Oggi nel mondo del lavoro, fenomeni come Grandi dimissioni e Quiet quitting rappresentano le conseguenze della ‘rottura’ del patto tra persone e aziende. Per far tornare le persone a sentirsi più vicine al loro lavoro, le imprese sono chiamate a incentrare la loro strategia HR su azioni che favoriscono il benessere, la retention, l’inclusione e lo sviluppo di competenze. Ma come è possibile realizzare concretamente la sostenibilità umana in azienda? Ne parliamo con Chiara Bacilieri, Head of Research & Innovation di Lifeed.
Innanzitutto è necessario saper vedere e valorizzare tutto il potenziale delle persone: non solo le competenze che stanno già usando sul lavoro, ma anche i loro talenti “nascosti”. Secondo i risultati dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, le persone usano sul lavoro solo il 30-40% del loro potenziale, in termini di competenze ‘soft’. Il restante 60-70%, sviluppato nelle esperienze e nei ruoli di vita personali, resta spesso nascosto e rischia così di essere sprecato. E quando le persone non si sentono valorizzate per tutto ciò che sono e hanno da dare, è più probabile che vadano via.
Vedendo le persone meglio e di più di quanto sia mai stato fatto prima. Valorizzando sul lavoro le risorse che le persone hanno e usano anche fuori dal lavoro, nei ruoli personali e familiari. Per farlo, abbiamo creato uno strumento rivoluzionario che permette all’azienda di scoprire, misurare e attivare sul lavoro tutto il potenziale delle persone e dei team: Lifeed Radar.
Lifeed Radar è uno strumento digitale di autosviluppo basato sulla metodologia di apprendimento proprietaria di Lifeed, il Life Based Learning, che poggia su teorie e ricerche scientifiche e psicologiche. Questo strumento unico al mondo rivela e attiva tutto il potenziale delle persone per migliorare il benessere, accrescere le competenze e favorire l’inclusione in azienda.
Grazie a Lifeed Radar, le persone diventano più consapevoli di sé e di tutte le risorse che hanno, dentro e fuori dal lavoro, quindi si sentono più forti e capaci sia nella vita lavorativa sia in quella privata. Tutto ciò ha un impatto diretto sul loro benessere e la loro efficacia. Lifeed Radar consente inoltre alle persone di scoprire quali competenze stanno usando in alcuni ruoli e non ancora in altri, per poi invitarle a trasferirle anche in nuovi ruoli, per esempio dalla sfera familiare a quella lavorativa.
Le aziende ne beneficiano in termini di coinvolgimento, benessere, empowerment e crescita delle persone – perché scoprono come attivare sul lavoro il loro “pieno potenziale”. Dando un messaggio importante di attenzione e di cura, le organizzazioni hanno più leve per motivare e trattenere le persone. Inoltre hanno a disposizione un report che restituisce la mappa completa delle soft skill presenti nei ruoli personali e lavorativi, possono misurare quante sono e dove si trovano e possono attivarle sul lavoro quando serve. Se usato a livello di team, Lifeed Radar diventa un efficace strumento manageriale di conoscenza, team building, engagement e sviluppo della leadership.
I risultati di Lifeed Radar hanno un impatto positivo sulla cultura aziendale e sull’employer branding, sia a livello dell’intera azienda sia a livello di team, e possono essere utilizzati per la misurazione dell’impatto ESG. Ricevendo dati da utilizzare per i report di sostenibilità, gli HR manager e i people manager possono contribuire attivamente alla crescita delle aziende e alla strategia di sviluppo del capitale umano, con vantaggi anche in termini di attrazione dei giovani talenti e di retention di tutte le persone.
GRENKE, società specializzata nel noleggio operativo B2B, aveva l’obiettivo di rimuovere le criticità e gli ostacoli tra le situazioni di vita privata delle persone (genitorialità, caregiving) e le loro performance al lavoro.
L’azienda cercava uno strumento per dare sostegno concreto alle persone nella loro gestione dell’equilibrio vita-lavoro e per valorizzare tutte le competenze allenate nelle esperienze private di cura.
GRENKE ha introdotto inizialmente il percorso Lifeed per i dipendenti neogenitori con figli da zero a tre anni.
Questa esperienza positiva ha convinto l’azienda ad ampliare la collaborazione nel corso degli anni successivi con l’aggiunta del percorso Lifeed per i dipendenti caregiver.
“Siamo fieri di essere riconosciuti come una Caring Company. Insieme a Lifeed abbiamo dimostrato che le esperienze come la genitorialità e il caring sono in grado di far sviluppare competenze utili anche sul lavoro. Investire nella cura delle persone rappresenta un ritorno in termini di obiettivi aziendali”, spiega Chiara Ros, Team Leader HR People & Culture di GRENKE Italy.
Sono disponibili i finanziamenti del bando “#RiParto – Percorsi di welfare aziendale per agevolare il rientro al lavoro delle madri, favorire la natalità e il work-life balance”. L’obiettivo dell’iniziativa rivolta alle imprese è quello di favorire il ritorno al lavoro delle lavoratrici madri dopo l’esperienza del parto.
La misura del Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri mira infatti a “promuovere la realizzazione di progetti di welfare aziendale, con il fine di sostenere il rientro al lavoro delle lavoratrici madri e di favorire l’armonizzazione dei tempi di lavoro e dei tempi di cura della famiglia”.
Finalità dell’avviso è quindi quella di incentivare lo sviluppo di progetti capaci di fornire un sistema integrato di strumenti quali benefit, facility e servizi alla persona atti a concorrere sinergicamente alla risoluzione di problematiche comuni alle lavoratrici madri dopo l’arrivo di un nuovo figlio.
L’agevolazione è rivolta alle imprese, consorzi e gruppi di società collegate o controllate, per un importo complessivo di 50 milioni di euro. Per accedere al finanziamento occorre presentare la domanda via PEC all’indirizzo AvvisoRiParto@pec.governo.it entro le ore 12.00 del 5 settembre 2022. (per tutti i dettagli clicca qui).
Lifeed si inserisce in questa iniziativa attraverso due percorsi di self-coaching, quelli per neogenitori con figli 0-3 anni e per i genitori con figli fino a 18 anni, entrambi finanziabili in quanto legati alla formazione delle mamme in ottica di work-life balance e rientro a lavoro.
Le due soluzioni hanno l’obiettivo di aumentare le competenze a disposizione dei genitori, in particolare delle mamme lavoratrici, favorendone benessere e autoefficacia. Madri e padri ne escono più forti e con nuovi talenti che possono utilizzare sia a casa sia sul lavoro.
D’altra parte, oggi in Italia il tema del rientro al lavoro delle lavoratrici madri è molto attuale e rappresenta ancora un problema irrisolto. Basti pensare che oltre 42mila genitori si sono licenziati in un anno dopo l’arrivo della pandemia, di cui il 77% mamme (dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro sul 2020). All’origine delle dimissioni c’è proprio la difficoltà di conciliare vita privata e professionale.
Eppure, come Lifeed è in grado di dimostrare attraverso i suoi percorsi, diventare genitori è una palestra unica per sviluppare capacità relazionali, organizzative e di innovazione sempre più richieste dalle aziende.
Grazie ai percorsi Lifeed, quindi, le aziende hanno l’occasione di ottenere i finanziamenti del bando #RiParto per favorire il ritorno al lavoro delle lavoratrici madri dopo la nascita di un figlio.
Oggi il mondo organizzativo è caratterizzato dall’eterogeneità: culture, generazioni ed esperienze che rendono gli individui unici. Favorire diversità e inclusione è diventato un fattore di competitività per le aziende. Ma si tratta di una moda passeggera o di una reale priorità?
Come ricordato da Robin Ely e David Thomas nell’articolo Getting Serious About Diversity (Harvard Business Review, 2020) il rischio dell’attuale retorica sulla diversità è quello di cadere in luoghi comuni, o in un “Diversity washing”, senza raggiungere i risultati sperati.
Tra i principali luoghi comuni ci sono: confondere la correlazione con la causalità (per esempio non è stata rilevata alcuna relazione significativa tra la diversità di genere nei board e le prestazioni aziendali); oppure affermare che una forza lavoro diversificata migliori le prestazioni finanziarie (non ci sono studi che dimostrano un legame automatico); lo stesso vale quando si sostiene che un team diversificato prenda decisioni migliori (al contrario, ciò può aumentare le tensioni e i conflitti).
Come è possibile, quindi, trasformare la D&I in un reale valore? Secondo i ricercatori dell’Harvard Business Review, non è sufficiente ‘aggiungere’ diversità: ciò che conta è come un’organizzazione lavora su di essa, in particolare seguendo tre direttrici: potere, parità, apprendimento.
Quando le persone appartenenti a gruppi identitari diversi sono in grado di riflettere e discutere il funzionamento del team e del modo di lavorare (potere), quando hanno le stesse possibilità di accedere alle risorse economiche, decisionali, di status (parità) e quando sono abilitate a riconoscere le loro differenze e ad apprendere da esse, anziché minimizzarle o negarle (apprendimento), allora la diversità può diventare davvero una risorsa.
D’altra parte, come emerso dalle riflessioni dei partecipanti all’esercizio di self-discovery MultiMe® Finder di Lifeed, nelle persone convivono ogni giorno mediamente cinque ruoli (di cui solo 1,5 lavorativi) e ciascuno di questi ruoli viene espresso in media attraverso cinque tratti caratteriali. Non solo: è emerso che il 70% dei talenti delle persone si trova nei ruoli personali e familiari. Un potenziale nascosto che, confrontato con la percentuale di talenti espressi solo nei ruoli professionali (12%), fa capire quanto talento rischi di essere sprecato sul lavoro.
Questo talento può essere valorizzato attraverso un apprendimento basato sulla vita che consente alle persone di esprimere tutte le loro capacità in ogni ruolo di vita, personale e professionale. Per le aziende si prospetta un miglioramento di ciò che Lifeed ha definito il “Diverse Talent Index”, che misura la percentuale del talento complessivamente disponibile che viene usata sul lavoro.
Di tutto questo si è discusso nel corso del Caring Company Digital Talk “La forza della diversità” promosso da Lifeed, attraverso i dati presentati da Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed, le testimonianze di esperti del mondo HR che hanno condiviso le best practice aziendali nell’ambito della Diversity&Inclusion e la moderazione di Chiara Sivieri, Customer Executive di Lifeed.
Innanzitutto è essenziale che i valori dichiarati dalle imprese vengano agiti concretamente e con coerenza. Ne è convinta Valeria Icardi, Customer Team Director & D&I ERG Leader di Barilla, azienda che intende l’inclusione come parte integrante della propria cultura e del proprio codice etico.
Non solo: la D&I per Barilla è anche un imperativo strategico che supporta il modello di business aziendale. Infatti, creando un legame tra le iniziative di diversity e le performance aziendali è possibile vincere eventuali resistenze manageriali e dimostrare l’utilità dei programmi di D&I anche in termini di profitto.
Per farlo, è necessario che un’organizzazione faccia un lavoro di pianificazione e azione sul tema. Oltre ad essersi strutturata al suo interno con un apposito Global D&I Board e figure come il Chief Diversity Officer, Barilla ha introdotto gli Employee Resource Groups (ERG), gruppi di dipendenti volontari che promuovono attivamente una cultura inclusiva e favoriscono il cambiamento in azienda, dialogando con i loro omologhi all’estero.
Per arrivare a questa maturità, l’azienda ha inizialmente avviato partnership con società specializzate, con l’obiettivo di costruire solide basi sulla cultura della D&I, poi ha introdotto specifiche metriche per misurare l’efficacia dei programmi di inclusione.
Secondo Icardi, avere una comprensione più profonda della società e valorizzare l’unicità delle persone permette di trasferire questa cultura sia all’interno dell’azienda sia nei confronti dei clienti.
La reputazione di un’azienda e la sua capacità di attrarre talenti passano anche attraverso una concreta strategia di Diversity & Inclusion, come sottolinea Teresa Mancino, Talent & Learning Lead di ING, società che in ogni Paese in cui opera ha professionisti di riferimento per promuovere la Diversity & Inclusion.
Per l’azienda, ciò che ha fatto la differenza nel successo delle politiche di D&I è stato adottare un approccio concreto per tradurre i valori in comportamenti personali e iniziative aziendali che favoriscono realmente l’inclusione.
La misurazione costante e l’ascolto attraverso apposite survey si sono rivelate utili per far sentire coinvolte le persone, mettere in campo piani d’azione bottom-up e monitorarne l’efficacia nel tempo. In Italia, per esempio, ING ha costruito una HR dashboard per misurare il livello di diversity in vari ambiti aziendali.
Secondo Mancino, ogni dipendente ha un talento, ma solo un ambiente sano e inclusivo può aiutare le persone a far emergere questo talento.
Creare una relazione profonda e positiva tra inclusione e performance è possibile se la D&I viene adeguatamente inserita in un progetto complessivo. Ma, come evidenzia Andrea Rubera, People Caring & Inclusion Manager di TIM, in Italia bisogna ancora investire molto sulla comunicazione (soprattutto nelle Piccole e medie imprese) per aumentare la consapevolezza del management sul fatto che la D&I ha una correlazione diretta con il business.
Per esempio, un effetto positivo è stato riscontrato da TIM sul coinvolgimento dei propri dipendenti. Attraverso una ricerca svolta in collaborazione con l’università La Sapienza di Roma, l’azienda ha verificato l’impatto delle iniziative di D&I sulle persone, notando che chi affermava di sentirsi più incluso aveva anche i valori più alti di engagement (il livello medio è aumentato di 20 punti negli ultimi tre anni).
Tra le tante iniziative messe in campo dall’azienda a favore della diversità, c’è la “TIM For Inclusion Community” nella quale le persone possono suggerire all’impresa azioni, formare gruppi di lavoro e realizzare progetti da far approvare da un’apposita commissione interna.
La community si basa su tre driver principali: far emergere i bisogni dal basso, perché la persona deve essere protagonista dell’espressione dei propri bisogni; valorizzare l’unicità della persona, per far emergere tutti gli aspetti della sua identità; lasciare tracce, cioè affermare l’impegno dell’azienda sulla D&I sia attraverso documenti interni sia tramite la comunicazione esterna.
L’inclusione è una delle aree di impatto principali (insieme al well-being e al talent development) delle azioni incentrate sulla cura delle persone da parte delle aziende. Su questo tema, Lifeed ha realizzato il whitepaper “La cura come leva di inclusione, benessere e sviluppo dei talenti”.
Il Gruppo Unipol è impegnato da anni con un’offerta di Welfare che mira a rendere la vita più profonda e più leggera, tramite programmi focalizzati sui due pilastri fondamentali della cura: genitorialità e caregiving.
Per ampliare e rafforzare le proprie iniziative a supporto della genitorialità, il Gruppo Unipol ha introdotto nel 2017 Master Child di Lifeed, rivolto a colleghi e colleghe neogenitori.
L’obiettivo era far emergere, sia a livello personale che a livello aziendale, tutta la ricchezza dello sviluppo di competenze trasversali che l’esperienza genitoriale genera e creare una contaminazione positiva tra i due ambiti.
I dati su Master Child evidenziano il potenziamento della capacità di tenere insieme l’identità di genitore con quella di professionista, l’aumento di energia, competenze e scambio positivo tra i due ambiti. A tutto questo si aggiunge un incremento nell’identificazione con l’azienda.
“Con Lifeed abbiamo voluto legittimare ancor più in azienda che il prendersi cura dei figli libera energie positive e fa fiorire le persone e i risultati lo dimostrano”, afferma Sabina Tarozzi, Responsabile Programmi di Welfare di Unipol.
Oggi lo scenario del mondo del lavoro è profondamente diverso rispetto al periodo pre-pandemia. Le priorità delle persone sono cambiate e le modalità organizzative si sono trasformate in modo radicale, probabilmente per sempre. Di conseguenza, anche il mercato del lavoro non è più lo stesso.
Lo Smart working è diventato sempre più diffuso e le persone si sono trovate spesso a lavorare dalla propria casa. In questo contesto, come rileva l’Annual Survey 2021 dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed che ha coinvolto 1.258 partecipanti ai suoi percorsi formativi, c’è stato uno spostamento di focus delle persone verso il proprio benessere.
Tra i ruoli di cura, il 40% dei partecipanti riconosce di prendersi cura di sé, un aumento del 90% rispetto al dato 2020 (dove solo il 4% riconosceva di prendersi cura di sé). Questo dato potrebbe essere indice di una maggiore attenzione al benessere personale e di una aumentata consapevolezza.
La pandemia resta per il terzo anno consecutivo la transizione più forte per le persone (74%). Ma ciascun partecipante alla Survey di Lifeed afferma di vivere anche altre transizioni personali, come diventare genitore o caregiver, cambiare lavoro, casa, ecc.
In questo scenario, è interessante osservare come il dato sulla leadership risulti più alto per coloro che si prendono cura di qualcuno, a casa o sul lavoro. Se infatti in generale il 77% riconosce di aver migliorato questa capacità, la percentuale sale all’84% per i neo genitori, all’80% per i caregiver e al 79% per i genitori.
Anche prendersi cura di qualcuno sul lavoro aumenta le capacità di leadership, come dimostra il dato sull’83% dei manager (+6% rispetto alla media). Questi dati suggeriscono come oggi, nelle aziende, la leadership debba mettere al centro delle proprie azioni la parola “cura”.
VUOI SCOPRIRE TUTTI I RISULTATI DELLA SURVEY? SCARICA IL WHITEPAPER
Di fronte all’evoluzione della Great Resignation (il “boom di dimissioni” post-pandemia) da fenomeno prettamente statunitense a realtà globale che tocca diversi Paesi industrializzati, tra cui l’Italia, come possono le aziende mettere al sicuro il proprio futuro e persino ottenere un margine competitivo in una situazione così turbolenta?
Secondo Gallup, la risposta è partire dal reskilling delle persone, in modo particolare dei manager. Rifacendosi ad alcuni dati estratti dalla ricerca The American Upskilling Study, pubblicata nel giugno del 2021, l’azienda di sondaggi osserva come il 57% degli americani consideri una priorità l’aggiornamento delle proprie competenze, affermando inoltre che “una delle necessità dell’essere umano più resistenti alle crisi e al passare del tempo è il bisogno di evolvere. Le persone pretendono crescita e sviluppo”.
L’instabilità dell’ultimo anno e mezzo ha spinto molte persone a ripensare completamente i loro percorsi di vita professionale e personale. Molti di noi hanno attraversato cambiamenti profondi che hanno alterato il nostro equilibrio vita-lavoro: le sfide derivanti dalla combinazione dei doveri genitoriali con quelli professionali sono gradualmente (e fortunatamente) diventate argomenti degni di discussione in contesti ufficiali.
Al contempo, in Paesi con contesti imprenditoriali più tradizionali come l’Italia, il lavoro da casa e altre modalità di lavoro flessibile sono diventate soluzioni più ampiamente accettate, e non soltanto risposte temporanee alla situazione di emergenza.
Eppure soltanto una manciata di aziende hanno colto l’opportunità di sfruttare al massimo queste trasformazioni e il loro potenziale in termini di sviluppo delle persone. Non stupisce, dunque, che queste rare eccezioni siano oggi le aziende più richieste dai candidati più forti intenzionati a rientrare nel mercato del lavoro. E non è forse questo un notevole vantaggio competitivo?
Se gran parte delle persone ha vissuto transizioni significative con effetti profondi sulla propria situazione professionale, i ruoli e le responsabilità dei manager hanno attraversato una trasformazione possibilmente ancora più profonda.
Non solo i leader si sono ritrovati ad affrontare situazioni al di fuori dell’ambito prettamente lavorativo, spesso cercando di trovare un equilibrio tra la vision dell’azienda, le esigenze dei dipendenti e le proprie responsabilità. In molti casi, i manager sono diventati il vero e proprio ago della bilancia nel determinare la volontà dei dipendenti di rimanere in azienda o di lasciarla.
Come ricorda Gallup, infatti, “i manager capaci sono in grado di ridurre il turnover dei dipendenti più efficacemente di qualsiasi altra mansione” all’interno di un’organizzazione, svolgendo un ruolo essenziale come ambasciatori della people strategy dell’azienda.
Tuttavia, nonostante i manager abbiano il potere di condizionare l’engagement del team fino al 70%, soltanto tre su 10 affermano di avere avuto la possibilità di crescere e imparare nell’ultimo anno, mentre la stessa percentuale (30%) si dichiara supportato nel proprio percorso di sviluppo. Come colmare questo gap?
In che modo le aziende possono dotare i propri manager degli strumenti necessari per gestire le loro nuove responsabilità?
Per affrontare al meglio la maggiore flessibilità e incertezza dell’attuale situazione, il reskilling dei manager dovrebbe partire dalle competenze trasversali. Ascoltare un collaboratore non è più un’attività relegata ai feedback meeting o alle valutazioni annuali.
Di fatto, con l’intrecciarsi delle linee di confine tra vita professionale e personale, la capacità di un manager di adottare una caring leadership è oggi diventata un fattore differenziante. Anche il ruolo del manager come coach si è ampliato, arrivando a includere un’ampia gamma di aspetti sui quali i dipendenti si aspettano di essere guidati: dalle capacità di gestione del tempo al saper stabilire dei limiti, dalla gestione dello stress all’autoconsapevolezza.
Quali sono dunque i benefici legati al reskilling dei manager? Una forza lavoro più coinvolta, determinata a restare e a non lasciare l’azienda. Un team manageriale che ritrova nuovo significato nello svolgimento del proprio ruolo e ha la possibilità di rendere la vita dei collaboratori più equilibrata e ricca di soddisfazione. E infine, un’attività con un Return on investment (ROI) notevole, specie se consideriamo i costi molto alti della sostituzione di un collaboratore che lascia l’azienda rispetto all’investimento sulla sua crescita.