

In che direzione devono andare, quindi, i nuovi modelli di leadership?  Questo cambiamento culturale radicale può partire solo da un nuovo stile di leadership funzionale alla sostenibilità, capace di coniugare gli irrinunciabili obiettivi di profittabilità con la valorizzazione concreta del capitale umano, che si attua attraverso il confronto continuo e la trasparenza nella condivisione delle informazioni e degli obiettivi strategici, spronando tutti a fare esercizio del proprio talento e valorizzando le molteplici dimensioni identitarie che ciascun collaboratore è capace di esprimere. Serve dunque una leadership “sostenibile” capace di avere una visione olistica dell’individuo, superando il trade off vita privata-lavoro, nella consapevolezza che l’esistenza di ciascun individuo è un’esperienza integrata che riflette la molteplicità delle dimensioni dell’essere e dei ruoli giocati e che perderebbe di significato se astratta da una qualsiasi delle sue componenti essenziali. Se non si accetta l’idea di questa ineludibile compenetrazione tra dimensioni dell’essere, non è neppure possibile accedere alla comprensione della realtà umana, della società e dell’ordine complessivo dei suoi progetti.
Come si traduce questa visione nella quotidianità della gestione delle risorse umane?  Fortunato Costantino, People care, Employees & Unions Relationship Manager Q8
Fortunato Costantino, People care, Employees & Unions Relationship Manager Q8

Nell’ambito della formazione aziendale, come è possibile valorizzare le esperienze di vita delle persone?

In Q8 abbiamo affiancato ai tradizionali programmi di formazione, percorsi specifici sulla valorizzazione delle esperienze di vita. Siamo convinti dell’importanza di sviluppare soft skill provenienti dalla sinergia vita-lavoro. Per questo abbiamo introdotto il metodo del Life Based Learning ideato da Lifeed, che rappresenta una fonte di apprendimento unica. Pensiamo al fatto che il 30% dei talenti è espresso nei ruoli professionali mentre il 70% si trova in quelli privati, come essere genitori o caregiver: sono esperienze che fanno emergere doti innate che, se trasferite sul lavoro, danno un grande valore aggiunto. Si tratta di una ricchezza infinita, che deve essere colta dalle aziende per una crescita di valore sia riguardo al self-coaching individuale, sia in termini di Talent retention, Employer branding e benessere organizzativo per l’azienda, soprattutto in un mercato sempre più competitivo.

Qual era il vostro bisogno?

Volevamo adottare una strategia di sostenibilità globale efficace e concreta, consci che quest’obiettivo doveva certamente e ovviamente passare dalla compiuta declinazione dei parametri ESG. Intuivamo tuttavia che occorreva riservare un’attenzione peculiare al parametro sociale, convinti che la sostenibilità umana o sociale dell’organizzazione, la sua capacità di generare valore non solo per sé ma anche per i suoi dipendenti e per il territorio, sia un driver privilegiato di successo dell’organizzazione e di consenso da parte di tutti i possibili stakeholder. Abbiamo capito che la chiave per realizzarla era il riconoscimento del valore dell’individuo in termini concretamente misurabili mediante l’adozione di strumenti e metodologie adeguati in grado di generare capacità di self-discovery e self-coaching stimolando la lettura e la comprensione dei propri talenti e attitudini. In Q8 abbiamo quindi ampliato negli anni i percorsi Lifeed per i nostri dipendenti perché condividiamo la stessa “visione aperta” sul valore dell’individuo e perché Lifeed ha elaborato strumenti e metodi di formazione oggettivamente qualificati grazie ai quali, nel corso del tempo, abbiamo ottenuto risultati molto positivi.

Qual è stato l’impatto dei percorsi Lifeed in Q8?

Abbiamo visto una più matura consapevolezza di sé dei dipendenti, che oggi ‘vivono l’azienda’ con più efficienza, motivazione e affermano di sentirsi meglio. Questa cura per i nostri collaboratori ci ha portati a essere riconosciuti da Lifeed come Caring Company, un premio di cui siamo molto orgogliosi. Personalmente, inoltre, trovo geniali e molto utili strumenti come MultiMe e il Diverse Talent Index di Lifeed. Il miglioramento si apprezza sotto vari aspetti: per esempio, i dipendenti hanno superato le precedenti timidezze legate alla mancata consapevolezza di sé e si sentono più ascoltati grazie al fatto che l’azienda ha messo a disposizione i percorsi Lifeed. Questo li rende più consapevoli delle proprie capacità e li stimola a essere più proattivi sul lavoro.

Quali sono i risultati principali che avete ottenuto?

Abbiamo registrato una percentuale identica (50%) di uomini e donne partecipanti ai percorsi Lifeed. Dal 2020 a oggi, circa 200 persone si sono registrate, di cui 109 solo tra aprile e maggio 2022: sono numeri che testimoniano la tenuta crescente del percorso intrapreso e che ci hanno spinti ad ampliare la collaborazione con Lifeed attraverso il percorso ‘Work-life synergy’. I partecipanti ci tengono a raccontare le loro esperienze (abbiamo 2.500 riflessioni in piattaforma). Il 70% di loro dichiara di sentire di aver migliorato le proprie competenze soft, l’81% ha migliorato empatia e ascolto, l’87% ha sviluppato la gestione del cambiamento, il 70% si sente più capace di gestire lo stress. Mi ha colpito soprattutto il fatto che i dipendenti si siano detti più attenti alle relazioni personali, dopo aver vissuto direttamente transizioni di vita importanti, quindi sono diventati più capaci di immedesimarsi negli altri e hanno maturato una maggiore attenzione al prossimo. E c’è anche un altro dato che ci rende orgogliosi…

Quale?

Il 100% dei dipendenti diventati papà nel 2020 e 2021 ha chiesto il congedo integrativo messo a disposizione da Q8 oltre a quello previsto per legge, a dimostrazione che i partecipanti ai percorsi per i genitori di Lifeed hanno maturato una nuova consapevolezza del fatto che il ruolo di padre non deve essere subalterno a quello professionale ma, anzi, migliora proprio la sinergia con il lavoro.

Infine, qual è il valore aggiunto del digitale per la gestione HR?

La People Analytics rappresenta una fonte di insight molto importante per l’azienda per conoscere i dipendenti e mettere in campo piani Data-driven più efficaci per favorire l’engagement e il benessere. Nella nostra total wellbeing proposition, crediamo che sia fondamentale rilevare e identificare i bisogni reali delle persone, che sono dinamici e cambiano continuamente. In questo senso, siamo certi che i Data Analytics, grazie al supporto dell’Intelligenza Artificiale, permetteranno di cogliere i cambiamenti dei bisogni nel tempo e di modulare coerentemente l’offerta di wellbeing e welfare rivolta ai nostri stakeholder interni (cioè i dipendenti) sulla base dei loro effettivi bisogni, al contempo, garantendo la sostenibilità sociale dell’organizzazione nel futuro.