La proposta di legge presentata alla Camera per un congedo di paternità retribuito a tre mesi (invece degli attuali 10 giorni) ha riacceso i riflettori su un tema che spesso rimane in secondo piano nel dibattito pubblico: la genitorialità è anche una questione maschile e, se condivisa, porta benefici sia ai padri sia alle madri.

Gli ultimi due anni di pandemia e di lavoro da remoto hanno reso ancora più evidente che il diritto alla parità nell’esercizio della genitorialità non è più rinviabile. Lo dimostra l’analisi condotta dall’Osservatorio Vita-Lavoro di Lifeed, secondo cui i padri lavoratori non percepiscono più il ruolo professionale come preponderante nella loro vita: si sentono infatti in primis padri (71%) e solo dopo professionisti (42%).

Come si riflette tutto questo in ambito lavorativo? Come possono le aziende valorizzare le esperienze di vita e le competenze dei loro collaboratori padri? Se ne è discusso nel corso del Caring Company Digital Talk Le competenze dei padri trasferite sul lavoro promosso da Lifeed, attraverso le testimonianze di manager di importanti aziende.

La cultura aziendale può rendere più visibili i papà

Innanzitutto ci si chiede se oggi la paternità sia visibile nelle aziende. Dall’analisi delle riflessioni dei lavoratori papà partecipanti ai percorsi Lifeed, risulta ancora alta (57%) la percentuale di padri che non si considerano “visti” sul luogo di lavoro. Ciò è dovuto a ostacoli che, secondo i padri stessi, vanno dalla cultura aziendale che tende a mantenere separata vita privata e lavoro, alla scarsa attenzione al work-life balance da parte dell’azienda, fino agli stereotipi personali.

Ma esistono anche abilitatori che, secondo i partecipanti, possono ‘accendere’ sul luogo di lavoro il potenziale della paternità: una cultura aziendale ‘caring’ che mostra attenzione al work-life balance e ai ruoli extra lavorativi delle persone; un clima di condivisione, supporto reciproco, apertura al dialogo tra colleghi, manager e collaboratori sul tema della paternità; iniziative ad hoc dedicate ai genitori; l’autodeterminazione e la volontà dei singoli.

La tipologia dell’azienda e i valori organizzativi sono fondamentali, insieme alla spinta individuale, per influenzare la visibilità della paternità in azienda. Ne è convinto Stefano Angilella, HR Director Avanade ICEG, secondo cui il contesto aziendale è l’elemento più importante per far sì che l’esperienza genitoriale sia un patrimonio di competenze per l’azienda stessa.

Tra le numerose iniziative di supporto alla genitorialità, Avanade ha realizzato un manifesto che impone il congedo di paternità obbligatorio: una misura che va nella direzione di favorire la gender equality e che rende strutturale questa opportunità, con l’obiettivo di far vivere l’esperienza genitoriale appieno, di pari passo con il percorso di crescita professionale.

Superare gli stereotipi è il primo passo 

Il percorso di visibilità dei padri rientra in un cambiamento culturale aziendale che, soprattutto in Italia, richiede tempo e il superamento di stereotipi sui ruoli privati e lavorativi. Per Ivan Basilico, Sviluppo risorse umane e welfare di Ferrovie Nord Milano tutti i soggetti coinvolti (dallo Stato alle singole persone) devono lavorare in modo collettivo per superare gli ostacoli.

In questa direzione, possono essere utili misure aziendali, come quelle attuate da FNM, che spostano il focus dalla quantità alla qualità del lavoro, valorizzano l’ascolto e la libertà di parlare della cura e della genitorialità come qualcosa che fa acquisire competenze trasversali tra vita e lavoro, la flessibilità di orari, lo Smart working e iniziative specifiche a favore dei genitori.

Anche Ruggero Dadamo, Chief People Officer di Sisal sostiene che a contare molto sia l’aspetto normativo. In mancanza di un maggiore supporto da parte dello Stato, le aziende possono mettersi in ascolto delle loro persone e renderle serene nel raccontare le proprie esperienze genitoriali che possono rompere stereotipi culturali, creando ‘papà-ambassador’ in azienda.

Sempre per accompagnare i dipendenti papà in questo cambiamento culturale, Sisal ha messo in campo anche misure a favore dei figli dei dipendenti per orientarli verso discipline STEM e per aumentare le loro competenze digitali, oltre a iniziative specifiche per supportare i dipendenti genitori durante la pandemia.

Il ‘percorso evolutivo’ riguarda anche i singoli

Matteo Gori, Global Marketing Director di Barilla, spiega che oggi ci troviamo all’interno di un ‘percorso evolutivo’ nel quale gli individui sono chiamati a prendere l’iniziativa e le aziende possono mettere in moto un circolo virtuoso. La singola persona può quindi giocare un ruolo molto importante per abilitare il cambiamento e, in questo senso, l’autodeterminazione è fondamentale.

Ma quali sono i vantaggi di questa visione nella vita privata e nel lavoro? Il congedo parentale – racconta Gori citando la propria esperienza personale – aiuta a raggiungere l’equilibrio dei carichi di cura, mentre la genitorialità rende manager migliori, più curiosi, con una visione laterale, consapevoli di poter vivere un distacco più sano tra vita privata e lavoro e capendo di avere priorità diverse.

Per rendere la paternità un fattore distintivo e positivo, va fatto prima un lavoro sui valori culturali dell’azienda. Secondo Alessandro Mancini, Responsabile Relazioni Sindacali e Welfare di Trenord, la funzione HR ha un ruolo centrale in questo senso e i percorsi formativi sono molto importanti per coinvolgere i padri nella realizzazione del cambiamento.

Mancini evidenzia come il fenomeno della denatalità in Italia sia preoccupante e per questo bisogna lavorare sul tema della paura delle persone di non essere all’altezza del compito di genitore o di perdere qualcos’altro di importante nella propria vita diventando genitori. Le iniziative durature di benessere organizzativo possono essere utili per valorizzare le unicità di ognuno e garantire un maggiore equilibrio dei carichi di cura.

Oggi lo scenario del mondo del lavoro è profondamente diverso rispetto al periodo pre-pandemia. Le priorità delle persone sono cambiate e le modalità organizzative si sono trasformate in modo radicale, probabilmente per sempre. Di conseguenza, anche il mercato del lavoro non è più lo stesso.

Lo Smart working è diventato sempre più diffuso e le persone si sono trovate spesso a lavorare dalla propria casa. In questo contesto, come rileva l’Annual Survey 2021 dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed che ha coinvolto 1.258 partecipanti ai suoi percorsi formativi, c’è stato uno spostamento di focus delle persone verso il proprio benessere.

Tra i ruoli di cura, il 40% dei partecipanti riconosce di prendersi cura di sé, un aumento del 90% rispetto al dato 2020 (dove solo il 4% riconosceva di prendersi cura di sé). Questo dato potrebbe essere indice di una maggiore attenzione al benessere personale e di una aumentata consapevolezza.

La cura allena la leadership

La pandemia resta per il terzo anno consecutivo la transizione più forte per le persone (74%). Ma ciascun partecipante alla Survey di Lifeed afferma di vivere anche altre transizioni personali, come diventare genitore o caregiver, cambiare lavoro, casa, ecc.

In questo scenario, è interessante osservare come il dato sulla leadership risulti più alto per coloro che si prendono cura di qualcuno, a casa o sul lavoro. Se infatti in generale il 77% riconosce di aver migliorato questa capacità, la percentuale sale all’84% per i neo genitori, all’80% per i caregiver e al 79% per i genitori.

Anche prendersi cura di qualcuno sul lavoro aumenta le capacità di leadership, come dimostra il dato sull’83% dei manager (+6% rispetto alla media). Questi dati suggeriscono come oggi, nelle aziende, la leadership debba mettere al centro delle proprie azioni la parola “cura”.

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Storicamente in Italia i carichi di cura familiari pesano maggiormente sulle spalle delle donne. Oggi, infatti, tre quarti del lavoro di cura non retribuito viene svolto dalle donne, complice anche il persistere di forti stereotipi culturali di genere. Il caregiving e la genitorialità sono aspetti fondamentali che influiscono sul divario di genere e riguardano anche le aziende, che possono avere un ruolo determinante per garantire un maggiore equilibrio.

Come superare questo divario? Quali politiche adottare per passare dal concetto di conciliazione dei tempi di lavoro e di cura a quello di condivisione dei carichi di cura? Si è cercato di trovare le risposte a queste domande nel corso del talk 8 marzo: da conciliazione a condivisione organizzato da Valore D in occasione della Giornata internazionale della donna 2022, a cui ha partecipato anche Riccarda Zezza, CEO di Lifeed.

Il cambiamento parte (anche) dalle aziende

“La pandemia ha frenato il progresso verso la parità di genere”, ha spiegato Zezza. “La condivisione genitoriale oggi è considerata un ‘nice to have, ma non è vista come qualcosa di urgente”.

L’Italia è tra gli ultimi Paesi ad aver introdotto un congedo di paternità obbligatorio, pari a 10 giorni, che comunque ha una durata nettamente inferiore rispetto a quello di cinque mesi delle madri. Inoltre i dati sull’occupazione femminile e sul tasso di fertilità vedono l’Italia in fondo alle classifiche internazionali.

Alcune aziende stanno cercando di occupare il vuoto lasciato da altri attori istituzionali su questi fronti. Ma, come sottolineato da Paola Mascaro, Presidente di Valore D, c’è una dicotomia tra cultura e pragmatismo: “La resistenza al cambiamento esiste anche nelle grandi aziende, dove il retaggio culturale dei singoli capi penalizza i dipendenti che vogliono dedicarsi maggiormente al loro ruolo di padre”. Secondo Mascaro, servirebbero apposite norme che rendano più efficace il cambiamento.

La cultura organizzativa, dunque, è determinante ma deve essere accompagnata da leggi e azioni quotidiane che possono favorire la condivisione dei carichi di cura tra padri e madri. Il vantaggio sarebbe per tutti, perché da questa condivisione emergono risorse e talenti che le persone possiedono già nei loro ruoli di vita privata e che sono utili per le loro aziende.

Prendersi cura sviluppa capacità utili alle imprese

Come ricordato da Zezza, il 73% dei dipendenti è caregiver, quindi si prende cura di qualcuno. Ed è proprio dai carichi di cura che derivano capacità utili alle imprese: “La cura sviluppa competenze soft che, secondo l’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, vengono allenate per il 70% in ruoli non lavorativi. Con una maggiore condivisione, ci sarebbero più opportunità di trasferire competenze dai ruoli di vita privata a quelli professionali e viceversa”, ha spiegato Zezza.

Su questo aspetto Lorenzo Gasparrini, filosofo, autore e formatore su questioni di genere, ha sottolineato che “se stanno meglio, le persone lavorano meglio. Le grandi aziende si stanno impegnando, ma oggi tante piccole e medie imprese non vedono ancora di buon occhio i dipendenti che usufruiscono del congedo di paternità”.

Secondo Gasparrini va ripensato il modo di conciliare il ruolo del genitore con quello del lavoratore, che riguarda anche il tempo dedicato a lavoro e famiglia, gli spazi domestici. “Cambiare leggi e organizzazione del lavoro nelle aziende comporta modifiche di sistema e l’abbandono della logica delle gerarchie per risolvere i problemi”. I nostri ruoli, ha aggiunto, “non possono essere visti a compartimenti stagni”.

Infine Sofia Maroudia, ESG Officer di Snam, ha ricordato che in Italia le donne dedicano 22 ore alla settimana alla cura dei figli, contro le tre ore degli uomini. “Le aziende possono avere un grande impatto per creare un migliore equilibrio attraverso congedi per i papà, flessibilità lavorativa e aiuti psicologici”. Il Talk ha costituito il momento di chiusura di un tavolo di lavoro interaziendale di Valore D sul tema, realizzato con il supporto di Snam e Generazione Donna, che ha coinvolto 25 aziende e ha prodotto un documento che raccoglie oltre 200 buone prassi aziendali sul tema.

Essere genitori è un lavoro a tempo pieno. Spesso, però, le competenze sviluppate grazie a questa esperienza restano inespresse e rischiano di rimanere confinate alla sfera privata.

Come è possibile far emergere le abilità che le persone allenano durante la genitorialità e trasferire queste preziose soft skill anche sul lavoro?

Avanade, player globale leader nella fornitura di servizi digitali innovativi, a maggio 2020 ha introdotto i percorsi Lifeed per neo-genitori con figli da zero a tre anni.

Dopo questa esperienza positiva, nel corso del 2021 l’azienda ha deciso di ampliare l’offerta anche per i suoi dipendenti con figli dai quattro ai 18 anni attraverso il percorso Genitori che nascono, genitori che crescono.

“Siamo fermamente convinti che la cura dei figli sia un momento determinante nell’acquisizione e nel rafforzamento di competenze trasversali spendibili in ambito lavorativo”, spiega Stefano Angilella, HR Director Avanade ICEG. “Lifeed ci aiuta a far maturare questa consapevolezza nei nostri dipendenti”.

“La parola ‘diversità’ non mi piace perché ha in sé qualcosa di comparativo e una distanza che proprio non mi convince. Quando la verbalizzo sento sempre di tradire qualcosa che penso o sento. Un termine in sostituzione potrebbe essere ‘unicità’, perché tutti noi siamo capaci di coglierla nell’altro e pensiamo di essere unici. Facile? Per niente, perché per comprendere la propria unicità è necessario capire di cosa essa è composta, di cosa siamo fatti. Le ambizioni, i valori, le convinzioni, i talenti, ma anche le fragilità e le paure. Tutto questo deve essere allenato e dobbiamo prendercene cura”. 

Così Drusilla Foer si è rivolta al pubblico nel corso suo monologo nella terza serata del Festival di Sanremo 2022. “Non è facile entrare in contatto con la propria unicità, ma un modo lo avrei: si prendono per mano tutte le cose che ci abitano e si portano in alto, si sollevano insieme a noi, nella purezza dell’aria, in un grande abbraccio innamorato e gridiamo: ‘Che bellezza, tutte queste cose sono io’. Date un senso alla mia presenza su questo palco e tentiamo il vero atto rivoluzionario, che è ascolto di se stessi e degli altri, per far sì che le nostri convinzioni non diventino convenzioni, senza pregiudizi”.

Possiamo prendere spunto dalle parole di Drusilla Foer per ricordarci che ogni persona è unica e, come scriveva Walt Whitman, contiene moltitudini. Ognuno è “molte cose” contemporaneamente e possiede talenti nascosti che può esprimere, se valorizzati, sia nella vita privata sia nel lavoro. Prendersene cura e saperle vedere in noi stessi e negli altri ci rende più efficaci e abbassa la fatica del gestire la complessità di ogni giorno. Solo così è possibile scoprire la meraviglia nascosta nelle persone per innovare il mondo del lavoro.

Nel contesto incerto di oggi, favorire diversità e inclusione è diventato un fattore di competitività per le aziende. Come fare? Attraverso una caring leadership che “fa crescere” le persone, fa emergere la ricchezza di tutte le loro dimensioni identitarie e le guarda non solo come indice di complessità, ma come un valore.

Il segreto? Guardare le persone nella loro interezza

Le molteplici caratteristiche delle persone si possono infatti considerare come una fonte di ricchezza per l’azienda. La diversità può rappresentare un vero e proprio motore di innovazione: la chiave è saper guardare le persone con curiosità e coraggio, facendole fiorire nella loro interezza.

Saper vedere davvero le persone in azienda non è facile. Solo un vero ascolto dei loro bisogni, con gentilezza ed empatia (che tutti possiedono potenzialmente), che fa spazio alle emozioni e dà maggiore responsabilità e autonomia, permette di conoscere come stanno le persone e farle stare meglio.

Quando si parla di Human sustainability, è necessario riconoscere che gli esseri umani sono diversi, sfaccettati, in continuo cambiamento e quindi potenzialmente in continuo apprendimento, con capacità naturali di adattamento alle trasformazioni nel tempo.

Ma queste caratteristiche possono essere valorizzate solo se le aziende sanno allargare le loro mappe e vedere le persone in modo diverso, nella loro interezza, con curiosità, coraggio e cura: tutte parole che hanno alla loro radice “cuore”.

Foto: Ansa

La pandemia ha reso evidente ciò che già esisteva, ma che non veniva riconosciuto apertamente fino a quando la nostra quotidianità è stata resa visibile a tutti attraverso lo schermo del pc nelle riunioni da remoto a cui ci siamo abituati dal febbraio 2020 a oggi: vita e lavoro non sono due dimensioni separate, anzi, è dalla loro sinergia che dipende il benessere delle persone

Il fenomeno della Great resignation (l’ondata di dimissioni che nel 2021 ha interessato dapprima le imprese americane e poi quelle europee, comprese le italiane) rappresenta un indicatore in questo senso: le persone hanno messo il loro benessere al primo posto e lo stesso dovranno fare le aziende se non vorranno perdere talenti e competitività sul mercato.

Anche le modalità di lavoro sono cambiate radicalmente: dal lavoro da remoto ‘forzato’ di inizio pandemia, oggi si è passati a un’organizzazione ibrida tra lavoro in ufficio e Smart working, dalla quale le aziende non potranno più tornare indietro. L’acronimo VUCA (volatility, uncertainty, complexity, ambiguity) introdotto dall’US Army War College dopo la Guerra Fredda oggi è tornato di grande attualità per descrivere lo scenario in cui stiamo vivendo.

Lo confermano i dati dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed, secondo cui il 62% delle persone dichiara di provare preoccupazione all’idea di “tornare alla normalità”. Il 69% dei dipendenti si aspetta che, per favorire il rientro in ufficio, la propria azienda dia spazio ai pensieri e agli stati d’animo, mentre il 68% ritiene che il manager ideale debba avere la dote dell’ascolto.

Oggi più che mai, le aziende sono chiamate a rispondere ai bisogni delle loro persone in termini di conciliazione vita-lavoro, employee satisfaction ed engagement. La sostenibilità e la produttività delle imprese passano anche da azioni mirate di welfare con l’obiettivo di aumentare il benessere e il coinvolgimento dei dipendenti, i quali potranno scoprire nuovi modi di prendersi cura di sé.

Dunque, wellbeing ed engagement saranno sempre più centrali nelle strategie aziendali, soprattutto nella fase di rientro graduale in ufficio dopo il lungo periodo di pandemia che ha aumentato i livelli di stress e incertezza.

Tutte le esperienze di vita contano

Solo sentendosi riconosciute come persone nella loro interezza, non parzialmente come professionisti, le persone possono stare meglio anche sul lavoro. D’altra parte, le esperienze della vita privata sono un’occasione di sviluppo di competenze trasferibili nella sfera professionale e rappresentano una vera e propria palestra per allenare quelle soft skill così utili in tutti i nostri ruoli di vita, compresi quelli lavorativi. 

Per esempio, la genitorialità può essere una straordinaria leva di crescita professionale. La relazione quotidiana, sfidante e coinvolgente con i figli è una palestra unica per migliorare competenze relazionali, organizzative e dell’innovazione. Anche i dipendenti caregiver sono una risorsa preziosa per le aziende. Prendersi cura di una persona cara è un’occasione di sviluppo di competenze come capacità di ascolto, gestione dello stress e orientamento al risultato (solo per citarne alcune) trasferibili nella sfera lavorativa.

Investire sul benessere delle persone è quindi una grande sfida – ma anche una grande opportunità – per la Direzione HR delle aziende che può vincere tale sfida solo riuscendo a vedere le persone nella loro interezza. Non bisogna dimenticarsi che la vita è una maestra: le aziende che sapranno valorizzare le esperienze di vita delle persone, facendone delle palestre eccezionali di lifelong learning, saranno le protagoniste del futuro.

Quella del benessere è solo una delle sfide principali della Direzione Risorse Umane. Nel whitepaper Sfide e soluzioni per l’HR nel post pandemia realizzato da Lifeed, la funzione HR può trovare tutti gli spunti di riflessione per trasformare questa fase di incertezza in un’occasione di crescita per le persone e per l’azienda.

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Le persone hanno vite complesse: questa può essere una fonte di stress e scarsa produttività, oppure un’occasione per avere più risorse a disposizione in azienda. I molteplici ruoli di ognuno, dalla vita privata a quella professionale, nascondono competenze e talenti utili al business. Ma come è possibile attivare questo potenziale?

La risposta è conoscere meglio le persone, mettendole al centro di percorsi formativi che permettono loro di scoprire i talenti nascosti che esprimono nei diversi ruoli di vita e di trasferirli in modo efficace anche sul lavoro.

L’esperienza dell’utente al centro

Per supportare le aziende nel raggiungimento di questo obiettivo, Lifeed ha lanciato MultiMe® Finder, il nuovo strumento di “self discovery” realizzato in collaborazione con la Kellogg School of Management della Northwestern University di Chicago che consente alle persone di costruire la mappa dei propri ruoli di vita, profili comportamentali e competenze associate.

Grazie a questo strumento, le aziende possono rafforzare la personalizzazione dei percorsi formativi, conoscere meglio le loro persone e mettere al centro l’esperienza dell’utente.

Ideale nei programmi di D&I, Talent e Wellbeing

MultiMe® Finder è una soluzione che le imprese possono utilizzare sia in modalità stand-alone, sia come tool complementare e integrato ai programmi Lifeed negli ambiti di Diversity & Inclusion, Talent e WellbeingLo strumento è infatti ideale per la “messa a terra” di azioni e programmi in diversi ambiti:

Sviluppo D&I
Mappatura dei profili comportamentali attraverso la lettura dei ruoli di vita e della diversità di ciascuna persona con l’obiettivo di far emergere l’unicità, i punti di forza e i talenti nascosti delle persone. Spesso l’utilizzo avviene come ice-breaker in occasione di eventi, per esempio il kick-off di avvio dei programmi Lifeed, oppure come strumento di indagine e di ascolto della popolazione aziendale.

Acquisizione di talenti e sviluppo delle persone
Lo strumento è molto adatto anche in fase di talent acquisition e development, perché consente all’azienda di vedere i talenti nascosti delle persone e di valorizzarli all’interno del percorso di crescita aziendale.

Sviluppo del benessere in azienda
Multime® Finder può essere usato come strumento di immediata applicazione di iniziative di welfare volte a migliorare il benessere psicologico perché la scoperta delle risorse nascoste e dei profili comportamentali favorisce la relazione tra l’azienda e le sue persone.

Per approfondire tutti i vantaggi di MultiMe® Finder per le aziende, in particolare in ambito Diversity & Inclusion, Lifeed ha promosso l’evento dal titolo D&I Finder: come far emergere la ricchezza e l’unicità delle persone per portare benessere e inclusione in azienda in programma il 22 febbraio 2022 alle ore 12.

Ogni persona è molto di più di quel che mostra

Attraverso questo percorso, i dipendenti scoprono: i propri super-talenti (quali caratteristiche positive li rendono più efficaci nel maggior numero di ruoli); i propri talenti nascosti (i talenti che esprimono in un solo ambito della loro vita e come possono usarli in altri ruoli); lo stile comportamentale (come si comportano in ognuno dei loro ruoli, l’essenza della loro efficacia).

Gli utenti ricevono un report che evidenzia il loro equilibrio tra i ruoli, i super-talenti, i talenti nascosti e il loro stile comportamentale prevalente. L’azienda riceve a sua volta un report con dati in forma anonima e aggregata sui ruoli e le caratteristiche che le persone esprimono, i loro talenti nascosti e i profili comportamentali. Il report indica inoltre il numero di competenze totali provenienti dalla vita che l’azienda aggiunge alle sue persone.

Tutto questo permette alle persone di stare meglio e lavorare meglio, aumentando la propria autoefficacia, mentre l’azienda trae vantaggio da un bacino più ampio di talenti nascosti e diversità già presenti al suo interno, basando le proprie scelte e facendo crescere la propria cultura su una conoscenza più profonda delle sue persone.

Secondo l’analisi condotta dall’Osservatorio Vita-Lavoro di Lifeed “gli uomini non percepiscono più il ruolo lavorativo come preponderante nella loro vita: si sentono infatti in primis padri (71%) e solo dopo professionisti (42%). Genitorialità, relazione, cura, sono gli aspetti ora maggiormente rilevanti per il mondo maschile. Questi elementi sono ormai intorno a noi, permeano la società. Estendere il congedo di paternità vuol dire riconoscere queste mutazioni sociali e dargli un nome. Tuttavia non bisogna illudersi. La strada verso il diritto alla parità nell’esercizio della genitorialità è ancora lunga e i padri lo sanno quanto le madri”.

È questo il commento di Riccarda Zezza, CEO e co-fondatrice di Lifeed, intervenuta alla conferenza stampa presso la Camera dei Deputati sul congedo di paternità alla quale hanno preso parte i deputati Alessandro Fusacchia, Erasmo Palazzotto, Rossella Muroni e Lia Quartapelle, Valeria Ronzitti del direttivo Movimenta, Maura Latini (AD COOP),  Silvio Petta (founder di Superpapà),  Veronica Benini (imprenditrice e attivista) e  Paola Mascaro (Presidente Valore D).

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Riccarda Zezza nel corso del suo intervento ha potuto illustrare alcune evidenze emerse dall’analisi delle riflessioni dei partecipanti ai percorsi di Lifeed da cui emerge anche come la ridefinizione dei propri ruoli sociali, delle proprie priorità e delle proprie capacità è stata amplificata e velocizzata dal lockdown e  dalla pandemia.

“Questi eventi  hanno fatto progredire la percezione di ciò che siamo e di ciò che ci circonda. Un cambiamento che ha toccato anche l’universo maschile. Per il 40% dei padri coinvolti nella piattaforma Lifeed la pratica di ruoli di cura sviluppa soprattutto due importanti capacità: la paternità ha migliorato in più del 60% creatività e capacità di innovare; la cura dei genitori anziani, invece, li ha portati a sviluppare e applicare maggiormente responsabilità ed empatia”, ha concluso Zezza.

L’empatia non è più una semplice competenza trasversale. Quando i leader la mettono in pratica attivamente, può trasformarsi in un potente strumento capace di guidare verso il raggiungimento di risultati di business. Il magazine Forbes ha proposto una panoramica degli studi scientifici più aggiornati sul tema dell’empatia, definendola “la più importante competenza di leadership”.

Portata alla ribalta da Daniel Goleman e dai suoi studi sull’intelligenza emotiva, l’empatia viene generalmente associata a una serie di benefici in termini relazionali, come il miglioramento delle capacità di lavorare in team e la consapevolezza sociale. Tuttavia, alcune ricerche recenti ne hanno dimostrato gli effetti positivi anche in aree strettamente legate alle performance aziendali, come l’innovazione, la retention e la produttività.

L’effetto domino dell’empatia

Per esempio, l’empatia può essere un importante motore dell’innovazione, in quanto promuove l’ascolto attivo e una comprensione approfondita dei punti di vista altrui. Non è un caso che la prima fase del design thinking, uno degli approcci più avanzati per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi, consista proprio nel mostrare empatia verso i potenziali utenti. Metterci nei panni degli altri amplia infatti i nostri orizzonti e ci invita ad aprirci a nuove idee.

L’empatia è anche in grado di promuovere la diversità, contribuendo alla creazione di luoghi di lavoro più inclusivi. Stando a uno degli studi citati da Forbes, il 50% dei dipendenti guidati da leader empatici definisce il proprio luogo di lavoro come inclusivo, rispetto a soltanto il 17% da coloro che non godono di una leadership empatica. I leader dotati di questa competenza sono inoltre maggiormente in grado di aiutare i collaboratori a destreggiarsi tra le sfide dell’equilibrio tra vita lavorativa e professionale: l’86% dei collaboratori guidati da leader empatici ha dichiarato di sentirsi maggiormente in grado di gestire i propri obblighi professionali, personali e familiari, diventando così più produttivi.

Benefici per salute mentale e retention

Nello scenario post-pandemico, i benefici dell’empatia diventano ancora più rilevanti se considerati da altre due prospettive: la salute mentale e la retention. Per quanto riguarda la salute mentale, tristemente definita da Gallup come “la prossima pandemia globale”, l’empatia può diventare un potente antidoto allo stress e contribuire a creare esperienze collaborative favorevoli per i singoli lavoratori e i team. 

In termini di retention, molto è già stato detto riguardo alla Great Resignation innescata dal Covid-19 e alle conseguenti trasformazioni al nostro modo di lavorare. Anche in questo caso, l’empatia si è dimostrata un’arma estremamente efficace nel trattenere i dipendenti migliori: il 57% delle lavoratrici bianche e il 62% delle lavoratrici di colore intervistate in uno degli studi hanno affermato che non lascerebbero il loro posto di lavoro se le loro situazioni personali venissero rispettate e considerate come un valore dalle rispettive aziende.

Essere leader empatici non basta: è necessario agire

Cosa significa dunque essere leader empatici, e come fare per trarre il massimo vantaggio da questa competenza chiave? Come sottolinea Forbes, i leader non possono più limitarsi a prendere in considerazione i pensieri e le emozioni dei propri collaboratori usando un approccio cognitivo (“Se fossi nei suoi panni, cosa penserei in questo momento?”) o emozionale (“Se fossi nei suoi panni, come mi sentirei?”). I benefici più grandi derivano infatti dall’applicazione attiva dell’empatia, che può tradursi ad esempio nel manifestare la propria preoccupazione verso gli altri e le sfide che stanno affrontando.

Prestare ascolto alle vicende personali dei collaboratori e saper interpretare i segnali non verbali sono due competenze fondamentali per entrare completamente in sintonia con il vissuto delle persone. Ma non bastano. Per diventare davvero persone empatiche, i leader dovrebbero infatti prendere l’iniziativa a seguito delle informazioni raccolte, cercando attivamente dei modi per dare l’aiuto e il supporto necessario ai propri collaboratori. 

Scoprire che un dipendente ha difficoltà nel vivere il proprio ruolo di genitore o caregiver ci rende dei bravi ascoltatori. Trovare soluzioni condivise per alleggerire il peso di queste sfide e trasformarle in opportunità di crescita ci rende invece degli ottimi people leader. E può fare un’enorme differenza nelle performance dell’azienda per cui lavoriamo.

Di fronte all’evoluzione della Great Resignation (il “boom di dimissioni” post-pandemia) da fenomeno prettamente statunitense a realtà globale che tocca diversi Paesi industrializzati, tra cui l’Italia, come possono le aziende mettere al sicuro il proprio futuro e persino ottenere un margine competitivo in una situazione così turbolenta? 

Secondo Gallup, la risposta è partire dal reskilling delle persone, in modo particolare dei manager. Rifacendosi ad alcuni dati estratti dalla ricerca The American Upskilling Study, pubblicata nel giugno del 2021, l’azienda di sondaggi osserva come il 57% degli americani consideri una priorità l’aggiornamento delle proprie competenze, affermando inoltre che “una delle necessità dell’essere umano più resistenti alle crisi e al passare del tempo è il bisogno di evolvere. Le persone pretendono crescita e sviluppo”.

L’instabilità dell’ultimo anno e mezzo ha spinto molte persone a ripensare completamente i loro percorsi di vita professionale e personale. Molti di noi hanno attraversato cambiamenti profondi che hanno alterato il nostro equilibrio vita-lavoro: le sfide derivanti dalla combinazione dei doveri genitoriali con quelli professionali sono gradualmente (e fortunatamente) diventate argomenti degni di discussione in contesti ufficiali. 

Al contempo, in Paesi con contesti imprenditoriali più tradizionali come l’Italia, il lavoro da casa e altre modalità di lavoro flessibile sono diventate soluzioni più ampiamente accettate, e non soltanto risposte temporanee alla situazione di emergenza.

Eppure soltanto una manciata di aziende hanno colto l’opportunità di sfruttare al massimo queste trasformazioni e il loro potenziale in termini di sviluppo delle persone. Non stupisce, dunque, che queste rare eccezioni siano oggi le aziende più richieste dai candidati più forti intenzionati a rientrare nel mercato del lavoro. E non è forse questo un notevole vantaggio competitivo?

Il turnover in azienda dipende anche dai manager

Se gran parte delle persone ha vissuto transizioni significative con effetti profondi sulla propria situazione professionale, i ruoli e le responsabilità dei manager hanno attraversato una trasformazione possibilmente ancora più profonda. 

Non solo i leader si sono ritrovati ad affrontare situazioni al di fuori dell’ambito prettamente lavorativo, spesso cercando di trovare un equilibrio tra la vision dell’azienda, le esigenze dei dipendenti e le proprie responsabilità. In molti casi, i manager sono diventati il vero e proprio ago della bilancia nel determinare la volontà dei dipendenti di rimanere in azienda o di lasciarla.

Come ricorda Gallup, infatti, “i manager capaci sono in grado di ridurre il turnover dei dipendenti più efficacemente di qualsiasi altra mansione” all’interno di un’organizzazione, svolgendo un ruolo essenziale come ambasciatori della people strategy dell’azienda.

Tuttavia, nonostante i manager abbiano il potere di condizionare l’engagement del team fino al 70%, soltanto tre su 10 affermano di avere avuto la possibilità di crescere e imparare nell’ultimo anno, mentre la stessa percentuale (30%) si dichiara supportato nel proprio percorso di sviluppo. Come colmare questo gap?

La caring leadership è un fattore differenziante

In che modo le aziende possono dotare i propri manager degli strumenti necessari per gestire le loro nuove responsabilità?

Per affrontare al meglio la maggiore flessibilità e incertezza dell’attuale situazione, il reskilling dei manager dovrebbe partire dalle competenze trasversali. Ascoltare un collaboratore non è più un’attività relegata ai feedback meeting o alle valutazioni annuali.

Di fatto, con l’intrecciarsi delle linee di confine tra vita professionale e personale, la capacità di un manager di adottare una caring leadership è oggi diventata un fattore differenziante. Anche il ruolo del manager come coach si è ampliato, arrivando a includere un’ampia gamma di aspetti sui quali i dipendenti si aspettano di essere guidati: dalle capacità di gestione del tempo al saper stabilire dei limiti, dalla gestione dello stress all’autoconsapevolezza.

Quali sono dunque i benefici legati al reskilling dei manager? Una forza lavoro più coinvolta, determinata a restare e a non lasciare l’azienda. Un team manageriale che ritrova nuovo significato nello svolgimento del proprio ruolo e ha la possibilità di rendere la vita dei collaboratori più equilibrata e ricca di soddisfazione. E infine, un’attività con un Return on investment (ROI) notevole, specie se consideriamo i costi molto alti della sostituzione di un collaboratore che lascia l’azienda rispetto all’investimento sulla sua crescita.