Oggi l’Italia è al 104esimo posto su 146 Paesi nell’indicatore di partecipazione economica e pari opportunità delle donne al mondo del lavoro (Global Gender Gap Report 2023, The World Economic Forum). Il gender gap ancora molto presente nello scenario lavorativo italiano è strettamente legato al calo delle nascite e alla disoccupazione femminile.

Nel 2022 in Italia è stato raggiunto il nuovo record minimo di nascite che conferma la contrazione della natalità in corso ormai da decenni. Inoltre, come emerso dal rapporto Le Equilibriste di Save the Children, oggi nel nostro Paese il tasso di occupazione per le mamme si ferma al 63% (e con due figli minori scende fino al 56%), contro il 90% di quello dei papà.

Tra gli elementi fondamentali su entrambi i fronti, gioca un ruolo decisivo la disparità di genere anche nel tempo dedicato alla cura: secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, le mamme lavoratrici dedicano in media cinque ore e cinque minuti al lavoro di cura dei figli, mentre i papà lavoratori meno della metà. Se invece prendiamo un campione che include oltre alle lavoratrici anche le donne che non lavorano, la media di ore dedicate alla cura sale drasticamente arrivando fino a 16 ore (sette per gli uomini).

Più responsabilità di cura, meno carriera

Questo sbilanciamento dei carichi di cura sulle spalle delle donne, in particolare le mamme, comporta che queste ultime siano più penalizzate dal punto di vista lavorativo in termini di occupazione e di carriera. La conciliazione famiglia-lavoro è la principale causa di dimissioni delle donne: rappresenta infatti il 65,5% delle motivazioni delle dimissioni secondo il rapporto di Save The Children.

In un contesto lavorativo che vede ancora la maternità come un ostacolo, cosa possono fare le aziende per invertire la rotta e favorire la parità di genere? Quali sono gli abilitatori per una genitorialità condivisa?

Di tutto questo si è parlato nel Caring Company digital talk “La cura condivisa: la parità di genere attraverso la genitorialità” promosso da Lifeed, con le testimonianze di esperti del mondo HR, la condivisione dei dati dell’Osservatorio vita-lavoro presentati da Benedetta Di Cesare, Research & Innovation Analyst di Lifeed e la moderazione di Elisa Vimercati, Trainer & Researcher di Lifeed.

Come emerge dall’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, le aziende possono favorire una nuova cultura della genitorialità attraverso alcuni abilitatori: una cultura aziendale “caring” attenta al work-life balance dei dipendenti; la condivisione, il dialogo e il supporto tra colleghi e manager; iniziative ad hoc dedicate ai genitori. Ma contano anche l’autodeterminazione e la spinta individuale. Attraverso queste azioni, le imprese possono ottenere risultati in termini di sostenibilità umana utili ai fini degli obiettivi SDG e ESG.

I benefici riguardano anche i dipendenti genitori che, sentendosi visti e valorizzati, stanno meglio e si sentono più vicini all’azienda e più capaci. Tra i partecipanti delle aziende della community Caring Company che hanno partecipato ai percorsi Lifeed, il 66% dichiara di sentirsi meglio, il 71% ha migliorato le proprie competenze e il 77% sente maggiore vicinanza all’azienda.

La cura sviluppa competenze utili sul lavoro

Questa visione consente ai dipendenti genitori di trasferire sul lavoro le competenze allenate nelle esperienze di vita privata. Si tratta di competenze organizzative, relazionali, di gestione del cambiamento, di innovazione e di leadership sempre più richieste nel mondo del lavoro.

Ciò vale, in particolar modo, per i genitori-caregiver di bambini neurodivergenti (il cui cervello elabora, apprende e si comporta in modo diverso da quello considerato tipico). Da una ricerca congiunta dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed e del Centro Tice emerge che avere doppie responsabilità di cura permette di sviluppare anche doppie competenze.

Come spiega Francesca Cavallini, Fondatrice e Presidente di Centro Tice, essere genitori e caregiver di bambini neurodivergenti comporta un lavoro aggiuntivo ed è molto spesso una dimensione invisibile. Ciò rende il genitore doppiamente affaticato. Nella nostra cultura ciò impatta soprattutto sulle madri, sulla loro salute mentale e sulla loro carriera. Ma è proprio dalle difficoltà che emergono capacità che possono essere trasferite in altri contesti, come il lavoro, se viste e valorizzate in modo corretto.

Partire dal cambiamento culturale

Secondo Lucia Pellino, Diversity & Inclusion Director di Lavazza Group, il lavoro da fare è soprattutto culturale: la cultura patriarcale vede la donna come la figura più adatta ai ruoli di cura. Ciò rappresenta una barriera nel mondo del lavoro e nella società. Le aziende possono fare la loro parte in termini di sensibilizzazione e comunicazione per rompere i pregiudizi esistenti e realizzare il cambiamento culturale necessario. 

Pellino sottolinea come la genitorialità condivisa sia un fattore determinante per la parità di genere e non debba essere alternativa alla carriera. Creare dei role model interni all’azienda di lavoratori e leader che sono anche padri presenti in famiglia può aiutare a superare gli stereotipi: essere bravi padri, infatti, può migliorare anche le competenze di leadership sul lavoro. Alle iniziative più ‘hard’ e concrete, dunque, le aziende devono affiancare anche iniziative culturali per creare un meccanismo virale positivo e sensibilizzare tutti sul bisogno di favorire la parità di genere.

Dare valore alla sinergia vita-lavoro

Purtroppo gli stereotipi di genere sono ancora molto radicati nella nostra cultura e le donne stesse sono costrette a limitare le proprie prospettive di carriera. Per Chiara Brina, Responsabile Gestione Executive e Welfare di Gruppo BCC Iccrea, essere una Caring Company significa anche agire per un cambio di paradigma attraverso una leadership di cura, con l’obiettivo di aiutare le donne a colmare il divario che si crea tra le esperienze di vita e il lavoro.

Per essere sostenibile nel tempo, l’impatto delle iniziative aziendali a favore della parità di genere deve dare vantaggi sia alle persone sia all’organizzazione (per esempio in termini di benessere ed engagement). Connettere le esperienze di vita con l’esperienza professionale fa sì che le due dimensioni si alimentino a vicenda in un’ottica di sinergia positiva.

Da parte delle aziende serve quindi una forte attenzione alla diversità (cioè le caratteristiche uniche di ognuno) e all’inclusione (la scelta dell’azienda di accogliere quelle diversità). Così sarà possibile valorizzare tutti i talenti delle persone, creando in ciascuno la consapevolezza delle proprie risorse e favorendo la parità di genere nel lungo periodo.

Grazie anche alla spinta data dalla certificazione per la parità di genere, oggi le iniziative di Diversity & Inclusion giocano un ruolo sempre più fondamentale nelle strategie di sviluppo delle aziende. In particolare, accrescere le soft skill delle persone aiuta a raggiungere gli obiettivi di inclusione e parità di genere.

Chiara Bacilieri, Head of Research & Innovation di Lifeed, ne ha parlato nella RoundTable organizzata da Laborability insieme con Michele Riccardi, Direttore Risorse Umane di Edenred Italia ed Elisa Pavanello, socia e avvocata di WI LEGAL.


Cristina Gabetti ha intervistato la nostra CEO Riccarda Zezza per una speciale puntata di Occhio al futuro, dedicata agli SDG, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che puntano alla salvaguardia del pianeta e al benessere dei suoi abitanti. Secondo Cristina Gabetti, le nostre soluzioni rispondono a ben 8 obiettivi. Guarda qui la puntata di Occhio al futuro andata in onda su Striscia la Notizia il 21 marzo 2020.

https://www.video.mediaset.it/player/playerIFrame.shtml?id=1099569&autoplay=false

Cristina Gabetti: Tutti noi ci prendiamo cura di giovani e/o anziani, e sappiamo quante competenze servono per farlo bene. Oggi incontriamo una donna che, partendo dalla sua esperienza di vita, ha creato un metodo per trasferire le competenze soft in ambito professionale. Riccarda com’è nata la tua idea e come funziona?

Riccarda Zezza: È nata dal fatto che quando sono diventata mamma ed ero manager in una grande azienda ho scoperto che essere madre era una problema nel mondo del lavoro. Mentre, invece, la stessa azienda mi mandava a fare formazione in una serie di competenze soft che proprio l’esperienza della maternità stava allenando benissimo. Pensa ad esempio alla gestione del tempo, la gestione delle crisi, l’empatia. Ho visto un grande paradosso, un grande spreco: perché le aziende spendono tantissimi soldi in formazione per una serie di competenze che la vita allena in modo naturale. Questo è successo 7-8 anni fa, da li è partita la ricerca che ho fatto con Andrea Vitullo che è un executive coach, ed effettivamente abbiamo scoperto che quando si diventa genitori si migliorano una serie di competenze che servono al mondo del lavoro. Sette anni dopo, oggi, questo metodo di apprendimento lo vendiamo alle aziende attraverso una piattaforma digitale, quindi le nostre aziende clienti aprono il percorso digitale neogenitori, neomamme o neopapà, ma anche da qualche tempo a caregiver dei propri genitori… perché ogni esperienza di cura migliora queste competenze e le persone possono scoprire come prendersi cura di un bambino o un anziano migliorino proprio le competenze che servono nel mondo del lavoro.

Cristina Gabetti: Questa iniziativa adempie a ben 8 SDG. Adesso qual’è il tuo sogno?

Riccarda Zezza: Oggi siamo in 23 paesi e gli utenti della piattaforma ci dicono che già hanno queste energie, queste competenze; hanno solo bisogno dello spazio per portarle nel mondo e nella società. Il mio sogno è quello di arrivare il più velocemente possibile a dimostrare all’economia e alla società che prendersi cura è un valore, è un bisogno che la specie umana ha tutte quelle energie e quelle risorse che oggi stiamo cercando nei posti sbagliati.

Cristina Gabetti: Grazie Riccarda. Saper osservare e riflettere, valutare obiettivi e prendere decisioni, migliorarsi, adattarsi, e giocare, rende tutto più facile. Occhio al futuro!

Cristina Gabetti ha intervistato la nostra CEO Riccarda Zezza per una speciale puntata di Occhio al futuro, dedicata agli SDG, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che puntano alla salvaguardia del pianeta e al benessere dei suoi abitanti. Secondo Cristina Gabetti, le nostre soluzioni rispondono a ben 8 obiettivi. Guarda qui la puntata di Occhio al futuro andata in onda su Striscia la Notizia il 21 marzo 2020.

 

 

 

Cristina Gabetti: Tutti noi ci prendiamo cura di giovani e/o anziani, e sappiamo quante competenze servono per farlo bene. Oggi incontriamo una donna che, partendo dalla sua esperienza di vita, ha creato un metodo per trasferire le competenze soft in ambito professionale. Riccarda com’è nata la tua idea e come funziona?

Riccarda Zezza: È nata dal fatto che quando sono diventata mamma ed ero manager in una grande azienda ho scoperto che essere madre era una problema nel mondo del lavoro. Mentre, invece, la stessa azienda mi mandava a fare formazione in una serie di competenze soft che proprio l’esperienza della maternità stava allenando benissimo. Pensa ad esempio alla gestione del tempo, la gestione delle crisi, l’empatia. Ho visto un grande paradosso, un grande spreco: perché le aziende spendono tantissimi soldi in formazione per una serie di competenze che la vita allena in modo naturale. Questo è successo 7-8 anni fa, da li è partita la ricerca che ho fatto con Andrea Vitullo che è un executive coach, ed effettivamente abbiamo scoperto che quando si diventa genitori si migliorano una serie di competenze che servono al mondo del lavoro. Sette anni dopo, oggi, questo metodo di apprendimento lo vendiamo alle aziende attraverso una piattaforma digitale, quindi le nostre aziende clienti aprono il percorso digitale neogenitori, neomamme o neopapà, ma anche da qualche tempo a caregiver dei propri genitori… perché ogni esperienza di cura migliora queste competenze e le persone possono scoprire come prendersi cura di un bambino o un anziano migliorino proprio le competenze che servono nel mondo del lavoro.

Cristina Gabetti: Questa iniziativa adempie a ben 8 SDG. Adesso qual’è il tuo sogno?

Riccarda Zezza: Oggi siamo in 23 paesi e gli utenti della piattaforma ci dicono che già hanno queste energie, queste competenze; hanno solo bisogno dello spazio per portarle nel mondo e nella società. Il mio sogno è quello di arrivare il più velocemente possibile a dimostrare all’economia e alla società che prendersi cura è un valore, è un bisogno che la specie umana ha tutte quelle energie e quelle risorse che oggi stiamo cercando nei posti sbagliati.

Cristina Gabetti: Grazie Riccarda. Saper osservare e riflettere, valutare obiettivi e prendere decisioni, migliorarsi, adattarsi, e giocare, rende tutto più facile. Occhio al futuro!

Intervistata dal settimanale Gente del 30 novembre 2019, Maria Bianca Farina, da due anni Presidente di Poste Italiane, racconta che in un’azienda come Poste dove “le donne sono oltre il 50% del nostro personale”, la maternità è un valore aggiunto e “alle giovani dico: i figli non sono di inciampo alla carriera”.

“Non mi sono mai sentita discriminata” – spiega. “Ho fatto battaglie che avrei fatto anche se fossi stata un uomo, ma ciò non toglie che ci siano donne che quelle discriminazioni le hanno subite. Credo che il mondo del lavoro sia ancora a misura di uomini, perché è sempre stato così, e loro spesso non trovano in noi quelle caratteristiche che si aspettano, specchiandosi in loro stessi. È per questo che spesso le donne sono state costrette a entrare dalle porte secondarie e che malgrado leggi come quella sulle quote rosa ancora siano poche, soprattutto ai piani alti”.

In Poste Italiane molto è cambiato da quel lontano 1863, quando servì addirittura un decreto regio per assumere la prima donna. Mentre oggi “è una delle imprese più femminili che ci siano”.

L’intervista a Maria Bianca Farina, Presidente di Poste Italiane, su Gente in edicola il 30/11/2019

“Naturalmente occorre un impegno supplementare per favorire e abilitare il più ampio accesso femminile ai ruoli di maggior rilievo e manageriali”. Una sfida nella sfida, continua l’articolo di Gente, in una Paese come l’Italia dove tante donne sono costrette a rinunciare al lavoro, proprio perché non riescono a conciliarlo con la famiglia.

Nel nostro Paese ancora solo il 56,2% delle donne partecipa al mercato del lavoro e il tasso di occupazione non supera il 50%. Si tratta dei valori tra i più bassi, insieme a quelli della Grecia, tra i paesi dell’Unione europea. Ne abbiamo già parlato qui.

Maria Bianca Farina ha però a cuore questa situazione e sa che, dalla sua posizione di rilievo, deve impegnarsi affinché altre donne possano arrivare ai vertici delle aziende: “Incoraggio le donne con cui lavoro sottolineando sempre che possono farcela anche loro”.

E poi parla anche di noi:

In Poste abbiamo adottato MAAM, che grazie alla tecnologia assicura la continuità della prossimità con l’azienda anche da casa e trasforma la maternità in un valore aggiunto sul lavoro. Perché le competenze che la maternità produce e acuisce – penso all’attenzione al futuro, alla pazienza, all’ascolto – sono preziose anche quando si torna alla scrivania.

Poste Italiane è la prima azienda che ha adottato MAAM, il Master per neo-genitori, nel 2015.

Nuovi dati ci raccontano una storia che già conosciamo bene: che le donne faticano a entrare e/o a restare nel mondo del lavoro e che quando diventano mamme la situazione peggiora ancora di più. Se ne è parlato (giusto per non dimenticarlo!) questa settimana in Senato durante la relazione presentata dal Presidente dell’ISTAT Gian Carlo Blangiardo sull’andamento dell’economia italiana.

Ecco cosa dice l’ISTAT.

In dieci anni la quota di donne tra gli occupati è passata dal 40,1 al 42,1%. Le donne occupate sono aumentate di circa mezzo milione (+5,4%), valore che sintetizza una dinamica stagnante negli anni della crisi (6 mila; +0,1% tra il 2008 e il 2013) e un deciso aumento tra il 2013 e il 2018 (492 mila; +5,3%). Nonostante ciò, nel nostro Paese solo il 56,2% delle donne partecipa al mercato del lavoro e il tasso di occupazione non supera il 50%. Si tratta dei valori tra i più bassi, insieme a quelli della Grecia, tra i paesi dell’Unione europea dove il tasso di attività è pari al 68,3% e quello di occupazione al 63,4%.

Il ruolo ricoperto in famiglia, in assenza di un adeguato sistema di sostegno, appare come uno dei fattori discriminanti (insieme alla regione di residenza e al titolo di studio). Il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 49 senza figli e quello delle donne nella stessa fascia di età con figli non supera il 74%, valore tra l’altro in discesa negli ultimi 3 anni dopo il picco di quasi il 78% raggiunto nel 2015. Inoltre, tra il 2013 e il 2018 per le donne con figli tra 0 e 2 anni si è stimato un sostanziale arretramento nel tasso di occupazione (-5,1 punti per le donne in un nucleo monogenitore e -1,3 per le madri in coppia).

Per commentare questi dati e portare un esempio positivo di donne che hanno saputo rimettersi in gioco, il TG1 ha dedicato un servizio alla nostra CEO Riccarda Zezza che ha raccontato come è nata l’idea di MAAM Maternity as a Master e cosa continuiamo a fare per i lavoratori “caregiver” (donne, ma anche uomini che si trovano ad affrontare carichi pesanti di cura familiare), affinché anche queste categorie di professionisti possano continuare a crescere e realizzarsi sul lavoro.

Per offrire un contributo concreto al tema dell’occupazione femminile, nei prossimi mesi lanceremo alcuni percorsi digitali destinati a madri disoccupate europee, nell’ambito del progetto MOM Maternity Opportunities and Mainstreaming, insieme ai partner Piano C (Milano), Ayuntamiento de Alzira (Spagna), Euromasc – European Masters of Skilled Crafts (Norvegia), Fondazione Politecnico di Milano; Inova (Regno Unito), International Platform for Citizen Participation (Bulgaria), University of Thessaly – Career & Lifelong Training Centre (Grecia). Obiettivo di questa iniziativa è di raggiungere almeno 1.200 donne entro il 2020.

“Come posso avere più donne nel management team? Sono trentacinque, tutti uomini”.

Come ho risposto alla domanda di questo imprenditore giapponese durante il mio tour nel paese del Sol Levante per parlare di MAAM. Una trasferta che mi ha visto ospite di prestigiose università e grandi aziende semplicemente entusiaste della portata rivoluzionaria del nostro programma. Nonostante la distanza culturale che ci separa, ho scoperto, invece, che le donne giapponesi sono molto simili a noi, delle alleate naturali verso un cambiamento sempre più necessario. Una natalità ai minimi storici, una percentuale molto bassa di rientri femminili al lavoro e una cultura antica e tradizionalista. Viene definita dal governo giapponese un’emergenza nazionale, ma potrebbe essere un buon momento per cambiare finalmente le regole del gioco e cambiare prospettive sul lavoro.
Ho aperto una finestra su un mondo nuovo, ma che parla lo stesso nostro linguaggio delle emozioni perché la vita è il vero denominatore comune di tutti noi.

Nella stanza ci sono quindici donne (e un uomo): tutte dirigenti di grandi aziende. Il tema del workshop sono gli stereotipi, e io dico: “Alzi la mano chi di voi ha potere”. Si guardano, sorridono imbarazzate, neanche una mano si alza. E’ la prima volta che accade, in anni in cui pongo questa domanda ad aule sempre diverse. Sono in Giappone, e per la prima volta capisco che, nonostante le similarità numeriche in termini di occupazione e presenza – o dovrei dire “assenza” – nelle posizioni decisionali di economia e politica, le donne giapponesi stanno anche peggio delle Italiane.

E allora provo a vedere se funziona anche qui, a Tokyo, il meccanismo di “empowerment” che ho sperimentato tante volte con altre donne in Italia e in Europa, e dico: “Alzi la mano chi di voi ha responsabilità”. La alzano tutte, e di nuovo sorridono. Questa volta però è un sorriso liberatorio: hanno già capito. Non serve che lo dica, ma lo dico lo stesso: “Non potete avere aree di responsabilità se in quelle stesse aree non avete potere”.

Eppure è tipico delle donne: non collegare potere e responsabilità, e pensare di avere la seconda ma non il primo. Mentre è abbastanza tipico del modello di potere prevalente l’esatto contrario: molte persone di potere non collegano ad esso la responsabilità.

Infine domando di nuovo di alzare la mano se pensano di avere potere, e questa volta la alzano tutte. Quindi funziona anche in Giappone, potrei quasi dire che è un principio universale: le donne accettano più facilmente un’idea di potere se è collegata chiaramente al concetto di responsabilità. Delle donne giapponesi sto scoprendo molto in questo viaggio, iniziato appena tre giorni fa, ma che mi sta facendo incontrare aziende, studenti, media. Intanto ora so che sono molto simili a noi: delle alleate naturali verso un cambiamento sempre più necessario. In Giappone il 60% delle donne non torna a lavorare dopo la maternità e la natalità è ai minimi storici. E’ considerata un’emergenza nazionale: la definizione è roboante, le misure messe in campo dal Governo quasi invisibili. Le aziende, come spesso accade, reagiscono più velocemente: i meccanismi del mercato non perdonano chi resta indietro, ed è ormai abbastanza chiaro che non avere donne nel mix decisionale equivale a perdere competitività. Anche solo perché parliamo dell’unico caso di minoranza maggioritaria esistente al mondo.

Ho capito anche che le Giapponesi sono forse più arrabbiate di noi. Perché in definitiva rinchiuse in una cultura ancora più antica, ancora più chiaramente tradizionalista e superata, che rende difficile anche godersi la maternità, oltre a lavorare. Alle mie quindici “alunne” alla fine del workshop brillavano gli occhi. Forse è più facile accettare che le formule per attivare il cambiamento arrivino da molto lontano, o forse è proprio necessario che sia così.

Poco dopo il workshop parlavo infatti con un imprenditore giapponese di seconda generazione, venuto apposta per incontrarmi e chiedermi

“Come posso avere più donne nel management team? Sono trentacinque, tutti uomini”.

A lui ho risposto come non ho mai il coraggio di fare “in casa”: “se veramente vuoi che il tavolo sia occupato anche da donne, devi cambiare le abitudini di tutti. Le tue per primo. Se non vuoi donne che siano uguali agli uomini, dovrai prepararti a richieste diverse, incentivi diversi per spingerle a lavorare con te. Una bella automobile, per esempio, potrebbe non funzionare. Le donne preferiscono avere il benefit del tempo, della flessibilità. Le donne sono diverse (anche i giovani lo sono!) e daranno una scossa a tutto: sei sicuro che sia quello che vuoi?”

Ascoltava con attenzione: suo padre è il capo dell’azienda, si ritirerà tra due-tre anni. Lui vuole cambiare molto, e le donne possono essere le sue migliori alleate. La distanza tra l’Italia e il Giappone (otto ore di fuso orario, dodici di aereo) ha forse consentito a lui di fare domande più audaci e a me di dare risposte più coraggiose di quanto ognuno di noi avrebbe accettato dai propri connazionali. E’ così anche con le donne che incontro: meno diffidenza di quanta spesso ne abbiamo tra noi Italiane, più immediata la voglia di alleanze. Forse proprio perché così diverse in apparenza a e così simili nella sostanza.

Riccarda Zezza, articolo scritto per Alley Oop