La pandemia ha accelerato l’evoluzione dei modelli organizzativi attraverso tre spinte principali: digitalizzazione, sostenibilità, potere dei consumatori e dei giovani talenti sulle scelte e le azioni delle aziende. In questa fase di svolta, al centro dell’attenzione delle aziende ci sono dimensioni ‘nuove’ come benessere, fiducia, collaborazione, rispetto, leadership diffusa e scopo condiviso, sulla scia del modello d’impresa olivettiano.

Fu proprio Adriano Olivetti a sostenere che la vita delle persone dovesse entrare maggiormente nella fabbrica. “Oggi viviamo ancora un paradosso nel mondo del lavoro, che vede le persone divise tra vita privata e attività professionale, ma abbiamo l’occasione di estendere le mappe delle aziende per comprendere al loro interno le nostre vite”, ha spiegato Riccarda Zezza CEO di Lifeed nell’ambito dell’incontro Organizzazioni per le persone o Persone per le organizzazioni? del 50esimo Congresso Nazionale Aidp, in cui ha dialogato con Isaac Getz, professore alla ESCP Business School, saggista e tra i protagonisti del movimento globale di liberazione aziendale.

Non dovrebbe essere strano parlare di aziende altruiste oggi, ma fino all’inizio della pandemia e del remote working forzato la vita delle persone è stata lasciata fuori dagli uffici. “Solo adesso la complessità delle nostre vite (che in realtà era già esistente) è diventata visibile”, ha sottolineato Riccarda Zezza. “In passato ci sembrava ovvio ‘conciliare’ vita e lavoro, ma prenderci cura degli altri fa parte della nostra natura umana, è un istinto primario della nostra specie che fa emergere in noi responsabilità e ci rende agenti del cambiamento”.

Le aziende ‘egoiste’ lasciano tutto questo fuori dai loro ‘recinti’. Ma le risorse delle persone sono già presenti all’interno delle imprese. “Per scardinare le vecchie cornici, il movimento da fare non è aggiungere nuove forme alle persone in direzione top-down, bensì dare spazio alle loro dimensioni identitarie. Portando la vita nel lavoro, dunque, è possibile costruire economie e società altruiste”.

Prendersi cura del proprio ecosistema di business

Come può tradursi tutto questo, concretamente, nelle aziende oggi? Secondo Isaac Getz, le imprese altruiste hanno tre caratteristiche principali: “Si prendono cura di tutti i membri dell’ecosistema di business, agiscono in modo incondizionato e lo fanno attraverso tutti i loro processi di core business. Così raggiungono performance economiche elevate”. Con le loro azioni etiche nei confronti degli stakeholder, puntando sulla sostenibilità e su valori umani, queste imprese ottengono risultati di business positivi.

D’altra parte, secondo recenti studi, oggi l’87% dei Millennials crede che il successo di un’azienda non sia misurabile solo in termini finanziari e l’89% dei consumatori sarebbe disposto a lasciare un brand per un altro con una missione sociale.

Focalizzarsi sul valore sociale è dunque la chiave. “Persone, clienti, fornitori, comunità: il mix di questi ‘ingredienti’ porta alla ‘ciliegina sulla torta’, cioè il risultato economico, che è una conseguenza dell’approccio basato sulla cura del proprio ecosistema di business”.

I manager e i Direttori HR, secondo Getz, sono chiamati a cambiare le organizzazioni abbandonando l’approccio top-down e il proprio ego, abbracciando invece la visione altruista attraverso la spinta ai processi di core business con un valore sociale per i propri clienti, fornitori e comunità in cui operano, migliorando la vita degli ‘abitanti’ del loro ecosistema.

Ripensare, ridisegnare, trasformare: sono alcune delle parole chiave del percorso delle aziende verso il cosiddetto new normal post pandemia. In questo scenario, le competenze richieste dal mercato sono in continua evoluzione e la Direzione HR gioca un ruolo determinante per valorizzare il potenziale delle persone.

Oggi qualunque planning rischia di diventare obsoleto in poco tempo. Le competenze trasversali, legate alla capacità di apprendere e di pensare, sono le uniche su cui è possibile pianificare e servono in tutte le professioni, anche quelle tecniche. Ma la capacità di sapere quali competenze saranno utili in futuro non può essere attribuita solo in direzione top-down: è invece possibile utilizzare l’intelligenza collettiva, perché le persone stesse possono scoprire le proprie attitudini.

L’HR è protagonista del business

D’altra parte, oggi l’HR “non è più solo business partner, ma è il business stesso”, ha spiegato Alessandro Agosti, Direttore Risorse Umane di Findomestic. “L’HR accompagna le trasformazioni e può dare un’accelerazione decisiva al cambiamento anticipando i bisogni di nuove competenze”.

Secondo Andrea Bellina Head of Talent & Organization di Engie, la strategia è guidata dal business, ma a stretto contatto con l’HR che contribuisce a rendere concreta la strategia attraverso percorsi di formazione e riqualificazione. La tendenza oggi riguarda la ricerca di competenze legate alla gestione dei dati per comprendere gli scenari attuali e prevedere i trend del futuro.

Gli input di business e quelli dell’HR possono far trovare un equilibrio tra la ricerca di risorse sul mercato e la valorizzazione di competenze interne. In questo senso, “un approccio ‘plug-and-play’ non funziona, ma serve tempo per trasferire e sviluppare nuove competenze, anche in ottica generazionale”, ha affermato Alessandra Rizzi Group HR & Organization Director di BFF Banking Group. “La Direzione HR non basta da sola per anticipare le competenze, è un lavoro di squadra con il top management, serve un forte mandato di vertice per riuscire a non disperdere competenze e per garantire l’employability delle persone in questo periodo delicato”.

Le attitudini contano sempre di più

Oggi il tempo è un fattore chiave. “Dobbiamo prepararci al momento in cui il business cambierà per far fronte alla trasformazione dei consumi”, ha sottolineato Silvia Sulpizi, Senior HR manager Global Supply Chain di Baker Hughes, secondo cui è utile analizzare i comportamenti (non solo le hard skill) che serviranno nella transizione futura, per capire chi sarà pronto a mettersi in discussione.

Il workforce planning è fortemente legato alla strategia aziendale: per Luca Barbera, Head of Planning & Organization Global Power Generation di Enel Group, “capire i principali driver del business permette di pianificare l’evoluzione delle risorse interne. L’HR rappresenta una leva di creazione di valore all’interno della strategia dell’azienda, con l’obiettivo di riuscire a prevedere il futuro del lavoro”.

In questo contesto, non bastano competenze tecniche, ma servono anche “attitudini, startup mentality e approccio data-driven”. Sulla base delle attitudini, le persone possono anche cambiare ambito di lavoro e trovare nuove opportunità, per questo puntare sulla “contaminazione di saperi” può rivelarsi una strategia vincente, soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo oggi.

L’ascolto è emerso con forza come azione fondamentale per gestire le transizioni dall’evento Come ridisegnare la cultura organizzativa e il purpose aziendale post integrazione organizzato da HRC, a cui ha partecipato anche Riccarda Zezza, CEO di Lifeed.

Le persone hanno bisogno di ascolto reale

Nel corso dei cambiamenti c’è una lunga ‘terra di mezzo’ tra quel che si era e quel che si sarà, che nella scienza delle transizioni si chiama ‘zona neutra’: è qui che si può fare la differenza tra la creazione di una cultura organizzativa e di un nuovo purpose aziendale di successo e un lungo periodo di incertezza e confusione. Nelle transizioni ciò dipende dal modo in cui le persone di sentono viste nella loro identità.

“Ascolto, comunicazione e coinvolgimento sono i tre fattori chiave per tradurre la vision in purpose”, afferma Lea Tarchioni, Head of Pople & Organization Country Italy di Enel. “I nostri valori sono nati proprio dall’ascolto delle persone, che ci hanno chiesto di aprirci e di essere partecipi del cambiamento, quindi abbiamo sviluppato una filosofia ‘open power’. C’è bisogno di aprirsi al confronto, allo scambio di idee e di maggiore coinvolgimento a tutti i livelli nelle scelte”.

Nelle transizioni, infatti, le persone hanno bisogno di essere ascoltate e di fare un proprio punto mappa. Sono proprio la vicinanza e l’ascolto a far crescere l’engagement e il benessere.

Ma come è possibile ascoltare davvero? I focus group vanno in profondità ma non possono coinvolgere tutti, le domande chiuse delle survey possono limitare la ricchezza di quanto fanno emergere: sono strumenti appartenenti a una visione delle Risorse Umane pre-pandemia. E non si tratta di rispondere ai bisogni delle persone con la creazione di stanze ad hoc dove vederle, ascoltarle e farle stare bene.

Oggi la Direzione HR delle aziende ha a disposizione sufficiente conoscenza e tecnologia per effettuare un ‘ascolto mentre’: invece di pensare a nuovi luoghi per dedicarsi a questa attività, si può ascoltare le persone mentre si occupano di altro.

Secondo Marina Famiglietti, Head of HR di Borsa Italiana, “lo sforzo dell’HR deve andare verso un ascolto reale, anche se magari ciò consente di raggiungere meno persone rispetto alle survey, che spesso vengono viste dai dipendenti delle aziende come un finto ascolto”.

Ma non occorre scegliere tra molti e pochi: ascolto reale e benessere possono essere integrati in altre attività che già coinvolgono le persone, per esempio progetti di formazione, engagement, diversity o cultura, attraverso i percorsi di autoriflessione digitali Lifeed, che avvengono insieme al resto.

La cultura aziendale si forma con le persone

D’altra parte, oggi siamo tutti interconnessi. Attraverso appositi moduli digitali a domande aperte che stimolano riflessioni e autonarrazioni, è possibile ascoltare davvero le persone, senza ‘obbligarle’ a rispondere a sondaggi che creano cornici e bias. Così si possono generare contenuti che vanno ad arricchire la cultura aziendale e, allo stesso tempo, fanno sentire meglio le persone.

Si tratta quindi di innestare nell’organizzazione la possibilità di vedere le persone, ascoltarle e dare loro modo di contribuire mentre lavorano e mentre la nuova cultura aziendale si forma, perché si forma con loro, attraverso il loro modo di lavorare.

In questo senso, secondo Fausto Fusco, Direttore Risorse Umane del Gruppo Bip, “l’azienda deve capire chi vuole essere e coinvolgere la ‘pancia’ della popolazione aziendale. In Bip, per esempio, abbiamo creato nuovi percorsi di induction per i neoassunti per farli sentire davvero seguiti e ascoltati, a lungo”.

Certamente l’ascolto non deve essere fine a se stesso. “Deve avere uno scopo preciso per portare risultati tangibili”, sostiene Fabrizio Rauso, Director People, Organization and Digital eXperience di Sogei. “E il purpose deve essere ‘azionabile’, cioè deve trovare concretezza ogni giorno nell’attività delle persone”.

Purpose azionabile e motivazione possono nascere da un contesto dove le esperienze delle persone, ascoltate a valorizzate, arricchiscono la narrazione collettiva dell’azienda e le rendono co-autrici della cultura e della definizione del purpose, in quella che Ester Cadau, International HR Audit M&A, PAI-PMI Director di Groupe Atlantic definisce una vera e propria “visione filosofica delle risorse umane”.

Nei prossimi mesi parteciperemo anche ad altri HRD Square: non perdere gli appuntamenti in agenda!

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