Nel 2019 se ne contavano appena 570mila. Nel periodo più duro del lockdown sono arrivati a superare la soglia di 6 milioni, per poi ridursi nell’arco degli ultimi mesi a poco più di 4 milioni. Secondo le stime dell’Osservatorio sullo Smart working del Politecnico di Milano, nel periodo post pandemia in Italia ci saranno 4 milioni 380mila smart worker, l’8% in più di quanti se ne contano oggi. E la diffusione del modello di lavoro agile farà ancora la differenza in termini di sostenibilità economica, ambientale e sociale.

La stima è basata sui piani elaborati dalle aziende per i prossimi mesi. Le organizzazioni si stanno dividendo tra quante, pur volendo bilanciare presenza in ufficio e lavoro a distanza, stanno cercando di consolidare i modelli sperimentati durante la pandemia e quante sembrano invece voler procedere in senso opposto, cercando un ritorno alle precedenti modalità di lavoro.

Rispetto al picco del 2020, dunque, nei prossimi mesi ci saranno 2,5 milioni di smart worker in meno. “Stiamo diminuendo il benessere e frustrando le aspettative di milioni di lavoratori che hanno compreso che un modo diverso di lavorare è possibile e spesso straordinariamente appagante ed efficace. Stiamo rinunciando a creare un mondo del lavoro, una società e territori più attrattivi e inclusivi”, ha sottolineato Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart working. “Si sono create opposte tifoserie pro e contro lo Smart working, assimilandolo di fatto al lavoro ‘forzato’ da casa e non invece alla ricerca di equilibri più adatti al contesto”.

Il lavoro non è un luogo, ma un risultato

Dopo il grande esperimento di lavoro a distanza vissuto nei mesi del lockdown, le organizzazioni hanno dovuto adattarsi. Nelle grandi imprese è aumentato il numero di progetti strutturati: l’81% ne ha almeno uno e vede di buon occhio l’adozione di policy ad hoc per definirne i confini. Nove imprese su 10 puntano, così, a proseguire l’esperienza. Nelle Pmi è prevalso, invece, un approccio informale, favorito dalla minor complessità organizzativa. Il 44% delle Piccole e medie imprese si dichiara, però, disinteressata al fenomeno: una Pmi su tre abbandonerà lo Smart working, frenata dalla difficoltà di conciliare attività e remotizzazione e dall’assenza di processi digitalizzati.

Eppure, il lavoro non è un luogo, ma un risultato. Come dice Pierroberto Folgiero, CEO Maire Tecnoimenont, occorre separare il concetto di obiettivo dalla necessità di mostrare il badge. “La vera frontiera dello Smart working non sta tanto nel convincere il collega a cambiare il luogo in cui svolge la sua attività, ma nel cambiare il paradigma manageriale e il mondo in cui i capi sono abituati organizzare il lavoro dei collaboratori”.

Anche il mondo del welfare e del caring del dipendente va ripensato. Secondo Stefano Trombetta, Talent & Organization Lead di Accenture Strategy & Consulting, occorre tenere a mente che non esiste più soltanto un dipendente fisico, ma c’è anche un dipendente digitale. “Il nostro ‘io fisico’ ha alle spalle anni di performance, il ‘gemello digitale’ invece è ancora neonato e va accompagnato nel suo percorso di crescita e miglioramento”. Nella nuova dimensione del lavoro servono leader consapevoli e positivi, che si mostrino coerenti con i valori aziendali nella loro leadership quotidiana. Dentro ogni azienda convivono diversi profili di persone: tenerne conto significa saper leggere e rispondere a bisogni diversi.

Bene il work-life balance, a rischio la comunicazione

In questo senso, l’esperienza vissuta nella pandemia è stata utile per rivalutare i modelli organizzativi di luogo e di orario in modo più coerente con le esigenze dell’organizzazione e delle sue persone. Più della metà delle grandi imprese ha riscontrato una crescita dell’efficienza e dell’efficacia nel lavoro e nove aziende su 10 hanno visto progressi significativi nel work-life balance dei collaboratori.

A risentire dell’introduzione del lavoro da remoto, invece, sono stati soprattutto la comunicazione tra colleghi e i livelli di engagement. Abituati a vivere gli scambi in modo spontaneo e meno strutturato, i lavoratori hanno dovuto fare uno sforzo in più per condividere informazioni e conoscenza anche fuori dall’ufficio. Il contesto pandemico, poi, ha influito negativamente sul coinvolgimento, a prescindere dalla modalità di lavoro adottata.

Confrontando le percezioni di smart worker e lavoratori che hanno continuato a lavorare in sede, l’Osservatorio del Politecnico ha riscontrato un impatto negativo molto simile, con rispettivamente soltanto il 7% e il 6% di persone che si è sentito pienamente ingaggiato. Gli smart worker hanno sofferto di più di overworking (dedicando un’elevata quantità di tempo alle attività lavorative e trascurando i momenti di riposo) e del cosiddetto tecno-stress. Un lavoratore su quattro ha subito un impatto negativo a livello comportamentale o psicologico a causa del frequente ricorso alle tecnologie.

Lo Smart working è un supporto alla genitorialità

Nonostante le difficoltà, i benefici di lavorare almeno in parte da remoto restano evidenti. Il contesto ibrido ha facilitato l’apprendimento di nuove competenze digitali, sia in chi ha operato da casa sia in chi si è dovuto interfacciare dalla sede di lavoro con i colleghi a distanza. Il 42% degli smart worker ritiene di aver migliorato le proprie digital soft skill e lo stesso vale per il 25% degli altri lavoratori. Tra i benefici del lavoro ibrido, l’Osservatorio evidenzia proprio l’inclusione di persone con diversa propensione e abilità nell’utilizzo delle tecnologie digitali.

Secondo i dati raccolti, lo Smart working si rivela di supporto alla genitorialità e a quanti si prendono cura di persone anziane o non autosufficienti in più di otto casi su 10. Inoltre facilita l’inclusione di persone che vivono lontano dalla sede lavorativa, di neoassunti e persone con disabilità e contribuisce alla valorizzazione dei talenti. Senza dimenticare gli effetti sull’ambiente: applicare lo Smart working per una media di 2,5 giorni alla settimana si traduce in un risparmio annuo di 123 ore di commuting (il tragitto da casa all’ufficio), pari a 1,8 milioni di tonnellate di CO2.

Alla luce dell’esperienza degli ultimi mesi, un lavoratore su tre non vorrebbe tornare a lavorare in ufficio. La maggioranza comprende i benefici della presenza e preferirebbe passare al lavoro ibrido. “Questa eterogeneità è una sfida importante per le imprese”, sottolinea Corso. “Con lo spettro della Great resignation e il 40% dei lavoratori che vorrebbe cambiare lavoro nei prossimi sei mesi, non porsi il problema si rivela una strategia miope. E definire policy uguali per tutti potrebbe non essere una risposta sufficiente”.

La cultura delle pari opportunità e dell’inclusione guida la corporate governance di Accenture, tra le principali società della consulenza aziendale con una presenza globale sintetizzata dai numeri: 505mila dipendenti, 6mila clienti in oltre 120 Paesi, 200 sedi e uffici operativi in 51 Paesi, 185 partner, 7.400 brevetti e richieste di brevetto in tutto il mondo. Dal 2001 è quotata alla Borsa di New York.

Accenture aveva l’obiettivo di rafforzare la costruzione di una cultura inclusiva su cui lavora da tempo affinché a tutte le sue persone siano garantite pari opportunità di avanzamento e progressione.

La genitorialità rappresenta una straordinaria occasione di crescita, secondo la visione di Accenture, per sviluppare nuove energie, competenze e abilità indispensabili anche nella vita professionale e costituisce un valore aggiunto per l’individuo, il team e tutta l’organizzazione.

Affiancata da Lifeed e attraverso il progetto Your child your master per neo-genitori, l’azienda ha quindi deciso di supportare chi vive il doppio ruolo di professionista e di genitore.

“Le soluzioni offerte da Lifeed si sono dimostrate in linea con la nostra vision che investe per migliorare il benessere e di conseguenza la produttività delle nostre persone”, spiega Accenture Italia.

Le aziende sono sempre più attive nella promozione di iniziative di Diversity&Inclusion, che hanno benefici sia per le singole persone sia per il business delle imprese stesse. Ma, per una volta, ci si può soffermare sull’etimologia della parola “inclusione” e riflettere su di essa.

“Inclusione” rimanda alla chiusura dentro uno spazio predefinito. Oggi però, soprattutto a causa degli effetti della pandemia sulle nostre vite, è evidente l’ampiezza delle nostre dimensioni identitarie. Questa multidimensionalità ha abbattuto i confini spazio-temporali e i muri di uffici e case nel periodo di lavoro da remoto ed è ormai realtà: per questo motivo, è il momento di provare a sostituire la parola “inclusione” con “apertura”.

Attraverso la scoperta e il racconto agli altri di sé, e rompendo i tabù del passato, le persone diventano più consapevoli delle proprie dimensioni identitarie e tratti caratteriali. Questo le rende più bravi sul lavoro, oltre che ingaggiate e felici. E le aziende possono avere a disposizione mappe più ampie riguardo alle loro persone. Solo allargando lo sguardo a ciò che è diverso e complesso, infatti, le imprese possono beneficiare di questa “apertura” sia a livello individuale sia di performance collettiva.

Lo ha raccontato Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nel corso della tavola rotonda Organizzazioni per le persone o persone per le organizzazioni? nell’ambito del 50esimo Congresso Nazionale di Aidp, a cui hanno partecipato anche Michele Viale, Direttore Generale di Alstom Italia e Svizzera, Marco Piccolo CEO di Reynaldi, Delegato CSR Confindustria Piemonte ed Elena Caffarena Senior Partner di Praxi.

Una nuova relazione tra tempo di lavoro e di vita

Dal confronto è emerso inoltre come, oggi più che mai, ci sia una forte convergenza di interessi tra persone e aziende. Per questo, non bisognerebbe mettere in antitesi le architetture organizzative e le persone che ne fanno parte. Proprio facendo emergere le differenze delle persone (e cambiando il nostro comportamento in relazione al nostro interlocutore) è possibile ottenere migliori risultati.

D’altra parte, il modello taylorista non ha più senso nella nostra società. Il tempo di lavoro va valorizzato in relazione al tempo di vita e le aziende sono chiamate ad avere una vocazione di responsabilità verso il proprio territorio, supportando le persone e guardandole nella loro interezza, oltre ai ruoli lavorativi. In una parola: con umanità.

Il ritorno in ufficio e la modalità di lavoro ibrida dopo la fase più critica dell’emergenza sanitaria rappresentano nuove sfide per la Direzione HR delle aziende. Nel periodo della pandemia, le persone sono rimaste distanti molto tempo e in questa fase di incertezza hanno bisogno di una ‘re-inclusion’, come se si trattasse di un nuovo onboarding.

Più che di inclusione, si può parlare di innovazione, perché occorrono nuove mappe, come sottolineato da Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nell’evento Mix culturale e re-inclusion. Come reinterpretare la diversità in una fase di incertezza organizzato da HRC.

Nelle transizioni, come quella che stiamo vivendo, le persone si sentono più fragili ma anche più consapevoli e forti allo stesso tempo. In questa fase di incertezza, l’ascolto delle emozioni che emergono dalle autoriflessioni dei dipendenti ha un ruolo fondamentale per favorire il passaggio graduale alla cosiddetta ‘nuova normalità’ e per ricomporre il puzzle, sia a livello individuale sia collettivo. Dall’ascolto, quindi, può partire una rielaborazione di questa transizione e di noi stessi.

Una nuova era per le aziende

Se negli ultimi decenni abbiamo cercato di portare la vita in azienda con appositi servizi per le persone, con la pandemia è stata l’azienda a entrare nelle nostre case. Ora è necessario ricostruire l’immagine aziendale sulla base di uno scopo e di valori condivisi e sul supporto psicologico alle persone che ne hanno bisogno.

Non solo: se il confronto in presenza in azienda creava valore, ora la sfida è continuare a farlo in modalità ibrida puntando sulla comunicazione e sul digitale. Inoltre, bisogna considerare che molte persone sono state assunte nel periodo di lockdown e non hanno mai visto l’ufficio. Anche gli spazi vanno ripensati, perché la sede aziendale può essere un luogo di aggregazione e ci deve essere un motivo di andare in ufficio, cioè collaborare.

Tutte queste riflessioni sono emerse dal confronto con: Alessandro Agosti di Findomestic; Antimo Ricciardi di Almirall; Andrea Rubera di Tim; Maria Cristina Bombelli di Wise Growth; Ilaria Polvani di Baker Hughes; Doriana De Benedictis di EY; Federica Confalonieri di Heineken; Paolo Dolezzal di Watts Water Technologies; Anna Torri di Starbucks; Lucia Melcore di P&G.