La pandemia ha cambiato radicalmente il mondo del lavoro. Uno degli aspetti principali di questa trasformazione riguarda gli spazi fisici, che sono stati affiancati da luoghi digitali, ma dai quali non si può prescindere nel considerare “il ritorno al futuro (del lavoro)”. Questo è il titolo dell’indagine svolta dall’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed su 15.000 riflessioni di 5.000 partecipanti ai percorsi Life based, che hanno fornito risposte relative allo spazio fisico che li ha accolti durante la pandemia e a quello che immaginano come spazio ideale nel prossimo futuro.

L’analisi dei dati ha rivelato aspetti molto interessanti sulle emozioni legate alle restrizioni dovute al covid, riferite in particolare all’home working, ma più in generale agli spazi di vita e lavoro, che sono andati contaminandosi. Questi “Small data”, per usare un termine preso in prestito dal Marketing, contribuiscono a rendere visibili dimensioni identitarie del lavoratore che, solitamente, restano sommerse: eppure, esse sono fondamentali per passare da un People development e una People analytics tradizionali (che riguardano solo il ruolo professionale del lavoratore) a una dimensione lavorativa che tenga in considerazione la persona nella sua interezza.

Dicotomia ‘nido-prigione’

La prima domanda rivolta ai partecipanti aveva lo scopo di indagare la dimensione più strettamente emozionale, legata agli spazi fisici di vita e lavoro. È stato chiesto come si sono sentiti nello spazio in cui si sono trovati a vivere nell’ultimo anno e la maggior parte (il 62%) ha espresso sentimenti positivi, di soddisfazione: per il 45% in termini di serenità, di benessere e senso di libertà, mentre per  il 15% sono state prevalenti sicurezza e protezione (in particolare da parte delle donne).

Allo stesso tempo, circa un terzo dei partecipanti ha espresso sentimenti di insoddisfazione, disagio, stanchezza o scarsa energia (29%), un dato che è più elevato negli over 50 (+18% rispetto agli under  50). Influiscono su questo senso di oppressione la percezione di solitudine, di isolamento, di incertezza, di disorientamento e persino di ansia, per il 10%.

C’è dunque una forte dicotomia ‘nido-prigione’ tra coloro che hanno affrontato le restrizioni fisiche cogliendole come opportunità e con senso di protezione e coloro che, invece, hanno vissuto la medesima circostanza con sentimenti contrapposti. Probabilmente, in molti casi, le stesse persone hanno provato a fasi alterne queste emozioni contrastanti, ma, d’altra parte, ci siamo trovati a vivere circostanze nuove ed inaspettate per tutti, che hanno costituito una vera transizione di vita.

Lo spazio ideale? Immerso nel verde

Secondariamente, è stato chiesto ai partecipanti come immaginano il loro spazio futuro, senza fare distinzione, nel quesito, tra quello personale e quello professionale. Indagando i bisogni e le aspirazioni delle persone che, quasi sempre, faticano ad emergere nella People analitycs tradizionale, è emerso che il 34% si vede all’aperto o a contatto con la natura. Difficilmente, prima della pandemia, sarebbe stata ottenuta la stessa risposta.

Il 17% immagina uno spazio creativo e fantasioso, multisensoriale. Per circa un sesto delle persone è importante che sia ampio, dinamico e flessibile, anche grazie alla tecnologia, stimolante e ricco di occasioni di relazioni. Soprattutto negli uomini è evidente questo bisogno di raccontarsi, di condividere, mentre le donne appaiono più interessate all’ampiezza e alla creatività dello spazio. Non c’è distinzione di età o di genere, invece, tra coloro che aspirano a un maggior contatto con l’ambiente naturale e ciò appare molto compatibile con il tipo di sensazioni che tutti abbiamo sviluppato nell’ultimo anno.

Il rispetto è il primo valore

Infine, si è deciso di esplorare la sfera valoriale, chiedendo ai partecipanti di individuare le regole che dovrebbe avere il loro spazio ideale. Per il 31% è fondamentale il rispetto (la regola maggiormente espressa), che implica la gentilezza, l’inclusione e la collaborazione; per il 29% la libertà di espressione e movimento; per il 23% il rispetto dell’ambiente, sensibilità che va sviluppandosi in modo crescente. A seguire, per il 16% servono sicurezza e ordine, per il 14% è necessario che siano previsti e rispettati gli spazi personali.

Sono prevalentemente le donne a desiderare un luogo fisico che permetta loro di esprimere liberamente ciò che hanno dentro, che riproduca anche all’esterno il loro modo di essere, che rispecchi le proprie caratteristiche personali, magari con una componente creativa (come successo anche nella questione legata alle emozioni).

Come dice il pedagogista John Dewey, “non impariamo dall’esperienza, ma dal riflettere sull’esperienza”: questa analisi è quindi molto utile per delineare le caratteristiche che dovranno avere gli spazi di lavoro del futuro, le nuove modalità di lavoro, le regole e i valori che in essi si adotteranno.

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Ogni viaggiatore sa che la diversità è una ricchezza. Lo sanno anche i genitori, che nel loro ‘viaggio’ quotidiano colgono i diversi tratti caratteriali dei figli. Lo sa chi ha fratelli o sorelle, chi si prende cura di genitori anziani, chi vive in società multietniche o ha rapporti con generazioni differenti.
Ma nelle aziende come è possibile trasformare la Diversity&Inclusion in un’occasione di crescita?

Lifeed lo ha chiesto ai partecipanti del suo workshop Conosci la D&I attitude della tua azienda? Scoprilo con gli HR Analytics organizzato nell’ambito del 50esimo Congresso Nazionale di Aidp, l’Associazione Italiana per la Direzione del Personale.

La logica delle quote non basta

La Diversity è un’opportunità che diventa una ricchezza solo se gestita, altrimenti rischia di sfociare in conflitto o di non avere gli effetti sperati. In un team, è un valore aggiunto solo quando c’è consapevolezza di essa: in questo senso, le aziende non possono più limitarsi ad agire con la logica delle quote sui temi di gender equality e work-life balance. Non è sufficiente inserire elementi differenziali al proprio interno (per esempio assumere più donne o persone di etnie diverse) senza far seguire un’opportuna elaborazione, altrimenti la D&I rischia di diventare una ‘moda’. Come osserva l’Harvard Business Review, quando qualcosa diventa di moda, cessiamo di farci domande, arriviamo ad approcci semplicistici e smettiamo di cercare. Ma la D&I è molto di più.

Per il 60% dei manager intervistati nel workshop di Lifeed, la strategia di Diversity&Inclusion è utile per favorire l’attrazione di talenti, ricevere idee diverse e far sentire accolti i collaboratori, ma anche per la brand reputation, per la responsabilità sociale e infine per stimolare l’innovazione. Tuttavia, spesso i manager sono portati ad assumere collaboratori in cui ravvisano similitudini. L’omologazione è, nell’immediato, la via più semplice. Ma solo investire e lavorare sulle differenze porta a cambiamenti culturali significativi e “ricchezza”.

Le competenze vanno allenate

Per conseguire questo importante risultato serve allenamento. Tutte le competenze, anche quelle trasversali, vanno allenate: talvolta, quando pensiamo di non possederne alcune, le stiamo semplicemente cercando nel ruolo sbagliato.

Pensiamo alle numerose transizioni che attraversiamo nell’arco della nostra vita (come la pandemia) che ci rendono diversi persino da noi stessi, anche nel giro di poche settimane. Secondo le analisi di Lifeed, ognuno di noi affronta almeno una transizione ogni 14 mesi. Ciascuna è un’esplosione di energia e un arricchimento di competenze soft che, per essere messe a frutto, vanno guidate. Ciò che ci caratterizza come partner, figli, genitori può essere portato con successo in altri ruoli di vita, come quelli professionali, perché sono caratteristiche che già abbiamo, che già manifestiamo.

Queste caratteristiche vanno però riconosciute consapevolmente e adattate alla propria professionalità: si chiama transilienza, una parola che ci ricorda che non siamo blocchi monolitici, persone che, tornando a casa dal lavoro, dismettono i panni dell’impiegato, del manager, dell’insegnante e diventano madri, padri, figli, fratelli, amici. Siamo le stesse persone, nella propria complessità e interezza: dobbiamo solo imparare a trasferire le caratteristiche di un ruolo a un altro, dai contesti personali a quelli professionali e viceversa.

La diversità è una ricchezza solo per le organizzazioni che imparano da essa. La parola chiave è, dunque, ‘apprendimento’:  occorre lavorare sulle diversità, senza negarle, omologarle ed appiattirle, per renderle ricchezza. La diversità va vista, riconosciuta, sottolineata e ripensata: non impariamo dall’esperienza in sé, ma dalla riflessione sull’esperienza.

Ripensare la D&I con i People Analytics

Storicamente, nelle aziende la dimensione HR è quella approcciata in modo meno analitico. Ma partire da dati reali è importante quando si vuole analizzare la situazione aziendale, per apportare cambiamenti migliorativi. L’aspetto più delicato è fare le domande giuste, perché la raccolta e l’analisi dei dati non diventino limitative e controproducenti. La People Analytics di Lifeed, a partire dalle domande poste, si rivolge alle persone nella propria interezza, non solo come dipendenti. Promuove l’autonarrazione, che sostituisce stringati questionari strutturati con contenuti top-down, e analizza i dati in modo continuativo, non in momenti predefiniti della vita aziendale.

Accanto ai cosiddetti “Big data”, quelli oggettivi solitamente preferiti dalle aziende, la People Analytics di Lifeed indaga anche i dati soggettivi, detti “Small data”. Immaginiamo un iceberg, in cui i Big data sono la punta, quello che emerge. Ma, sotto il pelo dell’acqua, c’è tutto il mondo personale del professionista, tutte le competenze soft, le aspirazioni, i talenti, le dimensioni identitarie, i valori, le emozioni. Produttività, engagement, benessere aziendale, persino i comportamenti adottati sul lavoro non possono prescindere da questi aspetti. Solo prendendo consapevolezza di tutto questo è possibile valorizzare la Diversity come ricchezza, che conduce al benessere delle persone e al successo delle loro aziende.

Spesso nelle aziende si sente parlare di “persone al centro”: un’espressione che generalmente mette d’accordo tutti, ma affidarsi a slogan come questo rischia di far smettere di porsi domande più profonde sulle persone. Infatti, i dipendenti non sono solo professionisti, ma portano al lavoro anche la loro vita privata e le transizioni che stanno vivendo.

In questo senso, il passaggio richiesto alle aziende è quello dall’Employee experience alla Life experience, nell’ambito di una caring leadership che tiene conto delle diverse dimensioni identitarie delle persone. Queste dimensioni contemplano, per esempio, i ruoli di cura (essere genitori, oppure figli di persone anziane o disabili) e altre esperienze di vita (cambiare casa, lavoro) che fanno emergere competenze trasferibili anche sul lavoro.

Combinazione tra Big data e Small data

Conoscere i dipendenti come persone, non solo come professionisti, significa chiamare in campo l’attività di People Analytics che deve estendersi a tutte le dimensioni della persona per sviluppare piani di crescita personalizzati e più efficaci.

“Le informazioni che siamo soliti misurare come il livello di benessere, engagement, produttività, ci dicono ‘cosa’ vediamo delle persone al lavoro, ma sono solo ‘la punta dell’iceberg’ – con una metafora, li possiamo assimilare ai Big Data di cui si parla nel Marketing. Il ‘perché’, le ragioni profonde di ciò che siamo abituati a osservare (e valutare) devono essere ricercate in quelle caratteristiche soggettive ed emozionali che, nella stessa metafora, possiamo paragonare agli Small data di cui parla Martin Lindstrom“, spiega Chiara Bacilieri, Head of Data di Lifeed.

L’autonarrazione fa emergere emozioni e competenze

“Dalla combinazione di Big e Small data nascono i Live data, che permettono di progettare piani di azione personalizzati per far emergere appieno il potenziale di ogni individuo”, spiega Martina Borsato, Data Strategist di Lifeed.

Invece di porre agli utenti domande a risposta chiusa, il Life Based Learning proposto da Lifeed stimola le autonarrazioni delle persone, dalle quali emergono emozioni, atteggiamenti e competenze allenate e trasferibili dalla vita al lavoro.

In questo modo, le persone diventano attive nella creazione di contenuti tramite riflessioni su piattaforma digitale e le aziende hanno la possibilità di conoscerle meglio e valorizzarle in tutti i loro ruoli di vita, privata e professionale.

Su questo tema abbiamo tenuto un webinar dal titolo People Analytics: la formazione diventa ascolto, disponibile on demand.