Oggi la sostenibilità è sempre più prioritaria nell’agenda delle aziende. Per realizzarla, non possiamo più scegliere tra benessere e sviluppo. Solo se smettiamo di vedere un trade-off tra queste due componenti (che possono invece alimentarsi a vicenda) è possibile consentire davvero alle persone di sentirsi “viste” e “trattate” nella loro interezza dalle loro aziende, farle stare meglio e ‘collegarle’ agli obiettivi aziendali.

Quando si parla di Human sustainability, è necessario riconoscere che gli esseri umani sono diversi, sfaccettati, in continuo cambiamento e quindi potenzialmente in continuo apprendimento, con capacità naturali di adattamento alle trasformazioni nel tempo. Ma queste caratteristiche possono essere valorizzate solo se le aziende sanno allargare le loro mappe e vedere le persone in modo diverso, nella loro interezza, con curiosità, coraggio e cura: tutte parole che hanno alla loro radice “cuore”.

Ne ha parlato Riccarda Zezza, CEO di Lifeed, nell’ambito del Forum Sostenibilità 2021 organizzato da Comunicazione Italiana, a cui hanno partecipato manager di alcune importanti aziende.

Come affermato da Marshall Goldsmith, esperto di fama mondiale nella formazione dei dirigenti d’azienda, ciò che ci portati fin qui non ci porterà nella prossima era. I vecchi sistemi non sono più adeguati ai nuovi modi di lavorare. Non c’è alternativa al fatto di saper guardare le persone in modo diverso, altrimenti si perdono quote di mercato: la scelta tra benessere e sviluppo e tra vita e lavoro non è mai stata sostenibile e la pandemia lo ha reso ancora più evidente.

Impariamo ad ascoltare in modo diverso

Tra le attività principali di chi fa HR oggi ci sono quelle di favorire le pari opportunità, la meritocrazia, il work-life balance e il benessere psico-fisico delle persone. Secondo Giovanni Airoldi, HR Manager di Acea Holding, l’ascolto continuo è la capacità che gli HR dovranno avere, nell’ambito di un cambiamento culturale e dei modelli di leadership.

Un nuovo ascolto può essere possibile anche grazie alla potenza del digitale, che permette alle persone di narrare se stesse in modo diverso e alle aziende di ascoltarle in modo più profondo (senza i pregiudizi tipici della sintesi). Così è possibile realizzare l’HR footprint, l’impronta che la Direzione Risorse Umane può lasciare sulla gestione delle persone e sul futuro dell’azienda.

La sostenibilità è anche una questione di innovazione tecnologica legata ai comportamenti delle persone. Per Enrico Martines, Direttore Formazione, Sviluppo e Innovazione Sociale Hewlett Packard Enterprise, ciò si concretizza nel passaggio da un modello di economia lineare a quello di economia circolare, dove l’utilizzo della tecnologia è pay-per-use (a consumo) e permette un importante risparmio di risorse. Martines sottolinea inoltre l’importanza di valorizzare il work-life balance (e in particolare la genitorialità), perché se le persone stanno bene in famiglia ciò viene trasferito anche sul lavoro.

Una nuova leadership per le aziende

Per Michelangelo Ceresani, VP of Human Resources & Organization Capgemini Italia, oggi è necessario un lavoro profondo sulle competenze di leadership e ascolto delle persone: questa è la chiave di volta per far funzionare le nuove organizzazioni mentre riflettono su come rendere sostenibile un nuovo modello lavorativo basato su una gestione diversa dello spazio e del tempo.

Sugli effetti dei nuovi modelli organizzativi sulla produttività delle aziende si concentra anche Claudio Varani, Head of Compensation System & Benefit Gruppo TIM – Telecom Italia, secondo cui bisogna trovare una sintesi tra il modello normativo e quello lavorativo per garantire la sostenibilità nel tempo.

Quali leader dovranno accompagnare l’esecuzione della strategia di Human sustainability? Secondo Claudio Mennini, Chief Revenue Officer Giunti Psychometrics, le aziende oggi hanno bisogno di una leadership inclusiva e diversificata, che tenga insieme l’umanità e la competitività.

Infine è importante considerare che i lavoratori, specialmente i giovani talenti, si aspettano che le aziende siano responsabili e sceglieranno (a parità di offerta) le aziende portatrici di valori di sostenibilità. Come ricorda Gianluca Bonacchi, Evangelist, Employer Insights Indeed, la felicità sul lavoro è sempre più centrale in questa trasformazione e si fonda su azioni concrete di inclusione e coinvolgimento delle persone.

L’Onu si è prefissata 17 obiettivi di sviluppo sostenibile nell’Agenda 2030. Anche l’Italia fa la sua parte, attraverso un’apposita Strategia nazionale. Ma per arrivare a una sostenibilità globale, occorre partire da quella dei singoli. Le aziende (e in particolare le Direzioni HR) hanno, in questo senso, un ruolo fondamentale.

Come hanno dimostrato John W. Boudreau e Peter M. Ramstad in uno studio del 2005 intitolato Talentship, talent segmentation, and sustainability: A new HR decision science paradigm for a new strategy definition, comparso nella rivista Human Resource Management, le organizzazioni hanno davanti a sé due sfide importanti: quella di attirare (e trattenere) i talenti e quella di riuscire a rendere coerenti gli obiettivi economici con quelli sociali e ambientali.

Per vincerle, il primo passo è quello di armonizzare ciò che le aziende promuovono e mostrano all’esterno con quello che fanno per (e con) i propri dipendenti. Sono due aspetti che devono necessariamente convivere: l’allineamento tra gli obiettivi interni ed esterni consente il buon funzionamento e, dunque, il successo di un’impresa.

La complessità è potenziale che genera valore

Nelle agende delle aziende, dunque, ha sempre più rilevanza il concetto di Human sustainability, cioè l’insieme di azioni con cui l’azienda, per la sua crescita, punta sulla formazione delle sue persone, sul loro benessere, sull’inclusione e sull’engagement. Per attuarla, gioca un ruolo centrale la Direzione HR, che ha il compito di mantenere ogni giorno la coerenza tra ciò che l’azienda è e ciò che mostra di sé.

Non solo: le aziende possono sviluppare la capacità di vedere le proprie persone nella loro interezza e complessità. Quest’ultima è potenziale che genera valore: è il momento di superare il concetto di equilibrio vita-lavoro, per adottare una visione di sinergia vita-lavoro. Infatti, la vita personale e professionale non confliggono e non si contrappongono: siamo le stesse persone a casa e in ufficio, mentre ci relazioniamo con figli, amici, genitori, capi o colleghi.

Non portiamo con noi, dietro la scrivania, solo un pezzetto di ciò che siamo e delle nostre competenze: non smettiamo di essere madri, padri, figli, fratelli, amici quando chiudiamo la porta dell’ufficio. Anzi, queste nostre diverse sfere di vita si rafforzano a vicenda.

Ecco perché le aziende possono mettere in atto programmi, progetti e iniziative a tutela e valorizzazione delle proprie persone, realizzando concretamente la Human sustainability e mettendo in pratica la nozione di HR footprint, riguardante l’impatto concreto delle aziende sulle risorse umane, l’impronta della Direzione HR sul futuro dell’impresa.

Ma cosa significa oggi progettare processi e pratiche HR nel rispetto dei principi della sostenibilità? Senz’altro occorre valorizzare l’equità, lo sviluppo e il benessere, a partire dal proprio interno, diffondendo i valori della sostenibilità tra la cultura, i comportamenti e le pratiche aziendali. Questo rafforza le competenze, la motivazione e la produttività delle persone (misurabili con un’apposita attività di People Analytics), che sono fondamentali affinché l’impresa possa ottenere buoni risultati economici, sociali e ambientali.

Ogni persona porta con sé una ricchezza 

Questo modo nuovo di guardare al capitale umano, richiamato dai concetti di Human Sustainability e HR footprint, ha un forte impatto sul benessere organizzativo e anche sui profitti. Infatti, mettere a frutto le competenze delle persone, il ‘bagaglio’ che si portano dietro nella propria interezza, non limitandolo a quanto emerge nel singolo ruolo, permette una realizzazione professionale e personale che ha ricadute positive su tutto il sistema-impresa.

Sono le transizioni di vita il motore di crescita e sviluppo costante delle persone. Ecco perché non dobbiamo temere i cambiamenti nel tempo: anche le imprese possono a trarne beneficio, capitalizzando le esperienze e i talenti delle loro persone e ottenendo maggiori livelli di motivazione, benessere, coinvolgimento, efficacia. Questi sono gli elementi che contribuiscono alla crescita sostenibile dell’azienda e alla sua creazione di valore.

La vera ripartenza dell’anno, per molte persone, è a settembre. Finite le vacanze, riaprono le scuole e gli uffici e riprende il ciclo di vita a cui si era abituati prima dell’estate. Il rientro dalle ferie coincide per molti con il ritorno in ufficio dopo un lungo periodo di lavoro da remoto legato alle conseguenze della pandemia.

Per i dipendenti delle aziende, ciò significa ricominciare a gestire il delicato equilibrio tra i propri diversi ruoli privati e professionali. In particolare, i genitori sono chiamati nuovamente a conciliare la gestione dei figli con gli impegni lavorativi. Lo stesso vale per i caregiver che si prendono cura di una persona cara mentre lavorano.

La domanda che molte persone si pongono in questa fase è: “Sono pronta/o per il ritorno alla normalità?”. La risposta è sì, se si vive questa transizione con il giusto approccio.

Dall’equilibrio alla sinergia vita-lavoro 

Tutto dipende dalla prospettiva con cui si guardano le cose. Il segreto risiede nella capacità di passare dal concetto di equilibrio vita-lavoro a quello di sinergia tra le due dimensioni, che si arricchiscono a vicenda soprattutto nei momenti di trasformazione come questo.

Gli esseri umani hanno infatti straordinarie capacità di adattarsi e di apprendere dai cambiamenti nel tempo, che rappresentano vere e proprie palestre di competenze utili anche nella sfera professionale.

Diversi studi dimostrano come il livello di stress dei lavoratori aumenti durante il periodo di rientro dalle ferie. Quello che serve per vivere in modo positivo la fase della ripartenza è un allenamento delle competenze chiave: tra queste ci sono autoefficacia, ascolto, empatia, agilità mentale, gestione dello stress e problem solving.

Lo sviluppo di queste e altre soft skill permette di scoprire come la transizione della ripartenza non sia un ostacolo ma, anzi, rappresenti un’opportunità per trasformare le esperienze personali in occasioni di sviluppo di competenze applicabili anche sul lavoro.

La pandemia ha cambiato radicalmente il mondo del lavoro. Uno degli aspetti principali di questa trasformazione riguarda gli spazi fisici, che sono stati affiancati da luoghi digitali, ma dai quali non si può prescindere nel considerare “il ritorno al futuro (del lavoro)”. Questo è il titolo dell’indagine svolta dall’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed su 15.000 riflessioni di 5.000 partecipanti ai percorsi Life based, che hanno fornito risposte relative allo spazio fisico che li ha accolti durante la pandemia e a quello che immaginano come spazio ideale nel prossimo futuro.

L’analisi dei dati ha rivelato aspetti molto interessanti sulle emozioni legate alle restrizioni dovute al covid, riferite in particolare all’home working, ma più in generale agli spazi di vita e lavoro, che sono andati contaminandosi. Questi “Small data”, per usare un termine preso in prestito dal Marketing, contribuiscono a rendere visibili dimensioni identitarie del lavoratore che, solitamente, restano sommerse: eppure, esse sono fondamentali per passare da un People development e una People analytics tradizionali (che riguardano solo il ruolo professionale del lavoratore) a una dimensione lavorativa che tenga in considerazione la persona nella sua interezza.

Dicotomia ‘nido-prigione’

La prima domanda rivolta ai partecipanti aveva lo scopo di indagare la dimensione più strettamente emozionale, legata agli spazi fisici di vita e lavoro. È stato chiesto come si sono sentiti nello spazio in cui si sono trovati a vivere nell’ultimo anno e la maggior parte (il 62%) ha espresso sentimenti positivi, di soddisfazione: per il 45% in termini di serenità, di benessere e senso di libertà, mentre per  il 15% sono state prevalenti sicurezza e protezione (in particolare da parte delle donne).

Allo stesso tempo, circa un terzo dei partecipanti ha espresso sentimenti di insoddisfazione, disagio, stanchezza o scarsa energia (29%), un dato che è più elevato negli over 50 (+18% rispetto agli under  50). Influiscono su questo senso di oppressione la percezione di solitudine, di isolamento, di incertezza, di disorientamento e persino di ansia, per il 10%.

C’è dunque una forte dicotomia ‘nido-prigione’ tra coloro che hanno affrontato le restrizioni fisiche cogliendole come opportunità e con senso di protezione e coloro che, invece, hanno vissuto la medesima circostanza con sentimenti contrapposti. Probabilmente, in molti casi, le stesse persone hanno provato a fasi alterne queste emozioni contrastanti, ma, d’altra parte, ci siamo trovati a vivere circostanze nuove ed inaspettate per tutti, che hanno costituito una vera transizione di vita.

Lo spazio ideale? Immerso nel verde

Secondariamente, è stato chiesto ai partecipanti come immaginano il loro spazio futuro, senza fare distinzione, nel quesito, tra quello personale e quello professionale. Indagando i bisogni e le aspirazioni delle persone che, quasi sempre, faticano ad emergere nella People analitycs tradizionale, è emerso che il 34% si vede all’aperto o a contatto con la natura. Difficilmente, prima della pandemia, sarebbe stata ottenuta la stessa risposta.

Il 17% immagina uno spazio creativo e fantasioso, multisensoriale. Per circa un sesto delle persone è importante che sia ampio, dinamico e flessibile, anche grazie alla tecnologia, stimolante e ricco di occasioni di relazioni. Soprattutto negli uomini è evidente questo bisogno di raccontarsi, di condividere, mentre le donne appaiono più interessate all’ampiezza e alla creatività dello spazio. Non c’è distinzione di età o di genere, invece, tra coloro che aspirano a un maggior contatto con l’ambiente naturale e ciò appare molto compatibile con il tipo di sensazioni che tutti abbiamo sviluppato nell’ultimo anno.

Il rispetto è il primo valore

Infine, si è deciso di esplorare la sfera valoriale, chiedendo ai partecipanti di individuare le regole che dovrebbe avere il loro spazio ideale. Per il 31% è fondamentale il rispetto (la regola maggiormente espressa), che implica la gentilezza, l’inclusione e la collaborazione; per il 29% la libertà di espressione e movimento; per il 23% il rispetto dell’ambiente, sensibilità che va sviluppandosi in modo crescente. A seguire, per il 16% servono sicurezza e ordine, per il 14% è necessario che siano previsti e rispettati gli spazi personali.

Sono prevalentemente le donne a desiderare un luogo fisico che permetta loro di esprimere liberamente ciò che hanno dentro, che riproduca anche all’esterno il loro modo di essere, che rispecchi le proprie caratteristiche personali, magari con una componente creativa (come successo anche nella questione legata alle emozioni).

Come dice il pedagogista John Dewey, “non impariamo dall’esperienza, ma dal riflettere sull’esperienza”: questa analisi è quindi molto utile per delineare le caratteristiche che dovranno avere gli spazi di lavoro del futuro, le nuove modalità di lavoro, le regole e i valori che in essi si adotteranno.

Guarda il webinar on demand

La pandemia, un trasloco, un nuovo lavoro, un divorzio: sono tutte transizioni di vita che ci possono insegnare qualcosa, ma per vivere queste situazioni in modo positivo è necessario sviluppare la propria capacità di gestione del cambiamento. Come è possibile? L’auto-apprendimento è una competenza fondamentale in questo senso. Anzi, come spiega McKinsey, oggi l’intentional learning è la skill più importante per vivere le grandi trasformazioni della vita, comprese quelle lavorative.

Nella sfera professionale, il World Economic Forum ha riscontrato la necessità di riqualificare almeno un miliardo di posti di lavoro, che sono stati trasformati dal cambiamento tecnologico che stiamo vivendo. A ciò si è aggiunto l’impatto del covid-19 che ha accentuato la necessità di reskilling delle persone nelle nuove modalità di lavoro digitali e da remoto. Una strada che sembrerebbe in salita, ma tutto parte dal nostro approccio a questi grandi momenti di transizione.

Il nostro mindset fa la differenza

Se infatti il cambiamento è un dato di fatto, è la nostra risposta che fa la differenza. Tutto parte da noi stessi e dalla capacità di attingere dal bagaglio di risorse personali, perché non c’è sviluppo senza investimento e un periodo difficile come questo può essere una preziosa opportunità per innescare processi virtuosi.

Vivere momenti di difficoltà è naturale, ma questi possono diventare energia positiva solo se li sappiamo affrontare in maniera proattiva. Come affermava lo psichiatra Viktor Frankl, padre della logoterapia e sopravvissuto alla Shoah, non sono il contesto o le circostanze a determinarci, ma le nostre decisioni”.

In realtà il cambiamento fa parte della storia umana da sempre, ma è un processo che la nostra mente non affronta volentieri, perché vede la ‘novità’ come una minaccia e preferisce guardare a ciò che già conosce. Il segreto è saper affrontare i processi di transizione con realismo.

Ognuno può allenare l’auto-apprendimento

Cambiare non significa cancellare, perché noi siamo anche la nostra storia, i nostri valori, il bagaglio di idee e progetti che ci portiamo dietro nella sfera privata e lavorativa. Trasformarsi non significa annullarsi, ma sapersi adattare in un determinato contesto per progredire.

Ecco allora che l’auto-apprendimento diventa una competenza chiave per l’evoluzione lavorativa ed è una abilità che ognuno di noi può allenare affinché possa diventare uno fattore per il successo professionale a lungo termine. Quello che conta è come la nostra mente recepisce e affronta la novità.

Ce lo ricorda anche la psicologa americana Carol Dweck della Stanford University, che con i suoi studi su una mentalità rigida e una più aperta ha delineato limiti e opportunità di crescita verso un approccio diverso a se stessi, perché una mentalità rigida non consente alle persone il lusso di trasformarsi: devono già essere”.

Le esperienze e le interazioni quotidiane offrono enormi opportunità di apprendimento, ma solo se si tratta intenzionalmente ogni momento come un’opportunità di formazione. Durante l’apprendimento continuo, le riflessioni delle persone possono permettere di acquisire maggiore consapevolezza delle proprie capacità per gestire il cambiamento e affrontare le transizioni di vita.

Il segreto? Essere curiosi

L’apprendimento è come una vera e propria palestra e in quanto tale, come ogni allenamento, necessità di regolarità e di pianificazione. Non solo: servono una mentalità orientata alla crescita personale e molta curiosità, vero motore di ogni apprendimento, che può essere allenata anche in coloro che per natura non sono curiosi.

Ma come è possibile allenare la curiosità e le competenze? Affrontando le proprie paure e facendo domande, ma anche vivendo appieno nuove esperienze da cui apprendere, come le nostre transizioni di vita. Fondamentale è concentrarsi su ciò che amiamo fare, provando e magari sbagliando, dando spazio a tutte le nostre dimensioni identitarie, non solo quelle lavorative.

Qualunque forma assuma la curiosità, ci aiuterà a mantenere una mentalità flessibile e consapevole, ampliando la nostra prospettiva e preparandoci a un nuovo apprendimento.

Tutti gli eventi della vita possono arricchire il curriculum. Perché invece le più intense esperienze di vita vengono trattate come un ‘vuoto’ nella carriera professionale? Due esempi: il congedo per la nascita di un figlio (il 20% delle donne in Italia dà le dimissioni dopo la maternità) e il tempo dedicato alla cura di una persona cara, come un genitore anziano (il 28% dei caregiver ammette di vivere questa condizione come uno stigma sul lavoro).

Eppure si tratta di motori di attività quotidiane che migliorano ben 63 competenze! È ora di cambiare radicalmente la cultura e iniziare a considerare queste esperienze come dei veri e propri master nel curriculum vitae delle persone.

Da questo presupposto è nata #MyRealCv, la campagna digital di Lifeed che promuove la consapevolezza delle competenze allenate attraverso le esperienze di vita (come diventare genitori, prendersi cura di una persona non autosufficiente, vivere un divorzio, un trasloco, un nuovo lavoro…), vedendole nella loro complessità come occasioni che arricchiscono il curriculum vitae e realizzando così una migliore sinergia tra vita e lavoro. 

Le competenze della vita meritano di essere valorizzate

La campagna, realizzata collaborazione con l’agenzia di comunicazione Cookies & Partners, vuole spingere un cambiamento culturale a partire dalla creazione di una community – canali social Facebook, Instagram e LinkedIn – e dai partner di Lifeed, per poi svilupparsi in maniera più ampia grazie al coinvolgimento di influencer scelti perché rappresentano quanto sia importante trovare una sinergia tra vita e lavoro, e quanto i cambiamenti di vita spingano in questa direzione. 

“Si chiama ‘curriculum vitae’, ma purtroppo spesso perde di vista la vita, con la conseguenza di sprecare risorse utili alla società e al mondo del lavoro – afferma Riccarda Zezza, CEO di Lifeed Con questa campagna proponiamo un cambio di paradigma che renda tutte le persone più consapevoli che gli eventi della vita producono competenze che meritano di essere valorizzate nella vita professionale perché ‘funzionano’ anche lì”.

La campagna è volutamente giocosa e aperta a tutti: un test composto da alcune domande individua i cambiamenti principali che le persone stanno attraversando, invitandole a scegliere quali competenze associarvi. La persona riceve quindi un report che indica le capacità sviluppate e da inserire nel CV. 

Lifeed, proprio per il suo approccio innovativo al mondo del lavoro, è la prima e unica impresa italiana tra le 16 aziende selezionate dal network internazionale Unreasonable Group che riunisce innovatori dirompenti e imprenditori per entrare nella community di Unreasonable Future, il programma creato con l’obiettivo di co-progettare il futuro del lavoro.

Fai il test #MyRealCV

La Diversity & Inclusion (D&I) non riguarda solo il management e la gestione HR, ma l’intera società che vogliamo abitare. Costruire un’impresa inclusiva significa infatti contribuire alla creazione di una società più inclusiva, con la consapevolezza che siamo tutti diversi e ognuno può portare il suo contributo unico a questa missione collettiva.

La pandemia ha avuto un impatto sulle strategie di D&I delle aziende che, soprattutto in tempo di crisi, sono chiamate a prendersi cura dei propri dipendenti. In che modo le imprese hanno mantenuto il loro impegno su questo versante, nonostante l’effetto covid e le nuove priorità che questo ha comportato? Quali nuove iniziative sono state messe in piedi? Se ne è discusso nel digital talk Promuovere la diversità nella nuova normalità organizzato da Comunicazione Italiana in collaborazione con Lifeed.

Innanzitutto è importante considerare l’approccio che le aziende hanno alla D&I. “Per valorizzare le differenze è necessario prima vederle: riconoscere cioè le peculiarità che rendono unica ogni persona, in virtù delle esperienze, dei cambiamenti e dei ruoli che sperimenta in ogni dimensione di vita, privata e professionale, spiega Chiara Bacilieri, Head of Data di Lifeed. Diversità è quindi valorizzazione delle caratteristiche uniche del singolo all’interno di un team eterogeneo che “può essere più efficace se le persone sanno apprendere dalle reciproche differenze e peculiarità”.

Tutto ciò si traduce nel “role enrichment” delle persone che possono trasferire competenze soft tra ruoli ed esperienze di vita e lavoro (la genitorialità, il caregiving, la pandemia, un divorzio, un trasloco, un cambiamento professionale). Inoltre, da un’analisi di Lifeed sulle emozioni e i desideri legati ai nostri spazi di vita sono emersi i principali valori in cui le persone si rispecchiano e a cui aspirano per il futuro, che toccano anche le nuove modalità di lavoro e di conciliazione tra vita privata e vita lavorativa: il rispetto, l’inclusione e la valorizzazione del singolo. Indicazioni, queste, fondamentali per le strategie di D&I delle aziende.

Tutti hanno un talento per portare valore aggiunto 

La D&I si può anche considerare come “un ingrediente della ricetta’ del benessere organizzativo”, sostiene Alessandra Benevolo, HR Director Italy & HR Cluster Head South Europe di Ipsen, azienda farmaceutica certificata dal Winning Women Institute e dal Forum della meritocrazia. Nel considerare il dipendente come un unicum, senza distinzioni tra vita privata e lavorativa, è importante maturare la consapevolezza che “tutti hanno un talento per portare valore aggiunto all’azienda”. Secondo Benevolo, “bisogna saper far parlare tra loro in modo efficace la Diversity e l’Inclusion” che si declinano non solo nelle politiche di gender e nelle percentuali, ma in tutte le diversità e nella pratica quotidiana.

La pandemia ha anche accelerato le iniziative di D&I delle aziende. Nell’esperienza di Lina Donnarumma, Human Capital and Organization Manager dell’Istituto Italiano di Tecnologia, l’inclusione durante l’emergenza covid si è tradotta nella capacità di mantenere attivo l’engagement a distanza delle persone, le quali hanno manifestato la necessità di sentirsi coinvolte”. L’azienda si è quindi dotata di una strategia D&I fondata su quattro pilastri: benessere (prendersi cura delle persone, anche con un supporto psicologico); parità di genere (gender equality plan, parità salariale, wellbeing); cultura della D&I come valore aggiunto (mettere al centro l’autenticità di ognuno); impatto sociale delle politiche sui territori in cui l’azienda è presente.

Se le persone si sentono accolte, lavorano meglio

L’attenzione all’ascolto delle persone in ottica di inclusione è un aspetto sottolineato da Lavinia Lenti, Direttrice Risorse Umane di Sace, secondo cui “la coesione del team è fondamentale per raggiungere gli obiettivi”. Infatti, la D&I è anche un elemento di performance: “Se le persone si sentono accolte, lavorano meglio”. Oltre ai numeri e KPI, l’azienda ha puntato sull’aspetto culturale per sensibilizzare i manager sulle tematiche D&I e sulla collaborazione tra generazioni diverse, avviando un progetto di reverse mentoring tra personale junior e senior, oltre a un progetto di sostegno alla genitorialità in collaborazione con Lifeed.

In un certo senso, la pandemia ha anche ‘aiutato’ i manager a capire meglio le necessità delle persone, come sottolinea Raffaella Maderna, People & Communication Director di Lundbeck Italia, dove la diversità di genere è sintetizzata dai numeri, con il 58% della popolazione aziendale rappresentato da donne. “Lavoriamo per promuovere comportamenti virtuosi su aspetti come la violenza sulle donne e la salute mentale. Con la crisi abbiamo accelerato le nostre azioni di People care per comprendere le problematiche delle persone e favorire la loro salute mentale, perché la persona va ascoltata e capita”.

La D&I passa anche dal rispetto delle culture 

Sull’importanza dell’ascolto come leva delle iniziative di D&I concorda Gessica Perego, Global HRBP Information Services & Regional HR Director South Europe, Middle East & Africa di Coface Assicurazioni.La D&I non va divisa in ‘silos’, ma significa ascoltare di più i bisogni delle persone”. Perego sottolinea poi l’aspetto della multiculturalità: “Lavoriamo con tante culture diverse e, nel periodo della pandemia e del remote working, abbiamo imparato ad ascoltare di più le persone, capendo per esempio che in certe culture le persone preferivano stare in ufficio invece di lavorare da casa”. Un concetto più ampio legato alla D&I riguarda quindi il rispetto degli altri nelle loro culture e situazioni.

Con la pandemia e lo Smart working sono venute meno alcune barriere tradizionali, per esempio quelle tra uomini e donne nella sfera familiare. Per Luca Miglierina, HR Business Partner e D&I Lead di Sanofi, “l’emergenza in cui ci siamo trovati ha anche dato slancio a iniziative di maggiore inclusione”, che nell’azienda farmaceutica si concentrano su quattro aree principali: gender balance, disabilità, LGBT, Ageing. “A livello global, abbiamo lanciato la strategia ‘All in’ basata su tre pillar: reflect, per riflettere sulle diversità delle comunità in cui operiamo; unleash, per intendere Sanofi come il contesto per sprigionare il proprio potenziale e sentirsi accolti; transform, per avere un’influenza positiva sulla società in cui siamo presenti”.

Infine, ci si può chiedere se sia necessario mettere in campo iniziative ad hoc di D&I. La questione viene posta da Antonella Zaghini, Responsabile CSR, Peace Manager di Guna: “Non abbiamo avuto bisogno di policy, non viviamo la Diversity perché abbiamo sempre un’attenzione all’essere umano senza bisogno di bilanciare le varie componenti della D&I, come il gender o la parità salariale. Con la pandemia, sulle reti esterne abbiamo aiutato chi si è trovato a lavorare da remoto sia a livello psicologico sia organizzativo. Internamente, abbiamo favorito l’uso di device portatili per mantenere il senso di inclusione anche a distanza. L’etica è il nostro punto forte di riferimento”.

Nella delicata fase di ripresa post-emergenza covid, in cui l’economia del nostro Paese riscopre cifre che sembravano dimenticate (l’Istat stima un +4,7% del Pil nel 2021), le aziende affrontano una duplice sfida: mantenere alta la produttività dei dipendenti e, allo stesso tempo, garantire la sostenibilità dell’impresa che passa da azioni mirate di welfare.

Il benessere e il coinvolgimento delle persone sono sempre più centrali nelle strategie aziendali, soprattutto nella fase di rientro graduale in ufficio dopo il lungo periodo di pandemia che ha aumentato i livelli di stress e incertezza: questo significa, per i manager, rispondere in modo efficace ai bisogni dei dipendenti in termini di conciliazione vita-lavoro, Employee satisfaction ed engagement.

Secondo recenti ricerche, nel 2021, complici l’emergenza sanitaria e la crisi economica, gli italiani hanno fatto leva soprattutto sulla retribuzione e in particolare su un impiego fisso nella scelta di restare o abbandonare la propria azienda. Ma c’è un fattore che spesso non viene considerato prioritario: il wellbeing. La pandemia ha reso ancora più evidente la sinergia tra vita privata e lavoro delle persone, le quali oggi manifestano numerose necessità proprio in questo ambito.

La soddisfazione genera produttività

Altri aspetti come meritocrazia e gender gap si aggiungono a tutto questo con effetti (positivi o negativi a seconda dei casi) sulla motivazione dei dipendenti. Lo teorizzava, già nel 1968, lo psicologo americano Frederick Herzberg, che nel paper One more time: How do you motivate employees?, sottolineava come sia necessario poter distinguere tra azione e motivazione e come proprio l’aspetto motivazionale dei lavoratori diventi un fattore determinante per una azienda.

Secondo lo studioso americano, i dipendenti che si trovano maggiormente in sintonia con la vision dell’azienda e che si sentono coinvolti in un processo di sviluppo e crescita professionale, sono maggiormente motivati e aderiscono più facilmente agli obiettivi dell’impresa, lavorando con passione per far crescere la reputazione e produttività dell’azienda stessa.

Fare spazio alle emozioni

Maggiore soddisfazione, dunque, genera maggiore produttività. D’altra parte, stiamo vivendo un grande processo di cambiamento sociale ed è per questo che, per far ‘stare bene’ le persone al lavoro, non possiamo più evitare di considerare le emozioni come parte integrante del modus vivendi all’interno di un’azienda. Vivere e condividere le proprie emozioni anche al lavoro (senza confinarle a spazi privati) può essere un fattore chiave per la retention, l’engagement e la produttività delle persone.

Per raggiungere questi obiettivi, gioca un ruolo fondamentale il dialogo interno al proprio team aziendale. La sfida per i manager, soprattutto i responsabili HR, è quella di mantenere vivo questo dialogo anche nelle nuove modalità di lavoro a distanza, mettendo sempre al centro le persone e i loro bisogni.

La Human sustainability avrà un’importanza sempre più strategica per le aziende: ciò significa prendersi cura dei dipendenti ogni giorno, uscendo dai confini professionali per supportare il loro benessere che è motore di innovazione e di produttività.

Ed è da qui che si può sviluppare il concetto di HR footprint, l’impronta che i manager delle Risorse Umane possono lasciare nel mondo del lavoro, per favorire una nuova visione del capitale umano.

In un mercato sempre più competitivo, i temi di engagement, retention e benessere acquisiscono una rilevanza strategica per le aziende. Tuttavia, non sempre c’è piena consapevolezza di come si ottengano risultati ottimali in questi ambiti. Secondo quanto scrive l’Harvard Business Review, per trattenere i propri talenti, la maggior parte delle organizzazioni offre aumenti salariali, benefit economici o formativi e misure di welfare.

Sono aspetti certamente importanti, ma è dimostrato come niente di tutto questo basti per un dipendente che non si sente a suo agio nell’ambiente di lavoro. Il primo e fondamentale elemento per essere competitivi è il riconoscimento di tutte le dimensioni identitarie dei lavoratori. Non solo come professionisti, ma anche (e prima di tutto) come persone a 360 gradi.

Conoscere i propri dipendenti per generare ricchezza

I dipendenti che differiscono dalla maggior parte dei loro colleghi per religione, genere, background socio-economico o età spesso nascondono aspetti importanti di se stessi, per paura di conseguenze negative. Ciò rende difficile per le aziende essere veramente attrattive, con quanto ne consegue in termini di reputazione, produttività e vantaggio competitivo. Per i dipendenti, risulta pressoché impossibile sentirsi effettivamente legati all’impresa per cui operano. La chiave per un vera inclusione è capire chi sono veramente i propri dipendenti.

Molte organizzazioni conducono sondaggi sul coinvolgimento delle loro persone, ma la maggior parte trascura di analizzare in maniera profonda i dati raccolti attraverso l’ascolto delle persone, perdendo così molte opportunità di identificare eventuali problemi alla base di un’inefficace strategia di Diversity&Inclusion.

 

La diversità è una ricchezza solo se gestita

Per questa ragione, la Diversity è un’opportunità che diventa una ricchezza solo se gestita, altrimenti rischia di sfociare in conflitto. In un team, essa è un valore aggiunto solo quando c’è consapevolezza: in questo senso, le aziende non possono più limitarsi ad agire con la logica delle quote sui temi di gender equality e work-life balance.

Non è sufficiente inserire elementi differenziali al proprio interno (per esempio assumere più donne o persone di etnie diverse) senza far seguire un’opportuna elaborazione, altrimenti la D&I rischia di diventare una ‘moda’, qualcosa che non stimola più ricerca, domande, attenzione, ma una sorta di ‘dovere da adempiere’. È fondamentale, dunque, che le aziende investano su una vera valorizzazione delle differenze, agendo sulla formazione dei manager in un’ottica di caring leadership e lavorando sul riconoscimento delle competenze trasversali dei collaboratori, partendo da quelle acquisite grazie alle loro esperienze di vita.

 

Le contraddizioni del curriculum vitae

Basti pensare quanto sia contraddittorio basare le valutazioni di carriera su un classico curriculum vitae’ che, a dispetto del nome stesso, contiene indicazioni solo sulla vita lavorativa della persona. Se ne è accorto anche LinkedIn, che, fino alla ‘denuncia’ di una giovane madre, Heather Bolan, non permetteva di scegliere, dal menù a tendina, altre professioni che non fossero quelle codificate. Così, coloro che avevano ‘preso una pausa’ dal lavoro, tradizionalmente inteso, magari per viaggiare, per assistere un famigliare, per curarsi, si ritrovavano con imbarazzanti ‘buchi’ nel proprio CV, generando sospetto e diffidenza tra i recruiter.

Eppure, durante le transizioni di vita e le attività di cura sono tante le competenze soft che si apprendono e che possono essere valorizzate in termini professionali. Persino LinkedIn, dunque, è diventato più flessibile e ora consente di  esplicitare scelte di vita che, sebbene non strettamente lavorative, evidenziano fortemente il valore anche professionale di una persona.

 

I People Analytics come strumento chiave

Riconoscere la diversità e valorizzarla è la chiave, dunque, per renderla ricchezza: perché ciò avvenga, bisogna essere in grado, in primo luogo, di leggere i dati che vengono raccolti in azienda. Occorre imparare a fare le domande giuste, rivolgendosi alle persone nella propria interezza, per scongiurare il rischio di generalizzazione. L’attività di People Analytics non deve fermarsi alla punta dell’iceberg, ma deve estendersi a tutte le dimensioni della persona.

Accanto ai cosiddetti Big Data (prendendo in prestito dal Marketing questa espressione), a cui i più si limitano, troviamo tutto un mondo sommerso di Small Data. L’autonarrazione delle persone può essere uno strumento di emersione della parte sottostante dell’iceberg: occorre, però, che i manager siamo formati nel modo giusto per ascoltare ‘mentre’ le persone si formano.

L’importanza della caring leadership per la D&I

La diversità è innovazione se le aziende (a partire dai leader) sono capaci di mettere in luce l’elemento di diversità che c’è in ognuno e la sua portata positiva in termini di capacità di visione laterale, creatività e azione.

Anche la pratica del feedback deve tenere conto dell’insieme delle caratteristiche della persona che si ha di fronte. Altrimenti, questo sistema di valutazione, invece che essere di stimolo al miglioramento, può far precipitare la produttività dei dipendenti e, con essa, la brand reputation (che parte proprio dall’interno delle aziende).

L’ascolto richiede impegno ed è faticoso, certo. Ma è un investimento: i manager possono dedicare tempo all’ascolto per vederne i benefici futuri. Non si deve temere il cambiamento che questo può generare in azienda: ogni transizione, di vita o professionale, porta con sé una ricchezza, se gestita. Occorre solo imparare a farlo.

La genitorialità viene considerata spesso un’esperienza che mette a rischio l’efficacia professionale. In realtà, diventare genitori è una straordinaria occasione di crescita, anche sul lavoro. Nel rapporto quotidiano con i figli, le persone allenano skill relazionali, organizzative e dell’innovazione creando una sinergia tra vita privata e lavorativa.

Va proprio in questa direzione la strategia di EY per promuovere una nuova cultura aziendale dove la possibilità di dedicarsi alla cura di sé e dei propri figli non sia soltanto un concetto astratto, ma una realtà concreta e attuabile. Da questo spunto prende il via un duplice impegno: da una parte la trasformazione e l’ampliamento di programmi e di policy aziendali ispirate a strumenti innovativi e nuove possibilità per dipendenti e collaboratori. Dall’altra, l’introduzione di un percorso di alta formazione, realizzato in collaborazione con Lifeed, a supporto della cura dei genitori (con figli di età da 0 a 3 anni) sia come professionisti che come individui.

“Vogliamo supportare la genitorialità permettendo alle nostre persone di dedicare più tempo ai figli, mettendo a loro disposizione ambiziosi percorsi di crescita personale e professionale. Per questo abbiamo scelto un programma di eccellenza per accompagnare i neo-genitori nel loro percorso e dotarli di strumenti utili a valorizzare le competenze acquisite durante la cura della propria famiglia”, dichiara Massimo Antonelli, AD di EY in Italia e Managing Partner dell’Area Mediterranea.

Il progetto You Care You Learn 

L’arrivo di un figlio è un’esperienza unica a livello emotivo e psicologico che corrisponde a un cambiamento radicale e di grande crescita nella vita di ambedue i genitori. Il concetto di cura presuppone lo sviluppo e il rafforzamento di competenze relazionali, creative e organizzative che in precedenza venivano poco o per nulla sfruttate.

Problem solving, risk taking, decision making, sono solo alcune delle skills connesse alla genitorialità, ma che possono essere decisive non solo a livello personale ma anche professionale. Alla base del progetto You Care You Learn di Lifeed per EY c’è il presupposto che diventare genitore non debba essere visto come un ostacolo alla sfera professionale, ma anzi restituisca professionisti con competenze accresciute. Il percorso di alta formazione digitale mette al centro self learning e crescita personale e si basa su un approccio rivoluzionario di sinergia tra genitorialità e lavoro.

Il programma, che si fonda sulla metodologia Life Base Learning, è articolato in diversi strumenti:

lezioni in modalità micro-learning con materiali multimediali
moduli formativi incentrati sulle diverse competenze
missioni real-life per confrontare quanto emerso durante il percorso con la propria realtà quotidiana
stanze collettive per condividere e confrontare esperienze e riflessioni con gli altri genitori presenti sulla piattaforma

Grazie al percorso formativo di Lifeed possono essere allenate diverse competenze chiave nella vita professionale e personale di ciascuno di noi:

Relazionali: empatia, ascolto, comunicazione
Organizzative: delega, gestione del tempo e delle complessità, saper prendere decisioni
Di innovazione: problem solving, creatività, gestione del cambiamento

You Care You Learn di Lifeed permette ai neogenitori di EY di vivere l’esperienza genitoriale e del prendersi cura, sviluppando nuove competenze e imparando il metodo per trasferirle da un ambito all’altro della vita.

Valore umano per entrambi i genitori

Secondo la filosofia EY, essere genitore è una fondamentale esperienza di crescita personale in grado di creare valore umano per entrambi i genitori. A tale scopo l’azienda ha deciso di supportare i neo genitori sia in termini di tempo a disposizione da dedicare alla cura dei figli che di sostegno economico.

Nel primo caso, EY riconosce ai nuovi papà con figli anche adottivi ulteriori 10 giorni in aggiunta ai 10 giorni di congedo di paternità previsti per legge (per la donna tale periodo è di 5 mesi). L’obiettivo è permettere ai propri dipendenti di poter stare con la famiglia per un periodo di 20 giorni consecutivi.

La nuova policy aziendale inoltre prevede la trasformazione del bonus mamme in bonus genitori. In pratica, il rimborso economico disponibile per aiutare le neo mamme nel sostenere le spese di asili nido e baby sitter nei primi mesi dopo il rientro al lavoro, già presente nel welfare aziendale, viene esteso anche ai papà, sia dipendenti dell’azienda che liberi professionisti.